05.26 – PRATICARE LA GIUSTIZIA (Matteo 6.1-4)

05.27– Praticare la GiustiziaI/II (Matteo 6.1-4)

1State attenti a non praticare la vostra giustizia davanti agli uomini per essere ammirati da loro, altrimenti non c’è ricompensa per voi presso il Padre vostro che è nei cieli. 2Dunque, quando fai l’elemosina, non suonare la tromba davanti a te, come fanno gli ipocriti nelle sinagoghe e nelle strade, per essere lodati dalla gente. In verità io vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. 3Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra, 4perché la tua elemosina resti nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà.”.

Nonostante il contenuto semplice ed immediato, questi versi implicano e ampliano sinteticamente concetti che svilupperemo per lo spazio di due incontri, ponendo delle basi su cui costruire anche i successivi insegnamenti di Gesù sulla preghiera e il digiuno. La prima precisazione riguarda il termine “giustizia”, diverso da quello sviluppato a suo tempo con la quarta beatitudine, “Beati quelli che sono affamati e assetati di giustizia, perché saranno saziati”: “giustizia”, nel brano oggetto di riflessione, è reso in vari modi nelle traduzioni, cioè con “elemosina” o il generico “buone opere”. Ora il termine “vostra giustizia” è riferito effettivamente alle opere buone che ogni pio israelita era tenuto a compiere cioè l’elemosina, la preghiera e il digiuno, argomenti sui quali Nostro Signore si soffermerà non poco e sempre facendo una divisione netta tra il valore che si dà alle cose secondo parametri umani e quanto appartiene all’ambito spirituale. Umano e spirituale sono due mondi, due blocchi distinti che comportano realtà, dimensioni assolutamente incompatibili ovunque, tanto nel mondo tangibile quanto in quello della quarta dimensione.

Se andiamo alla parabola del ricco e Lazzaro, a un certo punto Abrahamo dice al ricco: “Tra voi e noi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a voi” (Luca 16.26). Ebbene queste parole hanno una valenza a largo raggio perché riassumono delle esistenze che, in realtà, erano già divise dal “grande abisso” anche quando si svolgevano in terra. Ricordiamo le parole “chi non crede è già condannato” (Giovanni 3.18) che, pur indicando uno stato non definitivo perché la persona può sempre ravvedersi, inseriscono il condannato in un ambito preciso, diverso da chi è giustificato per fede. Per quanto la parabola sarà oggetto di studio a suo tempo, va detto che le parole su“coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono”, non vogliono sottintendere che ci sia qualcuno che dal “seno di Abrahamo” vuol raggiungere chi è nei tormenti, ma sono la risposta alla richiesta del ricco che pretendeva di avere ancora autorità sul povero Lazzaro che in vita aveva costantemente umiliato.

Venendo ad testo, le prime due parole che incontriamo sono un avvertimento, “State attenti”, cui segue uno sviluppo sulla divisione tra il mondo della carne e quello dello spirito. Non si tratta solo della descrizione di una condizione, ma delle conseguenze cui porta aderire a un mondo piuttosto che a un altro, che non possono essere trascurate: “State attenti”. Essendo la Sua parola una spada a due tagli, tutto il messaggio di Gesù si basa sulla divisione che essa produce e in questo caso va a colpire la realtà storica del suo uditorio, abituato a manifestazioni eclatanti nella gestione delle “buone opere” da parte dei suoi maestri: l’elemosina elargita sempre in pubblico, preghiere esternate con atteggiamenti quasi teatrali, digiuno accompagnato da aspetto mesto e sofferente. Nostro Signore quindi affronta i punti cardini di quella “giustizia” individuale secondo l’insegnamento (ed esempio) che scribi e farisei davano al popolo, nonostante tutta la loro scienza scritturale che avrebbe potuto aiutarli in un’onesta relazione con Dio.

Pensiamo: conoscevano il passo “O voi tutti che siete assetati, venite alle acque” (Isaia 55.1). Ebbene, anziché aderire a quell’invito avevano finito per realizzare ancora una volta il lamento “Hanno abbandonato me, fonte di acqua viva, e si sono scavati cisterne piene di crepe, che non contengono acqua”(Geremia 2.13). Ogni volta che l’uomo abbandona la vera via, quella spirituale e diretta che gli concede un accesso a Dio, e vuole fare da solo, scava cisterne inidonee, inutili se c’è una fonte eterna, già crepate in partenza e, sempre da Geremia, corre dietro al nulla, e nulla diventa (2.5). L’uomo si trasforma sempre in ciò che ama, cerca, arriva a formare un tutt’uno con lui.

Il tema del primo intervento di Nostro Signore sulle “buone opere” riguarda l’elemosina, quell’azione che chi ha è tenuto a compiere nei confronti del povero. Già abbiamo incontrato nel sermone sul monte alcuni cenni al dare a chi chiede, ma qui è diverso, è un riferimento a Deuteronomio 15.11 in cui è scritto “Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: «Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso sulla terra». Giobbe stesso, in uno dei suoi ultimi discorsi ai cosiddetti “amici” venuti a consolarlo dice “…soccorrevo il povero che chiedeva aiuto e l’orfano che ne era privo. La benedizione del disperato scendeva su di me e al cuore della vedova infondevo la gioia” (Giobbe 29.11,12).

Colpisce in entrambi i versi come sia non il dovere, ma l’immedesimazione nel prossimo sofferente il motore dell’azione che porta all’aiuto economico. Colpisce il fatto che Giobbe, vissuto nella dispensazione della coscienza, ai suoi tempi il più ricco degli uomini in Oriente definito “Integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male” (1.1), si immedesimasse a tal punto nella condizione di preoccupazione e sofferenza del suo prossimo indigente da rinunciare a parte dei suoi averi. Le sue non erano delle semplici offerte, che oggi ci sono e domani no, ma un sostentamento. E qui il confronto tra Giobbe e il ricco della parabola che abbiamo citato sorge spontaneo: l’uno teneva per sé ossessivamente, l’altro dava ritenendo ciò che possedeva uno strumento per aiutare l’altro. Anche qui, due mondi.

Quello dell’elemosina è per noi un tema delicato, essendo la realtà in cui viviamo molto più complessa di quella di allora: chi mendicava era realmente bisognoso mentre oggi sono molti quelli che vivono di espedienti, che oggi chiedono aiuto e domani rubano per cui aiutare in modo mirato chi veramente si trova in condizioni precarie è molto difficile; le stesse associazioni benefiche cui uno potrebbe far riferimento sono in realtà organizzazioni che cercano di trarre profitto anche dalla donazione più insignificante e le stesse strutture, anche religiose, che provvedono agli indigenti raramente rispettano il principio di sopperire prima ai bisogni dei poveri locali. E l’apostolo Paolo scrisse “Se uno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele” (1 Timoteo 5.8). Oggi ci sono delle congregazioni religiose che hanno sfrattato dalle loro strutture persone realmente povere, italiane, per ospitarne altre, straniere, confidando nell’aiuto economico dello Stato, cosa davvero molto triste e che di carità ha solo la parvenza esteriore.

Tornando alle parole di Gesù sull’elemosina, che nella sua forma corretta è un atteggiamento, uno spazio mentale e non un mero versare delle somme a qualcuno, vediamone lo sviluppo: c’è un’azione, l’esercizio della “giustizia” e poi due scopi, quello di guadagnarsi l’ammirazione altrui, oppure qualcosa compiuto in silenzio, nel segreto, che si esprime attraverso il naturale e semplice gesto del puro, disinteressato aiuto per il prossimo. Scegliere a quale aderire significa prendere una direzione che porta a conseguenzediametralmente opposte.

 

  1. Agire per avere l’altrui approvazione.

Chi cerca il pubblico è l’attore, cioè una persona che finge una condizione, uno stato d’animo che non gli appartiene, l’essere ciò che non è. Agisce per altri scopi, recita. E il greco, per indicare una simile persona, usa il sostantivo “ipocrita” adottato dalla lingua italiana che lo spiega con la definizione “simulatore di atteggiamenti o sentimenti esemplari”. Chi ha letto il Vangelo non può non associare l’ipocrita ai tradizionali oppositori di Gesù, gli Scribi e i Farisei, da lui così definiti in Matteo 23.27 e non solo: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti! Perché rassomigliate a sepolcri imbiancati, che di fuori appaiono belli, ma dentro sono piedi di ossa di morti e di ogni putredine!”. Poiché i sepolcri e relativi monumenti venivano imbiancati ogni anno il 15 del mese di Adar (febbraio – marzo) per evitare che i viandanti contraessero impurità toccandoli inavvertitamente, Nostro Signore fa un paragone assolutamente esaustivo con la condizione spirituale di questi personaggi. Anzi, in Luca 11.44 va oltre, sottolineando la loro pericolosità: “Guai a voi, perché siete come quei sepolcri che non si vedono e la gente vi passa sopra senza saperlo”. Con il primo paragone, quello dei sepolcri imbiancati, abbiamo un riferimento alla persona che fa di tutto per sembrare “per bene” e non lo è; con il secondo, invece, si ha il ritratto di colui che pare innocuo, ma in realtà danneggia profondamente gli altri con il suo esempio.

La religione, con l’esercizio così spinto della forma e della ritualità, rende impossibile l’espressione sana e semplice della fede, insegna non troppo trasversalmente a chi vi prende parte ai suoi riti che è l’apparenza quello che conta. Quando da bambino sono stato cresimato e qualcuno interessato alla pecunia mi ha fatto una foto ricordo, prima di scattare mi ha detto “metti le mani giunte e fa’ finta di pregare”. Fare finta era l’importante, senza quella messa in scena il ritratto non avrebbe avuto valore. E allora ecco che anche nel cristianesimo esiste il rischio di ridurre tutto a qualcosa di falsamente rappresentativo che, nella migliore delle ipotesi, snatura il messaggio originale e nella peggiore insinua nella mente di quanti vi si accostano l’idea che tutto si basi su un atteggiamento, una veste di distinzione, un paramento, mani giunte o alzate, belle musiche e canti. In una parola, effetti speciali. Viene allora spontaneo l’accostamento alle parole di rimprovero rivolte sempre ai Farisei: “Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filatteri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «Rabbi» dalla gente” (Matteo 23.3).

Avere l’ammirazione o l’approvazione degli uomini è qualcosa che conforta e soprattutto sazia la persona vanitosa che si sente realizzata quando gli altri le riconoscono un merito, ma oltre questo non si va. Non solo, ma ci si preclude la vera realizzazione spirituale come fecero quei capi del popolo che credettero in Gesù, ma senza rivelarsi: “Anche tra i capi, molti credettero in lui, ma a causa dei farisei non lo dichiaravano per non essere espulsi dalla sinagoga. Amavano infatti la gloria degli uomini più che la gloria di Dio” (Giovanni 12.42,43). Certo l’espulsione di cui parla Giovanni non era cosa da poco perché implicava l’esclusione dalla vita sociale di Israele: se quei capi de popolo di fossero rivelati, avrebbero perso la loro carica e ogni diritto.

Secondo le parole di Gesù, chi si comporta per avere l’approvazione altrui riceve il suo premio che consiste nell’ottenere ciò che cerca: l’altrui plauso.

Ecco però emergere ancora una volta in queste riflessioni la parabola che abbiamo già citato: il ricco, che aveva speso la sua vita per soddisfare la propria carne, si sentì dire “…lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti” (Luca 16.25): c’è un premio che si riscuote sulla terra e ce n’è un altro che si ottiene nella vita che viene dopo. Anche questi sono incompatibili, tra loro vi è “un profondo abisso”. Nella prossima parte esamineremo il secondo atteggiamento e cercheremo di sviluppare il significato del “vedere nel segreto”; per ora, vale l’avvertimento del primo verso, “State attenti”, teso a correggere l’idea che Dio sia costretto ad approvare e mettere “in conto di giustizia” qualunque buona azione che, in realtà, soddisfa esclusivamente la vanità personale. Sono i pochi centesimi dati come offerta nelle riunioni di Chiesa. Sono le donazioni anche cospicue in denaro date agli enti caritatevoli e pubblicizzate sui quotidiani o in televisione. Sono le ambulanze con su scritto “Dono della famiglia Tale”. È tutto ciò che viene fatto utilizzando la finta fede per avere un tornaconto personale, anche solo il cosiddetto “ritorno di immagine”. Perché le rivelazioni di Dio sono state sempre nel silenzio. Amen.

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05.25 – AMARE IL PROPRIO NEMICO (Matteo 5.43-48)

05.25 – Amare il proprio nemico (Matteo 5.43-48)

43Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimoe odierai il tuo nemico. 44Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano, 45affinché siate figli del Padre vostro che è nei cieli; egli fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti. 46Infatti, se amate quelli che vi amano, quale ricompensa ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? 47E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? 48Voi dunque, siate perfetti come è perfetto il padre vostro celeste”.

L’esposizione di Gesù su quanto insegnato dalla Legge e tramandato dai suoi maestri prosegue con la citazione di Levitico 19.18 in cui leggiamo “Non far vendetta e non servare odio a quelli del tuo popolo, anzi ama il tuo prossimo come te stesso”: da questo passo vediamo quanto fosse presente la considerazione in ciascun israelita dovesse tenere il suo prossimo che non era qualsiasi essere umano, ma in chi apparteneva allo stesso Israele in virtù del progetto salvifico che Dio aveva in serbo per lui. L’odio per il nemico, invece, non lo troviamo prescritto da nessuna parte della Scrittura e possiamo ritenere che fosse non tanto comandato, quanto tollerato da quanti che insegnavano la Legge, ritenendo gli altri popoli impuri. L’amore per il prossimo era allora ristretto, negli insegnamenti farisaici, ai soli connazionali e, restringendo il concetto di “prossimo”, gli anziani avevano tratto la conclusione che bisognava odiare il nemico, cioè chi “prossimo” non era. Non a caso i romani accusavano gli ebrei di “odium humani generis”, poi diventato capo d’accusa anche per i cristiani sotto la persecuzione neroniana del 64.

Ebbene, Gesù irrompe nella credenza popolare, nel facile acquisito umano ancora una volta con le parole “Ma io vi dico”, non tanto ordinando un cambio di atteggiamento, quanto piuttosto invitando a considerare quanto sia facile amare e odiare secondo il comportamento di chi ci circonda, oppure reagire secondo gli istinti in base a come il nostro prossimo si comporta con noi. Ancora un volta non ci viene detto che “dobbiamo essere buoni”, ma ci è chiesto di entrare in una dimensione corrispondente alla nostra fede che non è un’ideale, ma un modo di vivere che si basa su uno stato, una verità rivelata. L’amore non è qualcosa che può essere insegnato o praticato senza che sia mosso da qualcosa: non può essere simulato, ma deve appunto avere un motore, una motivazione profonda e questa la si trova e può esistere solo se siamo stati amati per primi da Dio, se il suo amore lo avvertiamo davvero. Allora, non potremo che comportarci come Lui. Il “Padre nostro che è nei cieli”, infatti, dando corso agli eventi naturali non fa distinzione tra buoni e cattivi, fa sorgere lo stesso sole e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, termini che si riferiscono alle condizioni di vita che cambiano a vantaggio o a svantaggio della persona perché possa riflettere, chiedere o ringraziare delle attenzioni che riceve, interrogarsi sul piano di Dio per lui e avvicinarglisi sempre di più. C’è sempre un motivo nelle cose che avvengono nella vita nostra e dei popoli; ricordiamo Atti 14.16,17: “Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che tutte le genti seguissero la loro strada, ma non ha cessato di dar prova di sé beneficiando, concedendovi dal cielo piogge per stagioni ricche di frutti e dandovi cibo in abbondanza per la letizia dei vostri cuori”. “Dar prova di sé” come ha fatto con la perfezione assoluta degli equilibri presenti in natura che l’uomo, non Lui, sta stravolgendo così tragicamente.

Il verbo “amare”, nonostante sia uno, in italiano ha tanti significati che però il greco suddivideva meglio avendo un verbo per indicare l’affezione morale (agapào) e un altro per l’affetto personale (filéo), chiaramente diversi e, nel verso in esame, è usato proprio il primo, che in questo caso allude chiaramente a una manifestazione fattiva che dimostra il desiderio per il bene altrui. E qui abbiamo un primo significato, un primo campo d’agire che esprime una netta separazione tra il comportamento del nemico e la pietà del giusto. Va ripetuto: l’odio per il nemico non è prescritto né raccomandato negli scritti dell’Antico né tantomeno del Nuovo Patto, anzi possiamo citare l’episodio in cui Saul, partito alla ricerca di Davide con tremila uomini per ucciderlo, fu trovato da Davide e dai suoi uomini in una caverna. Gli tagliò un lembo del mantello senza che se ne accorgesse – notare quanto fosse affilata la sua spada – e poi gli disse “Guarda, padre mio, guarda il lembo del tuo mantello nella mia mano. Quando ho staccato questo lembo dal tuo mantello nella caverna, non ti ho ucciso. Riconosci dunque e vedi che non c’è in me alcun male né ribellione, né ho peccato contro di te; invece tu vai insidiando la mia vita per sopprimerla. Sia giudice il Signore tra me e te e mi faccia giustizia il Signore nei tuoi confronti, ma la mia mano non sarà mai contro di te. (…). Il Signore sia arbitro e giudice fra me e te, veda e difenda la mia causa e mi liberi dalla tua mano” (1 Samuele 24.12-16).

Abbiamo già visto in una precedente riflessione che l’odio di Saul verso Davide fu generato dall’invidia. Ora è chiaro dal testo che Davide avrebbe potuto ucciderlo anziché tagliargli il mantello, ma ebbe pietà di lui e, invece di approfittare della possibilità che aveva in quel momento, decise di lasciare a Dio il compito di difenderlo, rimettendo a Lui il compito di giusto Giudice, mettendo così in secondo piano la propria vendetta. In quell’occasione Davide distinse la sua posizione da quella di Dio, non si intromise ed ebbe pietà del suo nemico o, meglio, di chi provava un odio umano nei suoi confronti. Tra l’altro va tenuto ben presente il rispetto che portava a Saul, unto re a differenza sua, per cui rispettò questa distinzione che era anche spirituale: poteva farsi giustizia da sé, ma chiese quella di Dio. Leggiamo in Proverbi 25.21,22 “Se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare. Se ha sete, dagli acqua da bere, perché così ammasserai carboni ardenti sul suo capo e il Signore ti ricompenserà”: perché? Perché così facendo non solo non avrai fatto a lui quello che certamente lui non avrebbe mai fatto a te, ma riconoscerai a Dio il potere di renderti giustizia! Chiediamoci che senso abbiano i “carboni ardenti”: sono la figura di un giudizio imminente e la frase “Il Signore ti ricompenserà” sta a indicare la benedizione conseguente dal fatto che chi si è comportato col nemico sfamandolo e dissetandolo ha dimostrato di estraniarsi dalla logica dell’ostilità così facile, umana, umiliante perché guarda sempre, ostinatamente, verso il basso.

L’amore per il nemico, quindi, trova il suo apice non nel fatto che si provi un sentimento positivo e di piena disponibilità nei suoi confronti, ma nel rifiuto dell’idea di vendetta. Un giorno conobbi una persona, credo depravata o dai principi quanto meno discutibili, che sosteneva di mettere in pratica questo metodo col fine specifico del radunare i “carboni ardenti” sul capo delle persone a lei ostili. Inutile dire che queste sue azioni si ritorcevano inevitabilmente contro di lei.

Ricordiamo invece l’agire di Gesù che “…insultato, non rispondeva con insulti. Maltrattato, non minacciava vendetta, ma si affidava a Colui che giudica con giustizia” (1 Pietro 3.9): se la fede è vera, autentica, la certezza assoluta del giudizio di Dio non prevale né si abbassa al livello del nemico. Ricordiamo le parole “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno” in cui Nostro Signore si fa intercessore dei soldati romani che lo crocifiggevano, per i quali altri non era che un semplice malfattore. Non condannò neppure i sommi sacerdoti, i capi del popolo, e il popolo stesso: lo fecero da soli quando, di fronte a Pilato che si lavò le mani pubblicamente a sottolineare la sua estraneità e contrarietà a quell’esecuzione, dissero “Il suo sangue ricada sopra di noi e sopra i nostri figli” (Matteo 27.24-26). Ricordiamo anche Stefano che, lapidato dal Sinedrio, morì dicendo “Signore, non imputar loro questo peccato” (Atti 7.60): non era una frase detta “per fare bella figura”, ma una richiesta di perdono per quelli che, lapidandolo, si trovavano nelle stesse condizioni di Saulo da Tarso, poi diventato Paolo, presente e consenziente alla sua morte – “approvava la sua uccisione” –  (8.1). Tra di loro c’erano persone che erano veramente convinte di difendere la Legge e i Profeti ed erano in buona fede. Se Saulo avesse portato avanti la sua persecuzione come gli Scribi e i Farisei odiavano Gesù e lo ostacolavano anche senza argomenti, non sarebbe mai stato chiamato ad essere apostolo.

Il terzo significato delle parole di Gesù che stiamo esaminando è per la Chiesa, quella che dovrebbe essere la legittima e unica testimone di Cristo sulla terra: sotto questo aspetto sono chiare e illuminanti le parole “Da questo conosceranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13.35). “Se”, la condizione. Una Chiesa senza amore vero tra i fratelli è un albero senza frutti, è un’associazione religiosa fatta di persone che si comportano senza alcun segno distintivo che non consista in un riunirsi per abitudine, per essere a posto con la propria coscienza in un presunto ritenersi superiori a tutti coloro che non condividono il suo credo, i suoi equilibri fatti di usanze e dogmi più o meno veri, ma altrettanto più o meno vuoti. Una Chiesa, un cristiano senza amore ha già fallito ed è destinata o a spegnersi. Non a caso leggiamo a proposito della Chiesa di Gerusalemme queste parole: “Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno tutti insieme frequentavano il tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo della simpatia di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità coloro che erano salvati” (Atti 2.44-48). Alla mancanza di amore spirituale non si può che sopperire se non con quello umano, ingannevole, lo stesso facile dell’amare chi ci ama e il salutare settariamente solo i propri fratelli; la stessa cosa la facevano i pubblicani e i pagani citati da Gesù col fine di suscitare disagio nel suo uditorio: io odio pubblicani e pagani e poi mi comporto come loro.

Credo che di tutto il discorso di Nostro Signore che abbiamo esaminato, sia l’ultima parte la più impegnativa. Con quel “Siate perfetti come lo è il Padre vostro che è nei cieli”, non furono pochi quelli che, tra i presenti, pensarono alle parole di Dio ad Abrahamo “Io sono Dio l’Onnipotente, cammina davanti a me e sii integro” (Genesi 17.1). Come può un mortale essere trovato integro da Colui che è tre volte Santo? Camminando davanti a Lui, cioè avendo presente la propria identità da un lato e la Sua dall’altro, “tendendo alla perfezione” come scrive l’apostolo Paolo ai Corinti, oppure ai Filippesi in 3.12-15: “Non ho certo raggiunto la meta, non sono arrivato alla perfezione, ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù. Fratelli, io non ritengo ancora di averla conquistata. So soltanto questo: dimenticando ciò che mi sta alle spalle e proteso verso ciò che mi sta di fronte, corro verso la meta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù”.

Questa era l’esperienza di Paolo, il suo cammino. Non lo faceva da solo, ma invitava tutti i credenti a fare lo stesso talché in Colossesi 2.6,7 scriveva “Come dunque avete accolto Cristo Gesù, in lui camminate, radicati e costruiti su di lui, saldi nella fede come vi è stato insegnato, sovrabbondando nel rendimento di grazie”.

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05.24 – OCCHIO PER OCCHIO II/II (MATTEO 5.38-42)

5.24 – Occhio per occhio II (Matteo 5.38-42)

38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera un prestito da te non voltar le spalle”.

  Due mondi a confronto. Mondi diversi, incompatibili. Così distanti esattamente come la luce dalle tenebre. Ma sappiamo che la prima cosa a venire creata fu lei e ciò avvenne tramite un ordine di Dio, quindi essa, considerata come realtà fisica, non apparteneva alla condizione originaria, allo stato veramente naturale in cui si trovava il nulla, quel “deserto e vuoto” con “le tenebre che ricoprivano la faccia dell’abisso”; senza quel “sia la luce”, esse sarebbero ancora lì, nella loro immobilità e immutabilità. Si può dire allora che, con le parole che abbiamo letto in Matteo, Gesù contrappone il comportamento di chi appartiene alle tenebre a quello di chi si identifica nel loro esatto opposto. E vive.

Allora Nostro Signore esorta i suoi uditori a un comportamento non da persona pacifica, buona o debole, ma proporzionale all’acquisizione del principio di appartenergli. Attenzione che tutto questo riguarda la persona nella profondità del proprio essere, è qualcosa di individuale, a nessuno è ordinato di rinunciare a difendere i propri cari o il proprio legittimo ambito operativo; piuttosto a comportarsi tenendo sempre presente chi si è, la dignità acquisita come figli di Dio: apparteniamo alla Chiesa, cioè siamo stati fatti “concittadini dei santi, e membri della famiglia di Dio”? Il nostro vero mondo è un altro, forma un tutt’uno con la nostra destinazione, il nostro essere che, nel suo esprimersi, nel momento in cui vive spiritualmente, va da sé che si distacchi profondamente, anche nelle sue reazioni, dal sentire e dall’agire comune.

Le parole di Gesù sono indirizzate a persone che avevano una base culturale diversa dalla nostra: sapevano che doveva arrivare un inviato di Dio, la loro vita non aveva né i nostri ritmi né i nostri tempi, era diffusa la certezza dell’aiuto di Dio e del principio della responsabilità individuale nei rapporti con Lui, della benedizione o della maledizione a seconda di come si operava. Ecco allora che, citando la tunica che si portava sopra la camicia, e soprattutto il mantello, era implicito il riferimento alla Legge che ammoniva così: “Se prendi in pegno il mantello del tuo prossimo, glielo renderai prima del tramonto del sole perché è la sola sua coperta, è il mantello per la sua pelle: come potrebbe coprirsi dormendo? Altrimenti, quando griderà verso di me, io l’ascolterò, perché sono pietoso”(Esodo 22.6).

Notiamo da questo verso che c’è un principio di giustizia visto nel fatto che l’”Io sono”, rivelatosi al popolo d’Israele come il liberatore dalla schiavitù d’Egitto, quindi con “mano potente”, provvede di fronte alle rimostranze del povero che chiede giustizia. Rileggiamo il verso: “Altrimenti– se non ti comporti rispettando il tuo prossimo nelle sue esigenze elementari – quando griderà verso di me– perché mi riconoscerà come l’unico Giudice – io lo ascolterò– e tu ne subirai le conseguenze – perché sono pietoso– e imparerai a tue spese cosa vuol dire fargli violenza”.

Il fatto che Dio interviene a difesa è una cosa che raramente si tiene presente. Ci sono persone che sono sempre pronte a pregare unicamente per le proprie necessità quasi come per fare degli scongiuri, ma non riflettono su quanto è presente di Dio nella loro vita, su quale posto gli lasciano occupare, distratti come sono dalle problematiche quotidiane. Sono persone ancorate alla consuetudine, ma ancora di più alla loro storia umana, alle proprie vicissitudini perché sono costantemente sotto tensione. Non consentono alla Grazia di agire in loro trasformandoli.

Ricordiamo sempre che i comportamenti di cui parla Nostro Signore nel passo su cui riflettiamo hanno senso esclusivamente perché c’è promessa difesa da parte Sua e che comunque la Legge, molto spesso “maltrattata” negli studi cristiani cui le si attribuisce esclusivamente un peso, si preoccupava di regolare anche i rapporti tra le persone. Prendiamo ad esempio Numeri 5.6: “Quando un uomo o una donna commette qualsiasi offesa contro qualcuno, così facendo commette un peccato contro il Signore e questa persona si rende colpevole”. Possiamo vedere anche Deuteronomio 24.12-18 che trascrivo in parte: “Se quell’uomo è povero, non andrai a dormire col suo pegno. Dovrai assolutamente restituirgli il pegno al tramonto del sole, perché egli possa dormire col suo mantello e benedirti. Questo ti sarà contato come un atto di giustizia agli occhi del Signore, tuo dio. Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli o uno dei forestieri che stanno nella tua terra, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima del tramonto del sole, perché egli è povero e a questo aspira. Così egli non griderà al Signore e tu non sarai in peccato. (…) Non lederai il diritto dello straniero e dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova. (…) Quando facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mantello, non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto, perciò ti comando di fare questo”. È un verso che è già stato citato, ma non fa male reinserirlo. E il motore di tutto qui è il ricordo della condizione in cui si versava un tempo, che provoca l’immedesimazione nella sofferenza del forestiero, dell’orfano e della vedova. E ciò che causa la reazione penalizzante di Dio è proprio il non ricordare ciò che eravamo rapportandolo a ciò che siamo, come nella parabola del creditore spietato.

È un verso, quello dell’immedesimazione nella altrui sofferenza e aspettative, che ci consente di rilevare la temperatura morale e spirituale del tempo in cui viviamo, poiché chi governa è andato molto oltre rispetto agli egoismi e alle nefandezze che i despoti del tempo biblico commettevano. Alla violenza primitiva, alle prepotenze chiaramente riconoscibili proprio perché si manifestavano attraverso di essa, se ne è sostituita una molto più apparentemente morbida, subdola, che non uccide ma spinge all’omicidio di sé o di altri. Annienta e falcia. È un processo irreversibile come i deterioramenti della terra su cui camminiamo, avvelenata e prossima ad esaurirsi, o della vera dignità della persona, a meno che non si rivolga all’Unico in grado di elevarla.

Rientro in tema e riporto le parole di un commento al passo sul “non resistere al malvagio” che stiamo meditando: “Le razionalizzazioni delle parole di Gesù non mostrano che le sue parole sono impraticabili o esagerate, ma semplicemente che il mondo cristiano non è mai stato disposto e non lo è tuttora a vivere secondo questa etica”. Sono parole che riflettono una condizione di malattia spirituale, poiché le esortazioni a comportarsi diversamente dall’umanamente ordinario non solo le troviamo scritte da Pietro e da Paolo, ma era un principio praticato nella Chiesa primitiva.

Arriviamo così al terzo caso, quello esposto al verso 41, che allude a un servizio forzato o alla presenza di un dominatore straniero. Il parallelo con l’Egitto è inevitabile: Israele non ottenne la libertà con una sommossa e neppure fu liberato da Mosè come condottiero “puro ed eroico”, ma da Dio che dispose gli eventi in modo tale che determinati avvenimenti si verificassero. Teniamo presente che la traduzione che usiamo in questo caso è molto sbrigativa: l’esempio non è di una persona prepotente che vuol costringere un’altra a percorrere un miglio, ma di chi requisisce arbitrariamente, in virtù della sua superiorità militare, uomini o bestiame per i suoi scopi. Chi aveva l’autorità per requisire era solitamente un corriere pubblico o un portatore di dispacci che si chiamava “Angàrios” da cui il verbo “Angaréuo” che significa “costringere qualcuno a fare un viaggio”. Da lì viene il nostro “angariare”. Ora gli ebrei, notoriamente, rifiutavano qualsiasi servizio al dominatore romano (teniamo presente come consideravano i pubblicani e le dispute sul fatto se fosse lecito o meno pagare le tasse) e quindi l’esortazione a percorrere due miglia anziché uno aveva molto da dire a chi aveva quel tipo di atteggiamento. E un miglio era l’equivalente di mille passi. È chiaro allora che impuntarsi per ragioni di principio non porta da nessuna parte, anzi, offrire un’assistenza per il doppio di quanto richiesto può costituire una testimonianza che vada a beneficio dell’angariante.

E arriviamo al quarto punto, quello del dare. Quattro sappiamo che è sinonimo di completezza umana e qui sono ritratti gli aspetti possibili del reagire. Come ci può essere chi è reattivo a fronte di un’aggressione perché forte di costituzione e chi invece è più incline a subire, così possiamo avere chi è attaccato alle proprie cose a tal punto da volerle tenere sempre per sé, accumularle. Purtroppo, “è mio” non lo dicono solo i bambini capricciosi, ma il voler possedere uomini o cose è una caratteristica del nostro genere. Anche qui gli ascoltatori di Gesù avevano un retroterra culturale che noi non abbiamo: “Il malvagio prende in prestito e non restituisce, ma il giusto ha compassione e dà in dono”(Proverbi 3.27,28). Ancora: “Chi ha pietà del povero fa un prestito al Signore, che gli darà la sua ricompensa”(19.17).

Viene così rinnovato per la quarta volta il principio della responsabilità. Siamo esortati a dare a chi ci chiede e a non voltar le spalle a chi desidera un prestito da noi, facendo però attenzione a non generalizzare il tutto sotto un falso buonismo, ma a considerare le necessità della persona: “A quelli che sono ricchi in questo mondo ordina di non essere orgogliosi, di non porre la speranza nell’instabilità delle ricchezze, ma in Dio, che tutto ci dà con abbondanza perché possiamo goderne. Facciano del bene, si arricchiscano di buone opere, siano pronti a dare e a condividere: così si metteranno da parte un buon capitale per il futuro, per acquistarsi la vera vita”(1 Timoteo 6.17,18).

Ecco, questo è un verso adatto per concludere queste riflessioni. Paolo scrive a Timoteo, suo discepolo e compagno d’opera, ricordandogli il tipo di esortazione da fare ai ricchi in denaro: non avrebbero dovuto essere orgogliosi, cioè ritenersi migliori di altri perché avevano una posizione sociale rilevante e quindi far leva sulle loro amicizie altolocate ed esclusive, né porre la speranza nella loro ricchezza, definita “instabile” perché può essere perduta (rubata, requisita, distrutta). Soprattutto Dio può chiamarli a sé senza dar loro l’opportunità per goderne, come nella parabola del ricco stolto. Avere ricchezze significa esserne dominati perché ci si deve adoperare affinché crescano, fruttino, non si svalutino e spesso il pensiero di perdere il denaro investito logora chi se ne occupa. La mentalità del mondo non comprende chi si comporta diversamente da lei perché chi appartiene al suo sistema si trova automaticamente inserito in una morale che non contempla favorire il prossimo, ma difendersi da lui a prescindere. È la legge della sopravvivenza espressa nell’antico adagio “mors tua, vita mea”.

Poi c’è qualcosa di illuminante, che riguarda la collettività a prescindere dalla eventuale ricchezza di ciascuno, cioè che la speranza va posta “in Dio, che tutto ci dà con abbondanza”, dove “tutto” e “abbondanza” dichiarano che quanto abbiamo come cristiani è progettato, costruito su misura per noi. C’è tutto un insegnamento riguardo alle sollecitudini ansiose sul mangiare, bere e vestirsi che Gesù tratterà proprio in questo sermone sul monte e verrà espresso in parte nel “Padre nostro” e in altri versi a seguire. Lo scopo del dare con abbondanza di Dio è “perché possiamo goderne” e ringraziare. Nessuno crederebbe in Cristo se non avvertisse su di sé le attenzioni e l’amore del Padre.

Ebbene, anche ai ricchi conosciuti da Timoteo è raccomandato di non considerare i loro averi come qualcosa di esclusivo, ma “siano pronti a dare e a condividere” là dove è quel “pronti” che qualifica la disposizione d’animo.

Gesù quindi dà ai suoi uditori e a noi, ancora una volta, gli elementi per crescere e mettere in pratica un altro aspetto della loro vita spirituale.

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05.23 – OCCHIO PER OCCHIO (I/II) (Matteo 5.38-42)

5.24 – Occhio per occhio I (Matteo 5.38-42)

38Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. 39Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, 40e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. 41E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. 42Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera un prestito da te non voltar le spalle”.

Con il quarto intervento di Gesù quale Rabbi sulla Legge che era venuto ad adempiere, si esce dal commento al decalogo per approfondire molti temi a partire da Esodo 21.22-25 dove troviamo enunciato per la prima volta che il  colpevole di una lesione al suo prossimo, la doveva subire nello stesso modo: “Quando alcuni uomini litigano e urtano una donna incinta, così da farla abortire, se non vi è altra disgrazia, si esigerà un’ammenda, secondo quanto imporrà il marito della donna, e il colpevole pagherà attraverso un arbitrato. Ma se segue una disgrazia, allora pagherai vita per vita: occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede, bruciatura per bruciatura, ferita per ferita, livido per livido”. Questo principio viene poi ribadito in Levitico 24.19-21 e in Deuteronomio 19.21, dove lo troviamo nella sua essenzialità: dopo le regole per i testimoni in processo, leggiamo “Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede”.

Premessa importante: Israele non aveva un codice legislativo come altri popoli, vedi ad esempio il noto “Codice di Hammurabi” in uso presso i Babilonesi (che comunque arrivarono secondi). Tutto ciò che gli israeliti avevano era la serie di regole, precetti e norme che Mosè aveva ricevuto e trasmesso contemplanti minuziosamente ogni aspetto della vita di relazione con Dio e tra gli uomini. Do a questo punto una lettura molto superficiale: in un periodo storico che potremmo definire di barbarie e molto primitivo, il principio in base al quale chi causava – ad esempio – una ferita doveva provare lo stesso dolore su di sé per capire cosa questo significasse e non farlo più, poteva essere comprensibile. Era però quella la stessa epoca in cui pensare al proprio simile era non meno raccomandato che ricambiare “livido per livido”: “Quando facendo la mietitura nel tuo campo, vi avrai dimenticato qualche mantello, non tornerai indietro a prenderlo: sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto, perciò ti comando di fare questo” (Deuteronomio 24.19-22). Il Codice di Hammurabi citato, databile attorno al 1750 a.C., risentiva delle influenze della Legge di Mosè; ad esempio leggiamo che “I poveri, le vedove e gli orfani sono posti sotto la tutela dello Stato. Le donne sono protette contro i maltrattamenti del marito, in favore dei lavoratori viene alzato il salario e sono stabiliti i giorni di riposo annuali” e veniva applicata la legge del taglione cui Gesù ha fatto riferimento nel passo in esame.

Va poi anche aggiunto, riguardo a Israele, che la giustizia era intesa in modo differente dal nostro: chi svolgeva l’attività di giudice era uno che, esercitandola, a prescindere dalla condanna liberava la persona dall’ingiustizia e dall’oppressione. C’erano così Anziani e Giudici che, prima di emettere una sentenza, indagavano a fondo ascoltando i testimoni a seconda dell’importanza delle cause da trattare. Ai tempi di Gesù l’applicazione della legge del taglione, lungi dall’essere ristretta nelle possibilità dei magistrati che ne ordinavano l’applicazione in determinati casi, era stata estesa liberamente ai singoli concedendo loro di farsi giustizia da sé. “Occhio per occhio e dente per dente” è allora il riassunto di un modo di ragionare, oltre che di un passo scritturale indicatore di un periodo per noi passato.

Dobbiamo prestare attenzione al fatto che Nostro Signore non attacca la Legge in quanto tale, ma l’uso improprio che se nei faceva essendo la vendetta a quel tempo vista come un diritto – dovere. In questo modo, privato della sentenza di un Giudice o degli Anziani, chi si rendeva colpevole di un’offesa fisica poteva subire quella dei parenti dell’offeso ai quali non pareva vero di poter sfogarsi sul malcapitato, ritenuto colpevole senza giusto processo.

Teniamo sempre presente che ogni principio scritturale non può essere estrapolato dal contesto per giustificare l’azione che in esso si sostiene, ma va armonizzato con gli altri: infatti la stessa Legge che ha dato il principio dell’”occhio per occhio”, prima ancora di ripeterlo (Levitico da Esodo), dice “Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore” (Levitico 19.18). La Legge quindi non è solo violenza, punizione e annullamento, così come Nostro Signore non amputa, ma cauterizza, non taglia l’albero che il padrone della vigna vorrebbe eliminare, ma lo concima e gli sistema il terreno attorno per farlo prosperare; non abolisce, ma adempie, completa, rende perfetto ciò che l’essere umano non sarebbe mai stato in grado di compiere.

Il Suo discorso sulla legge del taglione parte da lì, la cita e subito affronta, nei restanti versi, quattro distinti aspetti che riguardano la sfera della persona attraverso espressioni indubbiamente forti che verranno poi sviluppate dagli apostoli Paolo e Pietro. Tutto parte dal principio “Non contrastate il malvagio”, cioè chi perseguita in un modo o in un altro. Dopo questa esortazione, abbiamo la violenza fisica (v.39), la contesa legale (v.40), il lavoro o servizio forzato (v.41) e infine la richiesta di regali o prestiti (v.42).

Prima di esaminare i quattro casi proposti da Gesù, consideriamo ancora una volta che si rivolgeva a un popolo religioso o, meglio ancora, composto da persone che comunque erano educate a far riferimento a quell’Iddio che tante volte veniva pregato, adorato, seguito nelle feste che si celebravano più volte all’anno (finora abbiamo visto solo la Pasqua) ed aveva gli elementi per distinguere il bene dal male, per quanto in linee generali. Il principio dal quale parte Nostro Signore è a monte del non contrastare il malvagio e viene espresso in Proverbi 20.22 in cui leggiamo “Non dire «Renderò male per male»; confida nel Signore ed Egli ti libererà”.

C’è allora ancora una volta un confine che siamo liberi di valicare o meno nel senso che, nel momento in cui le nostre azioni sono tese ad ottenere una vendetta nei confronti di chi ci ha fatto del male, agiamo di nostra iniziativa e precludiamo al Signore la possibilità di intervenire. Se però spostiamo la nostra ottica confidando in lui anche come Difensore, avremo la liberazione effettiva dal male: “…ma liberaci dal male”, o “dal maligno”, che sono la stessa cosa.

In pratica: non contrasto il malvagio perché sono un debole e se mi difendo pecco, ma supero il principio, vado oltre perché confido nel Signore. Restituire, rendere male per male è umano ed è una reazione immediata che siamo invitati a non fare per il semplice fatto che non siamo soli: come cristiani non abbiamo sposato una generica ideologia di amore e pace che mai riusciremmo a mantenere fino in fondo, ma siamo stati salvati e non apparteniamo più a questo mondo con la sua logica e le sue regole. Molto spesso la vendetta è la messa in atto di una rivalsa nel tentativo di placare un animo ferito che tuttavia raramente, a vendetta compiuta, resta soddisfatto, liberato dall’umiliazione o dal torto subito.

Dirà l’apostolo Paolo ai Romani “Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti «Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo», dice il Signore. Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, accumulerai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene” (12.17-21). Anche questi versi pongono il cristiano in un ambito differente, estraneo al male che viene fatto, ricordando “Se possibile, per quanto dipende da voi”, cioè guardate che quel che fate sia per scelta consapevole e non per una posizione assunta per filosofia. Il principio è “Spetta a me fare giustizia, io darò a ciascuno il suo”. Non sono parole che appartengono a una dispensazione diversa dalla nostra, per cui potremmo ipotizzare siano decadute, anzi: “Chi vuole amare la vita e vedere giorni felici, trattenga la sua lingua dal male e le labbra da parole d’inganno, eviti il male e faccia il bene, cerchi la pace e la segua, perché gli occhi del Signore sono sopra i giusti e le sue orecchie sono attente alle loro preghiere; ma il volto del Signore è contro coloro che fanno il male” (1 Pietro 3.10-12).

Posso testimoniare di avere vissuto personalmente un’esperienza del genere in cui mi sono trovato nell’impossibilità totale, quindi anche volendolo, di “resistere al malvagio” che, così come è comparso, si è dileguato in un tempo molto più breve di quanto sarebbe avvenuto qualora lo avessi combattuto.

Interessante la riflessione dell’apostolo Paolo che scrisse “per questo, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia” (1 Corinti 12.7): si può ragionevolmente supporre che quell’inviato, o come altri traducono, “angelo” di Satana fosse stata una persona che lo picchiò quando si trovava in carcere a causa delle sue predicazioni; costui gli causò una lesione permanente agli occhi che gli impediva di leggere e di scrivere correttamente. In Galati 4.15 infatti nomina dei credenti che avrebbero voluto, se possibile, cavarsi gli occhi per darli a lui.

Rientrando al tema del porgere l’altra guancia, ma tenendo ben presente quanto citato in precedenza, ci domandiamo: è fattibile? È questo che Nostro Signore intendeva, cioè va preso in senso letterale, oppure questa sua espressione è da intendersi come “parente” dei versi riferiti all’enucleazione dell’occhio e all’amputazione della mano di cui abbiamo già trattato? Mi pare di riconoscere chiaramente, nelle parole che seguono l’invito a non contrastare il male, un modo per qualificare l’atteggiamento interiore che esclude, come già rilevato in altre circostanze, la rivalsa, la vendetta, l’infierire. Sono azioni che non troviamo mai come positive, ma se fosse categoricamente esclusa la reazione a un’aggressione Giovanni Battista avrebbe ordinato ai soldati che gli chiedevano “E noi, cosa dobbiamo fare?” di disertare, mentre disse “non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, accontentatevi delle vostre paghe” (Luca 3.14). Le leggi di guerra di allora, infatti, autorizzavano la devastazione e il saccheggio, senza contare la violenza sulla popolazione civile che avviene in tutte le guerre da sempre, anche nel nostro “civilissimo” secolo.

Possiamo ricordare Gesù stesso, che al soldato che gli diede uno schiaffo non offrì l’altra guancia – per lo meno letteralmente – ma gli disse “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” facendolo desistere (Giovanni 18.22).

Credo che sia la persona coinvolta che debba decidere il comportamento opportuno da adottare in proporzione alla portata dell’offesa fisica, cosa del resto stabilita dai codici penali umani a proposito della legittima difesa, in cui questa deve essere proporzionale alla minaccia. Credo che vada sempre tenuto in considerazione il fatto che Luca, riportando le parole di Gesù lette in Matteo, scrive “A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l’altra” e che Pietro scrive “…Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (1 Pietro 2.22,23).

Credo che il cristiano sia chiamato a valutare con intelligenza quanto si verifica attorno a lui e, alla luce dei passi paralleli che abbiamo coinvolto, tutto viene sviluppato partendo da rapporti tra persone che hanno una base comune, non costrette a confrontarsi – ad esempio – con etnie dedite geneticamente allo sfruttamento, alla delinquenza e agli espedienti per sopravvivere (che tra l’altro combattevano). Viviamo un tempo ultimo in cui tante cose devono accadere ad ogni livello, sia esso politico, ambientale, economico o migratorio e la fine della società che conosciamo non è poi così lontana. Ma quello che deve contraddistinguere il cristiano, da sempre, è la sua capacità di guardare oltre, grazie allo Spirito.

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05.22 – NON GIURARE IL FALSO (Matteo 5.33-37)

5.23 – Non giurerai il falso (Matteo 5.33-37)

33Avete anche inteso che fu detto agli antichi: «Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti». 34Ma io vi dico: non giurate affatto, né per il cielo, perché è il trono di Dio, 35né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re. 36Non giurare neppure per la tua testa, perché non hai il potere di rendere bianco o nero un solo capello. 37Sia invece il vostro parlare: «Sì, sì», «No, no»; il di più viene dal Maligno”.

“Avete inteso… ma io vi dico”. Un annuncio storico, una rivelazione, una comunicazione data “agli antichi”, agli uomini di un tempo, contrapposta a un annuncio nuovo dato da chi la Legge non l’abolisce, ma l’adempie e quindi ha pieno diritto per estenderla, spiegarla, tracciare le linee guida di base che poi lo Spirito Santo, tramite gli apostoli, la svilupperà per la Chiesa. Chi legge oggi il discorso della montagna deve tener sempre presente che Gesù parla in un momento storico preciso e a persone diverse da noi: le sue parole vanno lette alla luce della conoscenza di quel tempo che si basavano sia sulla Legge che sull’insegnamento degli Scribi e dei Farisei che avevano finito per formare con lei un tutt’uno. Per questo, fino a questo momento, Gesù dichiara aperte le beatitudini e sviluppa alcuni comandamenti quali il sesto e il settimo, cardini delle relazioni umane che vanno a compromettere gravemente, se infranti, anche quelle fra uomo e Dio. Con le parole che abbiamo letto, “né per il cielo, né per la terra, né per Gerusalemme, né per la tua testa” vengono fatte delle estensioni non tanto sul nono punto “Non pronuncerai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”, ma piuttosto sul terzo “Non pronuncerai invano il nome del Signore, tuo Dio, perché il Signore non lascia impunito chi pronuncia il suo nome invano” che Gesù non pronuncia testualmente, ma riferendosi al suo compendio che troviamo in due passi integrativo-paralleli.

Il primo di questi è reperibile in Levitico 19.12 “Non giurerete il falso servendovi del mio nome: profaneresti il nome del tuo Dio. Io sono il Signore, vostro Dio”, il secondo in Numeri 30.2 “Quando uno avrà fatto un voto al Signore o si sarà impegnato con giuramento a un obbligo, non violi la sua parola, ma dia esecuzione a quanto ha promesso con la bocca”. Sottolineiamo che, nel passo del Levitico, Dio parla di un suo “Nome” che va inteso non come proprio di persona, poiché Egli è Unico e non ha bisogno di distinguersi da un altro, ma di unicità di riferimento, di potenza e sovranità sull’uomo così come si presentò ufficialmente e legalmente all’apertura del Decalogo: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile: non avrai altri dèi di fronte a me”.

Per capire meglio le ragioni che spinsero Gesù a soffermarsi su questo punto della Legge, occorre sostare brevemente su questo verso perché in esso Dio si presenta. “Io sono il Signore” è già un’apertura che, se ci pensiamo, lascia senza parole perché con lui il Creatore, il Progettista, l’Architetto dell’universo non solo si presenta, ma si rivela alla creatura. “Tuo Dio”, possessivo e qualifica, contrappongono l’uomo, che ha la polvere come origine e fine, alla massima potenza del creare e del pensare propria di Dio. In più, in queste parole di presentazione non si fa cenno ai sei giorni, alle promesse ad Abrahamo o ai grandi giudizi visti nel diluvio o nella distruzione di Sodoma e Gomorra, ma alla liberazione da due elementi impossibili senza un Suo intervento, “dalla terra d’Egitto” e “dalla condizione servile” cioè dalla promiscuità, da un ambiente estraneo in cui gli israeliti erano costretti a convivere con gente straniera in una condizione non solo di inferiorità, ma appunto “servile”, senza diritti, personalità, privi di quell’esistenza libera che consente possibilità di scelta. Costretti ai lavori più umili, alle dipendenze di qualsiasi capriccio di un faraone o delle sue guardie.

In altre parole Dio, con il primo verso del Sommario della Legge, si presenta in modo tale da rammentare senza possibilità di equivoco quello che ha fatto per il popolo facendogli capire la continuità della sua assistenza, a dirgli “non ti ho chiamato ed eletto per poi disinteressarmi di te. Per questo non avrai altri dèi all’infuori di me, lasciali agli altri che non mi hanno mai conosciuto”.

La questione del “nome” certo può essere ampliata ulteriormente, ma in estrema sintesi è qui anche perché Dio, se non può essere chiamato come un uomo, può essere però designato con titoli e così è stato fatto: basta consultare qualsiasi dizionario biblico alla voce “nomi di Dio” per trovarne tanti, ciascuno rispondente a una rivelazione, a un carattere che traspare da un dato episodio scritturale. Leggiamo però Esodo 3.13-15: “Mosè disse a Dio: «Ecco, io vado dagli Israeliti e dico loro “Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi”. Mi diranno «Qual è il suo nome?» E io cosa risponderò loro?». Dio disse a Mosè: «Dirai agli Israeliti “Io-Sono mi ha mandato a voi”». Dio disse ancora a Mosè: «Dirai agli Israeliti “Il Signore, Dio dei vostri padri, Dio di Abrahamo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione».

Arriviamo così al tetragramma, il “nome” di Dio fondato su quattro consonanti, pronunciato dal Sommo Sacerdote una volta all’anno nel luogo santissimo nel giorno del Kippur la cui corretta, antica pronuncia è andata perduta non solo nel timore di infrangere il terzo comandamento, ma perché quel “questo è il mio nome per sempre”, ebraico el-‘olam, può essere letto anche el-‘allem, “da nascondere”. Così, essendoci nell’antico ebraico scritto le sole consonanti, Dio viene chiamato “il Santo, che Benedetto sia”, oppure, semplicemente è indicato con l’espressione “il Nome”.

Ora Gesù dichiara che l’uomo non deve giurare perché non è lecito e ne spiega i motivi: se abbiamo bisogno di giurare significa che ammettiamo che la verità – che è e non ha bisogno di rafforzativi – non la diciamo. Chi di noi da bambino non ha “giurato” su qualcosa per rassicurare i propri compagni di gioco che diceva il vero? Appunto, eravamo bambini e, nella nostra ingenuità, capivamo istintivamente molte cose, magari senza esserne consapevoli, prima fra tutte che l’uomo è mentitore.

Gesù, trattando il passo in esame, implicitamente si riferisce a un’aggiunta che i Farisei avevano fatto al comandamento che aveva subito trovato delle eccezioni: “…ma se giurerai per qualche altra cosa che per il nome del Signore, potrai spergiurare impunemente”. Ancora oggi fra gli orientali, in particolare presso gli arabi di basso ceto sociale e ignoranti, è molto frequente l’uso del giuramento su membri della propria famiglia, sulla propria salute, su loro stessi o su qualunque situazione negativa volta a punirli in caso di infrazione (“Possa morire adesso se non dico il vero” e simili). L’adulto non deve giurare non perché risponde a questa descrizione, ma in quanto non gli appartiene proprio nulla e le parole con cui si esprime sono importanti perché lo qualificano.

Cosa abbiamo da dare a garanzia del fatto che diciamo il vero? La legge italiana punisce la falsa testimonianza nel processo, preceduta da una dichiarazione di impegno a dire la verità, con la reclusione da due a sei anni (Art. 372 C.P), ma a parte questo il giuramento tra persone non ha senso perché adempiere un “Sì” o un “No” è già cosa non da poco.

Gesù, dopo aver detto “Non giurate affatto”, passa ad esaminare i modi di dire più frequenti del suo tempo in cui i discorsi venivano enfatizzati da espressioni che chiamavano in causa il cielo, la terra e Gerusalemme, elementi che all’uomo non competevano. Addirittura la terra, da lui calpestata, è in realtà “lo sgabello” dei piedi di Dio e quindi l’uomo non è che un ospite, un utilizzatore secondario. Non solo, ma essendo la terra opera Sua, ne chiama direttamente in causa il “Nome”. Escluse queste possibilità di chiamare in causa qualcosa per rafforzare una testimonianza, teoricamente non rimarrebbe che la propria vita vista nel “capo” ma anche qui, viene detto che “non hai potere di rendere bianco o nero un solo capello”. Là dove “bianco” e “nero” sono riferiti non alla possibilità di usare delle tinture, ma proprio a quel processo di invecchiamento e modifica che subiamo tutti e di fronte al quale non possiamo far nulla se non salvare le apparenze con interventi estetici. È il primo capello bianco che, nella vita della persona, avvisa che il tempo sta passando. Non si torna indietro.

Qui non si tratta tanto di un mettere a confronto ciò che è nel potere di Dio e quanto può fare l’uomo, ma della descrizione, se vogliamo “cruda”, di quanto è ristretto l’ambito in cui possiamo agire come creature: un capello è cosa da nulla, una persona normale ne perde dai 40 ai 120 al giorno o anche di più in base al suo stato di salute. Altrove è detto che “I capelli del vostro capo sono tutti contati” (Matteo 10.30) a conferma delle attenzioni che il Signore ci riserva e la conoscenza che ha di noi. Possiamo costruire, realizzare, portare a termine compiti, ma di fronte a un capello bianco o nero non possiamo far nulla ed è per questo che tutto quanto va oltre un semplice “sì” o “no” “viene dal maligno” nel senso che non serve, è inutile e dannoso.

Con le parole “viene dal maligno” Nostro Signore non vuole riferirsi tanto a Satana, quanto piuttosto al suo sistema: in un mondo in cui l’Avversario è il principe e gli effetti del peccato si rivelano anche nelle ingiustizie sociali, quindi nella ricchezza smodata di pochi e nella povertà di molti, i simili non si fidano l’uno dell’altro e hanno bisogno di vincolarsi da contratti e giuramenti. La prima perversione del sistema di Satana la vediamo proprio nel fatto che un uomo come noi, alla cui esistenza è stato dato un termine, ci fa del male, ci danneggia, ci ferisce per cui abbiamo bisogno di contratti, di leggi, di organi giudiziari.

Paolo però, parlando di credenti di Efeso, suggerisce un modo naturale di relazione: “Bando alla menzogna e dite ciascuno la verità al suo prossimo, perché siamo membri gli uni degli altri” (4.25). Questo in opposizione al mondo che conosciamo in cui ognuno pensa per sé e subisce la cultura del colpire per primo per non soccombere. Giacomo stesso, probabilmente pensando alle parole di Gesù, scrive “Soprattutto, fratelli miei, non giurate né per il cielo, né per la terra e non fate alcun altro giuramento. Ma il vostro «sì» sia sì e il vostro «no» no per non incorrere nella condanna” (5.12). Quale? L’umiliazione di constatare che, per convincere qualcuno di qualcosa o di promettere, si sia assorbito un sistema estraneo a quella che è la principale, basilare procedura cristiana. Ricordiamo le parole di Gesù in Matteo 12.35,37: “L’uomo buono dal suo buon tesoro trae fuori cose buone, mentre l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori cose cattive. Ma io vi dico: di ogni parola vana che gli uomini diranno, dovranno rendere conto nel giorno del giudizio; infatti in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato”. Per assurdo, è l’uomo che ha in sé il suo peggior nemico, si fa danno da solo per cui quel “pianto e stridore di denti” di cui spesso fa menzione nostro signore allude a quella reazione di crisi che prenderà gli esclusi dal regno quando constateranno di essersi condannati da soli. Dalle tue parole sarai “giustificato” o “condannato”. Non ci sarà la possibilità di un appello.

Personalmente considero un “di più” anche una promessa perché so, come essere umano, di poter garantire nulla. Nella Scrittura numerosi sono gli esempi di persone che hanno dato la loro parola con leggerezza, costretti a mantenerla salvo poi pentirsene, come ad esempio Erode Antipa quando Salome lo irretì quando era già ebbro e si fece promettere, tramite sua madre, la testa di Giovanni Battista su un vassoio. Leggiamo che “Il re ne fu addolorato, ma, per il giuramento fatto e non volendo sfigurare davanti ai suoi invitati, ordinò di dare alla ragazza ciò che aveva chiesto” (Matteo 14.9). Ricordiamo il pianto amaro di Pietro, quando si trovò di fronte alla sua fragilità dopo aver contestato a Gesù la sua predizione sul fatto che lo avrebbe rinnegato tre volte: “Anche se dovessi morire con te, non ti rinnegherò in alcun modo” (Matteo 26.35). Pietro non aveva promesso nulla, ma sicuramente vi fu un impegno nel futuro che non poteva assumersi. Trovandoci un questa condizione di precarietà anche di fronte alla nostra volontà, Nostro Signore ci dice che un «sì» o un «no» sono già di per sé impegnativi.

C’è comunque un altro tema, neppure tanto nascosto nelle parole di Gesù sul giuramento, ora decaduto: quello verso il Signore. Vale anche qui il principio del “Non giurare affatto” e, per le parole che abbiamo letto, anche l’azione del “fare un voto” tanto cara a molti, rientra nelle categorie del “di più, che viene al maligno”. È questo un aggiornamento forse traumatico per alcuni, ma il voto, praticato nell’antica dispensazione e giustificato dal modo che Dio aveva di rivelarsi, non è accettabile nel tempo della Grazia nonostante il suo uso.

Quello del “voto” è un sistema perverso in cui un essere umano chiede un favore a Dio credendo di poterlo barattare con un’atto per ringraziarlo di un favore eventualmente ottenuto. Chiediamoci: l’apostolo Paolo non scrisse forse “In Cristo ho tutto pienamente”?; Gesù stesso, nell’occasione di questo sermone, non disse forse “Cercate prima il Regno di Dio, e tutte le altre cose vi saranno sopraggiunte”? Non basta la preghiera, quando sappiamo che il Padre sa già quello che gli chiederemo? Può essere accolta una preghiera il cui senso sia il baratto, vale a dire “io do una cosa a te se tu dai una cosa a me”? Con il “voto” si offre a Dio qualcosa, solitamente di “buono” che costa fatica e che non si farebbe altrimenti: può essere un comportamento considerato legittimo, o piuttosto è una presa in giro? Cosa si può offrire, se non la propria vita, a chi si è offerto a noi per primo?

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