05.21 – SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO VII (Matteo 5.27-32)

5.22 – Settimo, non commettere adulterio VII (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Con questo incontro concluderemo quella che è solo una panoramica generale sul settimo comandamento, che coinvolge direttamente l’istituzione matrimoniale senza la quale l’adulterio non potrebbe esistere. Parlando di credenti il pericolo di questa infrazione esiste quando si verifica un problema di ascolto e una delle due parti, o molto spesso entrambe, hanno posto le basi perché ciò si verificasse. Molti dei versi che abbiamo citato e letto nei capitoli precedenti illustrano la condizione ideale, quella di Dio, ma occorre tener presente che, nel contingente quotidiano, ciascuno di noi sa di avere a che fare con la propria carne “debole”, con le sue esigenze che vorrebbero essere sempre dominanti e con il proprio spirito che, pur “pronto”, è costretto ad affrontare il proprio lato umano imperfetto. L’uomo convive quindi con questi due elementi spesso in conflitto fra loro e così nel matrimonio, nel rapporto continuo con il nostro corrispettivo femminile o maschile, si può dire che a fronteggiarsi, a volte disordinatamente, si è in quattro.

Ognuno di noi sa, per esperienza diretta, quanto sia difficile a volte gestire il rapporto con noi stessi: egoisti per natura, siamo capaci di azioni tanto nobili quanto disonorevoli. Dal punto di vista della personalità il cristiano, come tutti, può evolvere o involvere, venire condizionato negativamente da circostanze avverse nella vita e nel lavoro senza contare che, come si può ammalare il nostro corpo, anche la mente, sottoposta a stress prolungati, può aver bisogno di cure. Non credo di assumere posizioni estreme affermando che, quando tutto ciò si verifica, a monte c’è un mancato cammino quotidiano col Signore fatto di preghiera e soprattutto identificazione con Lui e la Sua Parola. Ricordiamo Isaia 40.29,31: “Egli dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani faticano e si stancano, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza affannarsi, camminano senza stancarsi”. Certo, questi versi descrivono la posizione di chi cammina sempre davanti a e con Dio, ma dobbiamo tener presente che la vita che scorreva nei tempi antichi era profondamente diversa da quella attuale, che impone all’essere umano ritmi insostenibili perché visto come una macchina da sfruttare e che deve produrre velocemente e proficuamente. La gestione di un tempo basato – ad esempio – sui bioritmi o anche solo a misura della persona è divenuta da tempo impossibile e le nevrosi nascono libere, causate da fattori che prima non esistevano e ci sono credenti che non trovano il tempo per pregare e appartarsi con Signore, arrivando a fine giornata sfiniti.

La nostra mente, oggi, è molto più in pericolo di allora e in tal modo si creano squilibri: una persona poco in grado di gestire se stessa, lo è ancora meno nel gestire un rapporto di coppia. Allora possono nascere dei conflitti peggiori di quelli previsti, sempre dall’apostolo Paolo che sviluppò molto il tema del matrimonio, con queste parole: “Riguardo alle vergini non ho alcun comando dal Signore, ma dò un consiglio, come uno che ha ottenuto misericordia dal Signore e merita fiducia. Penso dunque che sia bene per l’uomo, a causa delle presenti difficoltà, rimanere così com’è. Ti trovi legato a una donna? Non cercare di scioglierti. Sei libero da donna? Non andare a cercarla. Però se ti sposi non fai peccato e se la giovane prende marito, non fa peccato. Tuttavia costoro avranno tribolazioni nella loro vita, e io vorrei risparmiarvele” (1 Corinti 7.25-28).

È proprio la definizione “tribolazioni nella loro vita”, tradotta da altri con “tribolazioni nella carne”, che allude a uno stato di sofferenza che può instaurarsi a causa di un’unione che, per i motivi più svariati, s’incrina a tal punto da lasciare i coniugi soli con loro stessi e a scendere in un terreno di contesa e rivalsa. È il desiderio di vita naturale che si insinua in quella della coppia e Paolo, paternamente, vorrebbe risparmiare a chi non è ancora fidanzato o legato sentimentalmente la prospettiva del matrimonio perché contempla anche sofferenza che può essere più o meno transitoria a seconda dell’atteggiamento di entrambi. Ricordiamo che l’unione ha sempre come obiettivo la cooperazione verso qualcosa di molto più alto di una semplice convivenza e che ciascuno dovrebbe vedere nell’altro tanto il proprio simile quanto, fatte le debite proporzioni, il volto di Dio che si riflette nel credere, nell’essere salvati e nel crescere. Perché occorre aver cura della moglie come del proprio corpo? È un modo per ricordare che lei è parte integrante del marito, non è un frammento di vita autonoma. E viceversa. Tutto questo può essere considerato retorica pura, ma non è così, per lo meno da un punto di vista cristiano perché marito e moglie, avendo un obiettivo di crescita comune davanti al Signore, sono uniti proprio da quel cammino. Allora possiamo mettere a confronto, facendo ciascuno libere considerazioni, le parole di Paolo che abbiamo letto e quelle del Qoèlet, o Ecclesiaste: “Meglio essere in due che uno solo, perché due hanno un miglior compenso nella fatica. Infatti, se vengono a cadere, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se due dormono insieme, si possono riscaldare, ma uno solo, come fa a riscaldarsi? Se uno aggredisce, in due gli possono resistere e una corda a tre capi non si rompe tanto presto” (4.9-12).

Si può ora tornare a 1 Corinti 7, leggendo un nuovo passo: “Agli sposati dò quest’ordine, che non viene da me, ma dal Signore: la moglie non si separi dal marito. Se si è già separata dal marito, non si risposi. Cerchi piuttosto di riconciliarsi con lui. E d’altra parte, il marito non mandi via la moglie”. Qui abbiamo un distinguo tra consiglio e ordine e, come vedremo nei versi successivi, il secondo si riferisce a coniugi credenti, che hanno acconsentito al Signore Gesù Cristo di entrare nella loro vita e hanno fatto a suo tempo un progetto comune scegliendo di diventare una sola carne. Tutte le indicazioni contenute al capitolo 7 di questa lettera non sono state trattate dall’apostolo per sua volontà, ma da esplicite domande dei credenti di Corinto che non ci sono pervenute, poiché leggiamo all’inizio “Quanto poi alle cose di cui mi avete scritto” (v.1) e il caso della moglie che non si deve separare dal marito – e viceversa – è posto come ideale perché in realtà, può farlo ma senza risposarsi.

Subito dopo però viene contemplato anche il caso di un matrimonio in cui uno dei due coniugi non è credente: “Agli altri do un consiglio e questo è un parere mio, non un ordine del Signore: se un cristiano ha una moglie che non è credente, e questa desidera continuare a vivere con lui, non la mandi via. E così pure la moglie cristiana non mandi via il marito che non è credente, se egli vuol vivere con lei. Il marito non credente appartiene già al Signore per la sua unione con la moglie credente e viceversa la moglie non credente appartiene già al Signore per la sua unione col marito credente. In caso contrario voi dovreste rinnegare anche i vostri figli, mentre invece essi appartengono al Signore. Ma se uno dei due è credente e vuole separarsi, lo faccia pure. In tal caso il credente, sia esso marito o moglie, non è vincolato. Dio infatti vi ha chiamati a vivere in pace” (vv.12-14).

Da questi versi, che da un lato confermano la “sola carne” perché il coniuge non credente “appartiene già al Signore” per il solo fatto di aver sposato una controparte cristiana rileviamo che, in caso di separazione, è proprio chi dei due è cristiano a non essere vincolato dal matrimonio contratto e quindi può risposarsi: perché? Perché la parte che rinuncia al legame decide di estraniarsi rendendo impossibile il proseguimento di un rapporto liberando di fatto la controparte e rendendola autonoma. Sarà poi una scelta di chi è stato abbandonato dalla moglie o dal marito non credente se rimanere “solo”, oppure cercare un altro legame per il principio secondo il quale è “meglio sposarsi che bruciare” cui abbiamo accennato in una recente riflessione.

Diventano molto significative a questo punto le parole, sempre in questo capitolo, “Vorrei sapervi liberi da preoccupazioni. Infatti l’uomo non sposato si preoccupa di quel che riguarda il Signore e cerca di piacergli. Invece l’uomo sposato si preoccupa di quel che riguarda il mondo e cerca di piacere alla moglie. E così finisce con l’essere diviso nel suo modo di pensare e di agire. Allo stesso modo, una donna non sposata, sia essa adulta o ragazza, si preoccupa di quel che riguarda il Signore, perché desidera vivere interamente per lui. Invece la donna sposata si preoccupa di quel che riguarda questo mondo e di piacere al marito” (vv.32-34). Sono molto significative le parole che esprimono il sottile disagio dell’essere “diviso nel suo modo di pensare e di agire”rispetto all’unico obiettivo di servire il Signore liberamente, ma si tratta di una realtà possibile solo a quelli che sanno dominarsi per cui “chi si sposa fa bene, ma chi non si sposa fa meglio” (v.38), parole che chiudono il discorso paolino sul celibato quale condizione migliore sul matrimonio di cui ha illustrato da una parte i limiti e dall’altra i vantaggi.

È possibile concludere questa breve panoramica con una considerazione sui cosiddetti “rapporti prematrimoniali”, definizione francamente impropria perché l’avere un rapporto fisico con una persona di sesso opposto determina il matrimonio. Per questo valgono le parole dal verso 26 al 37: “Se a causa della sua esuberanza un fidanzato si trova a disagio dinnanzi alla fidanzata e pensa che dovrebbe sposarla, ebbene la sposi! Non commette alcun peccato! Può darsi però che il giovane, senza subire alcuna costrizione, mantenga fermamente la decisione di non sposarsi. In tal caso, se sa dominare la sua volontà e mantiene fermo il proposito di non avere relazioni – carnali– con la sua compagna, agisce rettamente se non la sposa”. Anche qui viene ribadito che tanto il matrimonio che il celibato sono una scelta, ma troviamo un particolare fondamentale, importante tanto quanto il progetto di vita insieme: “senza subire alcuna costrizione” ed è proprio quell’ “alcuna” a spiegarci che il “costringere”, azione coercitiva, non è riferito solo a un atto violento con minacce più o meno esplicite e forti, quindi un’estorsione, ma anche a un’operazione intrapresa per influenzare, convincere, portare la persona a compiere un passo che altrimenti non farebbe tanto nello sposarsi quanto nel rimanere celibe. Ecco perché nella Chiesa, indipendentemente dalla denominazione, devono essere presenti persone in grado di vigilare e vagliare attentamente le circostanze che portano al matrimonio di due giovani, dei pastori veri che amino il gregge e non individui che si crogiolano in un incarico che loro e non il Signore ha dato. Ricordiamoci dei sette tipi di amore e del fatto che chi è coinvolto sentimentalmente spesso non è in grado di distinguere perché non obiettivamente partecipe con la mente, spesso proiettando sulla persona progetti e ideali non a lei confacenti. Urgono persone, pastori, che servano il Signore davvero e che amino il loro prossimo veramente come loro stessi.

Nel passo di Matteo in cui Gesù tratta il divorzio nel suo sermone sul monte, “eccetto il caso di unione illegittima”, abbiamo così l’anticipazione dell’importante tema che poi sarà l’apostolo Paolo a sviluppare: l’unione illegittima, quindi l’adulterio, interrompe il matrimonio davanti a Dio, con un colpevole e un innocente e spetta al secondo scegliere se perdonare il primo cercando di ricomporre l’unione per quanto possibile, o “mandarlo via” legittimamente e risposarsi perché non responsabile di un matrimonio infranto.

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5.20 – SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO VI (Matteo 5.27-32)

5.21 – Settimo, non commettere adulterio VI (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Avevo pensato di finire questi interventi su divorzio e matrimonio con il quinto studio, ma avrei compiuto delle omissioni. Tutto ciò che Gesù dice nel nostro passo di Matteo è rivolto in primis ai giudei e quindi ai cristiani, per quanto sarà l’apostolo Paolo a sviluppare il tema soprattutto ai credenti della Chiesa di Corinto che, composta in maggioranza da greci convertiti, era soggetta alle influenze del pensiero non solo filosofico di allora; i costumi sessuali dell’epoca, inoltre, influivano sulla condotta di molti componenti della Comunità corinziana perché nel mondo greco la pederastia e l’amare indifferentemente uomini o donne rientravano nel concetto della ricerca del bello. Ricordiamo poi che in quei credenti si era fatta strada la convinzione secondo cui, se col sacrificio di Cristo erano stati liberati dal peccato, l’impegno a non commetterne altri non aveva senso.

È per questo motivo che Paolo, al fine di mettere ordine nei costumi e nelle idee di molti componenti di quella Chiesa, affronta il tema del matrimonio sotto due aspetti, quello della “sola carne”, quindi del corpo del singolo, e quello spirituale.

 

LA CARNE E IL CORPO

Voi dite spesso: «Tutto è lecito!”. D’accordo, ma tutto è utile? Certamente tutto è lecito, ma non mi lascerò mai dominare da qualsiasi desiderio. Voi dite anche: «Il cibo è fatto per lo stomaco e lo stomaco è fatto per il cibo». È vero, ma Dio distruggerà l’uno e l’altro. Il vostro corpo, però, non è  fatto per l’immoralità, perché appartenete al Signore, e il Signore è anche il Signore del vostro corpo. Ebbene, Dio che ha fatto risorgere il Signore, risusciterà anche noi con la sua potenza. Voi dovete sapere che appartenete a Cristo. E chi prenderebbe ciò che appartiene a Cristo per unirlo a una prostituta? Sapete benissimo che chi si unisce a una prostituta diventa un tutt’uno con lei. Infatti la Bibbia dice «I due saranno una sola carne». Ma chi si unisce al Signore diventa spiritualmente un solo essere con lui. Fuggite l’immoralità! Qualsiasi altro peccato che l’uomo commette resta esterno al suo corpo, ma chi si dà all’immoralità pecca contro se stesso. O avete dimenticato che voi stessi siete il tempio dello Spirito Santo? Dio ve lo ha dato ed Egli è in voi. Voi quindi non appartenete più a voi stessi, perché Dio vi ha fatti suoi, riscattandovi a caro prezzo. Rendete quindi gloria a Dio col vostro corpo” (1 Corinti 6.12-20).

Molto spesso pensiamo di appartenere a Dio ma dimentichiamo un’importante verità: in quanto salvati, redenti, eredi della promessa di eternità, siamo stati acquistati col prezzo del sangue di Gesù interamente, corpo compreso perché, quando si parla della nostra futura risurrezione, anch’esso verrà coinvolto. Ecco allora che, per un credente, l’unione con una prostituta causa un violento turbamento dell’equilibrio del corpo perché chi si unisce a lei “diventa un tutt’uno con lei” anziché un tutt’uno con Dio, compromettendo gravemente il suo rapporto col suo Signore. “Immoralità” è anche tradotto con “impurità”, ma andrebbe utilizzato più correttamente il termine “fornicazione” che deriva dal latino “fornix” cioè “sotterraneo a volta, sede di prostitute, postribolo”. La fornicazione è quindi un utilizzo improprio del nostro corpo, peccato che viene rimesso una volta abbandonato.

Ho scelto di partire dal corpo perché, iniziando un percorso dal basso, è più facile arrivare al concetto più alto, quello spirituale dell’essere “sola carne”. A questo punto è curioso osservare che uno degli aspetti del matrimonio è proprio porre le premesse perché la fornicazione non abbia luogo, e qui bisogna riflettere molto: “Rispondendo a quanto mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo non toccar donna, ma, per evitare la fornicazione, ciascuno abbia la propria moglie e ogni donna il proprio marito. Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto e ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma la moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo e temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate a stare insieme, perché satana non vi tenti mediante la vostra incontinenza” (1 Corinti 7.1-5).

Uno degli aspetti dell’unione tra uomo e donna, dell’essere “una sola carne” è quindi il prevenire una gestione disordinata della sessualità di entrambi, che porterebbe inevitabilmente alla fornicazione a tal punto che Paolo, al verso 8 scrive “Ai non sposati e alle vedove dico che è buona cosa per loro rimanere come sono io, ma se non sanno contenersi, si sposino, perché è meglio sposarsi che bruciare” non certo all’inferno, ma dentro di sé, espressione che non si riferisce solo alla sofferenza di chi non può avere una via di sfogo sessuale, ma soprattutto alle conseguenze alle quali essa può portare: la frustrazione che, se repressa per molto tempo, può condurre a manifestazioni che vanno oltre il “semplice” frequentare una prostituta. I casi in cui un uomo o una donna possono restare senza un compagno/a sono molto rari: Paolo ad esempio era uno di quelli e il suo stato non gli pesava; quando scrive “vorrei che tutti fossero come me” allude proprio alla sua condizione di uomo libero che non sentiva la necessità di un legame né affettivo né fisico, ma parla comunque della necessità di avere una donna come un diritto: “Non abbiamo noi il diritto di mangiare e di bere? Non abbiamo anche noi il diritto di portare con coi una moglie credente come l’hanno gli altri apostoli e i fratelli del Signore, o Cefa?” (1 Corinti 9.4,5).

Coi versi sull’appartenenza dei corpi al rispettivo coniuge, poi, viene posto l’accento sull’importanza dei rapporti sessuali fra entrambi, elemento che negli studi biblici viene messo in risalto raramente, per quanto intuibile, negli scritti delle precedenti dispensazioni in cui, a parte l’istinto naturale dell’uomo verso la donna e viceversa, la procreazione era il primo fine stante il fatto che in terra c’era posto per tutti: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela” (Genesi 1.28).

Anche qui però bisogna distinguere e riflettere sulla compatibilità fra gli individui, poiché se il legame non si basa su questa, è destinato a fallire anche sotto l’aspetto della sessualità che non può essere certo subita o lasciare insoddisfatte le parti perché, altrimenti, sarebbe come se l’unione non ci fosse. Il matrimonio è e deve essere un universo, un “hortus conclusus” cioè un giardino recintato sostenuto dall’amore reciproco che si manifesta nelle sue forme più disparate e trova nella comunione e nel sostegno dei coniugi l’uno verso l’altro il suo fondamento; viceversa, se visto a senso unico sotto l’aspetto dei rapporti fisici come purtroppo spesso capita, diventerebbe “una forma legale di prostituzione”, come Marx ebbe a scrivere un giorno.

 

LA RELAZIONE SPIRITUALE

Alla realtà terrena e fisica del matrimonio si accompagna inevitabilmente il suo aspetto spirituale di cui si occupa ancora una volta l’apostolo Paolo che spiega l’universo nuovo dei rapporti che si vengono a creare tra l’uomo e la donna: “E voi, mariti, amate le vostre mogli, come anche Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa, purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata. Così anche i mariti hanno il dovere di amare le mogli come il proprio corpo: chi ama la propria moglie, ama se stesso. Nessuno infatti ha mai odiato la propria carne, anzi la nutre e la cura, come anche Cristo fa con la Chiesa, poiché siamo membra del suo corpo. Per questo l’uomo lascerà il padre e la madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne.Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa! Così anche voi: ciascuno da parte sua ami la propria moglie come se stesso, e la moglie sia rispettosa verso il marito” (Efesi 5.25-33).

Si tratta di rapporti equilibrati di dare e ricevere, che impegnano vicendevolmente come conseguenza del progetto originario: Cristo ha amato la Chiesa, l’ha scelta e ha dimostrato il suo amore dando sé stesso, non ha tralasciato e non tralascia nulla perché questo possa verificarsi. Nella visione ideale e al tempo stesso molto concreta di Paolo si verifica che “Nel timore di Cristo, siate sottomessi gli uni agli altri: le mogli lo siano ai loro mariti, come al Signore. Il marito infatti è il capo della moglie, così come Cristo è capo della Chiesa, lui che è salvatore del corpo. E come la Chiesa è sottomessa a Cristo, così anche le moglie lo siano ai loro mariti in tutto” (21-24): questa visione non allude al fatto che l’uomo sia un capo indiscusso come si potrebbe apparire, ma abbia una posizione di responsabilità spirituale vista nel cammino quotidiano verso la realizzazione piena del Regno di Dio o, per essere in tema, di quelle “nozze dell’Agnello” imminenti. Nessuno è autorizzato a prevalere sull’altro. La Chiesa è sottomessa a Cristo perché, se non lo fosse, se non avesse questo atteggiamento, tutto l’equilibrio d’amore salvifico, il rapporto con Lui e la Sua assistenza cesserebbero esattamente come avvenne con Israele quando, abbandonato YHWH, peccava di idolatria e serviva altri dèi. Se così fosse, se la Chiesa agisse in autonomia dimenticando il sacrificio di Cristo, non sarebbe una comunità di salvati dai Suo Amore, ma un gruppo di religiosi con manifestazioni che non portano ad alcun risultato salvo l’appagamento carnale scambiato per spirituale.

Nel rapporto marito – moglie c’è una gerarchia tutta particolare, che non implica ordini dittatoriali, ma è fatta di relazioni ideali che si concretano naturalmente: “Voglio però che sappiate che il capo di ogni uomo è Cristo, e il capo della donna è l’uomo, e il capo di Cristo è Dio” (1 Corinti 11.3) perché “Egli(l’uomo) è immagine e gloria di Dio, ma la donna è gloria dell’uomo. Non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo. (…) Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna. Come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio” (vv. 7-12).

Il rapporto tra marito e moglie, in pratica, è sotto l’aspetto dell’amore identico a quello tra padre e figlio in cui troviamo, accanto alla correzione che si può rendere necessaria, il principio generale di non porlo nella condizione di soffrire per azioni ingiuste, dettate dal puro desiderio di dominare su di lui piegandolo all’esclusiva volontà del padre. È ancora Paolo ai Colossesi che spiega in cosa consista la vera sottomissione: “Voi, mogli, siate sottomesse ai mariti, come conviene nel Signore. Voi, mariti, amate le vostre mogli e non trattatele con durezza. Voi, figli, obbedite ai genitori in tutto, ciò è gradito al Signore. Voi, padri, non esasperate i vostri figli, perché non si scoraggino. Voi, schiavi, siate docili in tutto con i vostri padroni terreni: non servite solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore. (…) Servite il Signore, che è Cristo!” (Colossesi 3.18-24). Il modo con cui si concludono i versi che trattano dei rapporti nella famiglia (e nella società), “Servite il Signore, che è Cristo”, ci fanno capire che la vita stessa è servizio in relazione al ruolo o ai ruoli che una persona occupa nella famiglia e nel mondo: siamo organi, membra del corpo di Cristo anche all’interno di questi contesti ed ecco perché ho definito il matrimonio un “hortus conclusus”, un universo che contempla un’infinità di sentimenti, diritti e doveri perché “Chi commette ingiustizia subirà le conseguenze del torto commesso” (v.25).

Concludendo questa sesta parte, come ricordato in altre riflessioni, le parole che leggiamo nella Bibbia non solo riguardo al matrimonio, non vogliono mai essere un vademecum del credente perfetto: Dio non ha bisogno di automi, ma di persone che lo amino e lo vogliano seguire. Prendere una concordanza biblica, cercare un argomento e quindi di adeguarsi a quanto troviamo scritto in essa, se può essere un’azione lodevole, a nulla serve se a monte non esiste la comprensione di quanto sia necessario conoscere per capire ed adeguarsi di conseguenza. Non è un esercizio ascetico, non ci sono comandamenti da osservare con la rigidità egoistica degli scribi o dei farisei che portano inevitabilmente distorsione, presunzione, rigidità e giudizio, ma una pratica di vita: mi comporto così perché amo. E se amo, è perché sono stato amato per primo e questo amore l’ho compreso, l’ho assimilato e lo voglio vivere. Così come l’amore che ho per Cristo è tale perché si rinnova ogni giorno, allo stesso modo così è per quello coniugale: non c’è un giorno uguale all’altro, non ci sono rivendicazioni, ma solo un donarsi. Amen.

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5.19: SETTIMO, NON COMMETTERE ADULTERIO V (Matteo 5.27-32)

5.19 – Settimo, non commettere adulterio V (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Abbiamo concluso la quarta riflessione citando la necessità di un progetto, termine che per la serietà che implica richiama il piano di costruzione di una casa, di un ponte o di qualsiasi altra struttura atta a servire a uno scopo. Allo stadio progettuale non si può lasciare nulla all’improvvisazione, ma bisogna tenere presente il tipo di terreno su cui si costruisce e tutti i materiali che comporranno l’opera da terminare. Progettare, a parte la creatività utilizzata per rendere gradevole la struttura e il suo interno, richiede calcoli continui che non possono essere errati, pena il fallimento.  L’accostamento alla parabola della casa costruita sulla sabbia o sulla roccia, nonostante abbia un significato primario diverso, può comunque aiutarci: un uomo costruisce sulla roccia e leggiamo “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia”; un altro invece costruì sulla sabbia: “Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ed essa cadde e la sua rovina fu grande” (Matteo 7.24-29).

La parabola si riferisce a chi ascolta e mette in pratica le parole di Gesù, ma se prendiamo l’importanza del costruire, la roccia è il simbolo di una scelta accurata e la sabbia a ciò che non è, né può essere, stabile. E la roccia, nel caso del matrimonio, è sinonimo di compatibilità, di affinità e comunione di intenti. Costruire un matrimonio “su Cristo” è un ragionare troppo generico ed equivale a sostenere che le affinità tra le parti non siano importanti perché “tanto c’è Lui”. Chi ha costruito la prima casa della parabola, ha vagliato prima di tutto il tipo di roccia e la sua consistenza, chi ha edificato la seconda ha pensato solo a una base generica, la più facile e immediata, sottovalutando evidentemente il problema. In tre parole, non ha ragionato come avrebbe dovuto, secondo razionalità.

Questo esempio dovrebbe dire molto a quei cristiani che pensano, con un pensiero molto primitivo che ho sentito più volte, che se due persone sono credenti, è impossibile che abbiano dei problemi nella vita e quindi nel matrimonio. Al contrario, per costruire una casa, dal progetto al prodotto finito, ci vogliono persone specializzate. Anche prima del matrimonio gli eventuali, futuri coniugi, sono chiamati a vagliarsi, possibilmente affrontando anche degli esami specifici sulla compatibilità matrimoniale anziché far leva sul semplice innamoramento, causa spesso di rovina e non di costruzione. Possiamo citare l’episodio di Amnon e Tamar che troviamo in 2 Samuele 13: “Amnon si appassionò a tal punto di Tamar, sua sorella, da diventarne malato”(v.2), ma dopo alcune vicissitudini e la sua strategia per unirsi a lei, leggiamo “Ma egli non volle darle ascolto e, essendo più forte di lei, la violentò e si unì a lei. Poi Amnon ebbe verso di lei un odio fortissimo, a tal punto che l’odio per lei fu maggiore dell’amore di cui l’aveva amata prima”(vv.14,15).

Tralasciamo il fatto che l’unione partiva in modo clamorosamente errato perché si basava sull’incesto e guardiamo le dinamiche: si passa da una passione incontenibile – per quanto a senso unico – al punto da provocare una malattia nell’interessato e poi, una volta raggiunto lo scopo, all’odio. Così può accadere quando la passione, o l’innamoramento, trova le sue origini nell’aspetto esteriore o comunque in ciò che appare della persona oggetto di attenzioni: questa piace e non si sa perché, anche se in realtà si vogliono vedere solo i suoi lati gradevoli, non c’è nulla di ragionato o responsabile in questo. È istinto. È innamoramento. È vedere la persona per quello che vorremmo sia, non per quello che è. Passa.

Studi sull’amore di coppia furono sviluppati da Robert Steinberg che lo suddivise in sette tipologie, e cioè:

 

Simpatia(solo intimità): connotata da confidenza, calore, tipica dei rapporti di amicizia;

Infatuazione(solo passione): caratteristica dell’amorea prima vista, con l’idealizzazione dell’altro;
Amore vuoto(solo decisione-impegno): amore stagnante, routinario, senza dialogo. Può essere l’evoluzione di matrimoni che durano da molto tempo dove si resta insieme solo per il vincolo coniugale;
Amore romantico(intimità + passione): rimanda alle grandi storie d’amoreletterarie o alle avventure estive, con la presenza di vicinanza e attrazione, ma senza progettualità;
Amore fatuo(passione + impegno): si è travolti dalla passione ma alla base non c’è la conoscenza emotiva profonda. È proprio delle relazioni in cui ci si sposa poco dopo essersi conosciuti, sull’onda della sola attrazione;

Amore amicizia(intimità + decisione-impegno): si ritrova nei rapporti di lunga durata, dove la passione si è spenta ma resta la condivisione;

Amore vissuto(intimità + passione + decisione-impegno): è l’amorecompleto, è difficile farne esperienza e, soprattutto, mantenerlo.

 

Credo che sia importante che le persone conoscano questi aspetti e siano chiamate a interrogarsi dai pastori, anziani o sacerdoti impegnati soprattutto sui giovani.

Tornando ai testi della Scrittura, possiamo citare due massime tratte dal libro dei Proverbi che, se possono far sorridere, nascondono verità molto amare: la prima è “Meglio abitare nell’angolo di un tetto, che in comoda casa con moglie rissosa” (21.9), la seconda “Una donna bella, ma senza giudizio, è un anello d’oro nel grugno di un porco” (11.22). Qui abbiamo due esempi drammatici: la “moglie rissosa”, cioè persona dal temperamento litigioso, naturalmente attaccabrighe, è una persona che non dà tregua perché trae soddisfazione nella lite e non nella pace che raggiunge unicamente quanto tutto quanto si aspetta egoisticamente procede secondo le proprie aspettative. In genere le persone di questo tipo, in cui chiaramente rientrano anche gli uomini, sono sempre rozze nelle loro manifestazioni tanto nel dolore quanto nella gioia, si entusiasmano o si disperano solo di fronte ad eventi “forti”. Il “rissoso” non ha alcun rispetto per gli altri e a motivo del suo carattere imprevedibile e disturbante, difficilmente riesce ad avere legami duraturi di qualunque tipo. La “donna bella, ma senza giudizio” è l’opposto della categoria precedente. Qui per “giudizio” non si fa riferimento all’intelligenza, ma al discernimento, alla capacità di distinguere: il bene dal male, la dignità dalla vergogna, il decente dall’indecente, il bello dal brutto, l’utile dall’inutile, il morale dall’immorale. La bellezza fa da opposto a ciò che nasconde, cioè il nulla. La persona di questo tipo fonda tutta la sua vita sull’apparenza e ogni sua azione si basa sull’esteriorità. È incapace di qualsiasi sentimento profondo e la sua capacità di inserimento in un ambiente dipende dal grado con cui è accettata e soprattutto ammirata dal suo prossimo che, comunque, tratta con sufficienza vedendolo come strumento per le proprie realizzazioni.

Al contrario vediamo raffigurata un’unione importante in Proverbi 31.10-27 in cui è descritta la donna “operosa” secondo il concetto – si badi bene – di allora: “Una donna forte, chi potrà trovarla? Ben superiore alle perle è il suo valore. In lei confida il cuore del marito e non verrà a mancargli il profitto. Gli dà felicità e non dispiacere tutti i giorni della sua vita. Si procura lana e lino e li lavora volentieri con le mani. È simile alle navi di un mercante, fa venire da lontano le provviste. Si alza quando ancora è notte, distribuisce il cibo alla sua famiglia e dà ordini alle sue domestiche. Pensa a un campo e lo acquista e con il frutto delle sue mani pianta una vigna. Si cinge forte i fianchi e rafforza le sue braccia. È soddisfatta perché i suoi affari vanno bene; neppure di notte si spegne la sua lampada. Stende la mano alla conocchia e le sue dita tengono il fuso. Apre le sue palme al misero, stende la mano al povero. Non teme la neve per la sua famiglia, perché tutti i suoi famigliari hanno doppio vestito. Si è procurata delle coperte, di lino e di porpora sono le sue vesti. Suo marito è stimato alle porte della città, quando siede in giudizio con gli anziani del luogo. (…) Apre la bocca con saggezza e la sua lingua ha solo insegnamenti di bontà. Sorveglia l’andamento della sua casa e non mangia il pane della pigrizia”.

Ecco, nonostante il testo proponga una visione della donna possibile solo nella società di un tempo antico, sono il carattere della persona desumibile dai termini utilizzati a venire posti in risalto: si parla di una donna di cui il marito si fida (e viceversa), che possiede un modo di essere fondato sulla continuità che gli garantisce la possibilità di gioire in lei. È una donna non spaventata dalla fatica, che quando non è impegnata nelle sue faccende pensa a soluzioni per migliorare la propria vita e di quanti le stanno intorno. È previdente a tal punto da aver preso in considerazione che un giorno possa nevicare, evento raro ma possibile per i territori in cui è collocato questo scritto. I risultati positivi che ottiene col suo lavoro la spronano a migliorarsi anziché pensare di aver fatto abbastanza. All’occorrenza, rinuncia al sonno pur di risolvere eventuali problemi e rifiuta tutto ciò che non è essenziale, come intrattenersi a spettegolare con altri. È un tipo generoso e compassionevole e il fatto che troviamo menzionato il marito “stimato alle porte della città” ci autorizza a pensare che si tratti di un matrimonio fra due persone fra loro compatibili per carattere.

Tutto questo rafforza ulteriormente l’idea del progetto cui accennavamo prima: l’uomo e la donna sono tenuti a considerare le caratteristiche caratteriali compatibili e a trovare una ragione precisa al loro stare insieme. Nell’idea della loro unione, è contemplata la possibilità di avere figli? Tanto l’uno quanto l’altra, hanno l’istinto genitoriale? C’è piena fiducia reciproca, o ci sono delle riserve? Come risponde l’uno rispetto all’altro di fronte a uno stress prolungato? C’è maturità affettiva, o esistono problemi irrisolti? Queste sono solo un esempio delle domande che ci si deve necessariamente porre; non dimentichiamoci che per ogni casa o costruzione esiste sempre il collaudo che viene effettuato verificando le conformità tra progetto teorico e opere realmente eseguite; controllando i metodi di calcolo strutturale e i risultati vengono riesaminate le prove sui campioni dei materiali ed infine si arriva alle prove di carico sui solai misurando eventuali deformazioni e pressioni. La stessa cosa, figurativamente parlando, la devono fare i due che desiderano coinvolgersi nel progetto matrimoniale, pena una fine indecorosa che vediamo nella frase “Se un regno è diviso in parti contrarie, non può sorreggersi” (Marco 3.24).

Appare chiaro che un’unione non può basarsi unicamente su un generico sentimento d’amore, ma deve avere delle solide fondamenta nelle persone stesse e nella volontà di costruire assieme un futuro che non contemplerà solo dei “bei momenti”, ma anche delle conflittualità da risolvere.

E torniamo ora all’inizio del nostro discorso, cioè l’informazione che la Chiesa deve dare ai suoi membri, in particolare ai giovani che arriveranno a un matrimonio. I due saranno una sola carne, raggiungeranno un primo traguardo, uno stato importante che non potrà più essere sciolto se vorranno davvero concretare l’ideale di Dio nella loro vita: parlar loro di diritti e doveri come se esistesse un manuale per la vita a due, non ha senso e offende l’intelligenza. Al contrario, metterli in guardia sulla serietà della loro scelta in modo molto più esteso di quanto non abbiamo fatto in questa sessione, può certamente far del bene ed evitare catastrofi anche perché ci possiamo chiedere quale validità possa avere un matrimonio realizzato senza consapevolezza o volontà, una scelta che la Scrittura ci autorizza a paragonare a quella di Cristo per la Chiesa.

Nelle Chiese cristiane, per lo meno in molte, purtroppo tutto ha preso il tono del pressapochismo o del manierismo: si danno consigli su come scegliere l’edificio in cui avrà luogo la cerimonia, su quali tipi di bomboniere concentrarsi, sui vestiti. Nelle Chiese evangeliche molto spesso tutto si risolve invitando un pastore considerato importante che, naturalmente, parlerà di matrimonio con un messaggio scontato cercando – solo allora – di responsabilizzare gli sposi quando hanno già fatto la loro scelta: ma che senso ha?

Se Nostro Signore parla a persone che avevano la possibilità di conoscere il valore del matrimonio e li illumina sull’essenza di questa istituzione, oggi c’è chi si è sposato senza essere consapevole e, nonostante la “sola carne”, non ha colpe perché nessuno, a differenza di ciò che avveniva in Israele, si è mai occupato di lui, di informarlo, di capirlo. Anzi, gli ha posto, anche senza volerlo, in mente delle convinzioni errate. Se la sola lettura o citazione del testo biblico fosse sufficiente a comprendere e discernere, Salomone non avrebbe mai chiesto a Dio un cuore intelligente per poter amministrare la giustizia e discernere il bene dal male: gli sarebbe bastato farsi un prontuario, un vademecum con tutti i casi previsti dalla Legge di Mosè e regolarsi di conseguenza. E guardate la risposta che ebbe: “Poiché tu hai domandato questo, e non hai chiesto per te lunga vita, né ricchezze, né la morte dei tuoi nemici, ma hai chiesto l’intelligenza per poter discernere ciò che è giusto, ecco, io faccio come tu hai detto; e ti do un cuore saggio e intelligente: nessuno è stato simile a te nel passato, e nessuno sarà simile a te in futuro” (1 Re 3.9-12). Ricordiamo suo padre Davide che, come abbiamo ricordato, mangiò i pani di presentazione e non fu ritenuto colpevole.

Forse i concetti esposti possono esser sembrati come ovvi, ma credetemi che non lo sono per tutti, quelli che magari sono cresciuti diversi dai molti. Credo che l’uomo, ogni uomo e donna credente, abbia dovere di chiedersi sempre il perché.

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5.18 – SETTIMO: NON COMMETTERE ADULTERIO IV (Matteo 5.27-32)

5.18 – Settimo, non commettere adulterio IV (Matteo 5.27-32)

27Avete inteso che fu detto: Non commetterai adulterio.28Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. 29Se il tuo occhio destro ti è motivo di scandalo, cavalo e gettalo via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geènna. 30E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. 31Fu pure detto: «Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto del ripudio». 32Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di unione illegittima, la espone all’adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”.

Anche se si tratta di passi che verranno meglio sviluppati a suo tempo, è buona cosa esaminare i paralleli alla versione di Matteo. In questa quarta parte prenderemo in esame l’istituzione matrimoniale dal punto di vista tecnico-legale, lasciando alle successive il compito di entrare nella rivelazione cristiana, fermo restando il fatto che a cambiare non sono tanto i contenuti, quanto le premesse e alcuni sviluppi.

Il primo passo da prendere in esame è reperibile in Luca 16.17,18 e conferma quanto esposto sul monte. Gesù stava parlando alla folla e, dopo la parabola del “servitore disonesto”, aveva parlato dell’impossibilità a “servire due padroni, Dio e la ricchezza”. Questo discorso rese i Farisei, che erano “attaccati al denaro”, indisponenti a tal punto da farsi “beffe di lui” davanti a coloro che lo ascoltavano. Dopo aver detto loro “Voi siete quelli che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i vostri cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa abominevole”, ecco che Gesù passa a descrivere ciò che stava avvenendo in quel tempo: “La Legge e i Profeti durarono fino a Giovanni: da allora in poi viene annunciato il regno di Dio e ognuno si sforza di entrarvi. È più facile che passino il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge. Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio”.

Ecco, in questi tre versi, solo in apparenza scollegati, vediamo altrettante verità: la prima riguarda la “Legge” e i “Profeti”, le due grandi branche in cui si dividono gli scritti dell’Antico Patto che “durarono fino a Giovanni” nel senso che fu il Battista l’ultimo grande uomo di Dio di quell’era. Gesù, colui di cui lo stesso Giovanni disse “bisogna che lui cresca, e io diminuisca”, precisa cosa sta accadendo in quei momenti: “viene annunciato il regno di Dio” a quanti hanno “orecchie per sentire” e ciascuno di loro “si sforza di entrarvi”, cioè ubbidisce all’invito “Sforzatevi di entrare per la porta stretta perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno” (Luca 13.24). Entrare per questa porta equivale a lasciare fuori da essa tutto ciò che è inutile, appesantisce e impedisce il passaggio attraverso di lei. E, come dicono i versi successivi, molti cercheranno di entrare quando sarà troppo tardi, senza riuscirvi.

Ebbene, nonostante il messaggio della salvezza, rivoluzionario, abbiamo letto che “è più facile che passino il cielo e la terra, anziché cada un solo trattino della Legge” certo un riferimento non a quella cerimoniale, ma a quella morale perché le esigenze di Dio in proposito non sono cambiate a tal punto che leggiamo, a compendio dei tre versi di Luca che abbiamo riportato, “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio” (1 Corinti 6.9,10): sono parole che confermano il senso della Legge talché, per porre rimedio alle infrazioni commesse incidentalmente e non per professione, leggiamo “Chi rubava non rubi più, anzi lavori operando il bene con le proprie mani, per poter condividere con chi si trova nel bisogno” (Efesi 4.28).

Qui vediamo chiaramente che è la confessione del peccato e il suo abbandono che cancella il peccato specifico e quindi dà il perdono di Dio, a differenza del sacrificio o della condanna richiesta dalla vecchia dispensazione che comunque è la sola ad informarci di cosa sia il peccato: una violazione più o meno cosciente alle esigenze di YHWH. È probabile che, con la citazione della frase sul cielo e la terra contrapposta al trattino, Gesù citi un proverbio in uso al suo tempo, condividendolo. Sappiamo che non era venuto per abolire, ma per adempiere, o “portare a compimento”.

Il secondo passo, più impegnativo, lo troviamo in Marco 10 quando dei farisei, “per metterlo alla prova, gli domandavano se era lecito ad un marito ripudiare la propria moglie”. Dobbiamo tener presente che Matteo, riportando lo stesso episodio, aggiunge “per un motivo qualsiasi”, che riflette più da vicino il dibattito rabbinico contemporaneo sul divorzio. Leggiamo ora Marco: “Ma egli rispose loro «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». Dissero «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». Gesù disse loro «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma, ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due diventeranno una sola carne. Dunque l’uomo non divida ciò che Dio ha unito». A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento, e disse loro «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio»” (10.2-12).

Da queste parole vediamo che Nostro Signore spinge i Farisei ad andare alle origini della creazione, quando Adamo vedendo la donna disse “Questa veramente è ossa delle mie ossa e carne della mia carne”, ragione che spiega la spinta dell’uomo – e della donna – a formare con la sua controparte un legame più forte di quello che aveva coi propri parenti diretti. “Per la durezza del vostro cuore” è così un invito a riflettere sulla condizione penalizzante del peccato e della mente di quel popolo: Dio che li aveva eletti, ma il dettaglio “essere di dura cervice” equivaleva all’essere ostinati, caparbi, non disposti a piegarsi. Ricordiamo Deuteronomio 31.27 “…perché conosco la tua ribellione e la durezza della tua cervice”, o Nehemia 9.16 “Ma essi, i nostri padri, si sono comportati con superbia, hanno indurito la loro cervice e non hanno obbedito ai miei comandamenti”. Eppure li amò comunque. E soprattutto, li scelse. Gli stessi Farisei, comunque, dovettero ammettere che Mosè aveva “permesso”, cioè concesso in virtù di un’autorità, quando la norma in origine era un’altra.

In altri termini Gesù, citando la regola scritta da Mosè a proposito del divorzio, pone l’accento sulla sacralità dell’unione e non sul fatto che l’uomo potesse interrompere il legame matrimoniale a suo piacimento: “l’uomo non separi ciò che Dio ha unito”. Citando poi la “sola carne” il Maestro ci rimanda a quello che era Adamo all’origine, quando fu creato e la donna ancora non esisteva. Quindi, l’unione tra uomo e donna (compatibili fra loro) è in un certo senso un ritorno alle origini in cui la parte maschile convive con quella femminile. E lo fa per tutta la vita. Qui abbiamo il confine e al tempo stesso ciò che accomuna il matrimonio dei tempi della Legge a quello della Grazia. Ancora una volta, dobbiamo sottolineare che gli ebrei, a differenza di noi pagani “innestati” nel piano di Dio, sapevano queste cose e venivano loro insegnate fin dall’infanzia per cui non giungevano impreparati alla gestione del matrimonio. Per quanto riguarda il cristianesimo, la conoscenza di questi argomenti non può avvenire per sommi capi, ma deve essere profondamente radicata nei giovani che, purtroppo molto spesso, arrivano al matrimonio frettolosamente e soprattutto disinformati sugli innumerevoli significati che la scelta di vita a due comporta, nel bene e nel male e i cui germi, come sempre, si trovano già pronti negli scritti dell’Antico Patto.

Certo, in tutto quello che abbiamo visto finora non c’è nulla che non sia vero e rispondente alle esigenze di Dio perché tutta la Scrittura, se ci pensiamo, in sostanza contiene due cose, quello che Lui ha fatto per l’uomo e ciò che l’uomo può fare per Lui. La Bibbia, per il credente spirituale, è un libro dai contenuti inesauribili sui rapporti fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e il suo simile e fra l’uomo e la donna rivolto a tutti a prescindere dal tempo in cui i suoi libri furono scritti. Se da un lato abbiamo il dovere di prendere il testo come riferimento, dall’altro abbiamo la stessa necessità di porci delle serie domande su cosa significhino quelle frasi oggi fermo restando che, se “Gesù Cristo è lo stesso di ieri, di oggi e in eterno”, lo sono anche le sue esigenze. Eppure, queste cambiano nel senso che siamo chiamati ad osservarle alla luce della conoscenza di cui disponiamo e di una lettura attenta, ben diversa da quella della Chiesa di un tempo che, male interpretando le Scritture, riteneva la terra piatta e che il sole ruotasse attorno ad essa, quando nulla di ciò è scritto. E al riguardo si potrebbero dire tante cose.

Ci sono fenomeni che hanno avuto un senso nei primi tempi del cristianesimo e che oggi non si ripetono più: pensiamo alle lingue straniere che parlavano i componenti della Chiesa di Gerusalemme dopo la discesa dello Spirito Santo, primo segno ufficiale della Sua presenza. I membri di quella Chiesa parlavano lingue precise che non avevano mai studiato prima e che i testimoni a quell’evento riconobbero: “Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano «Tutti costoro che parlano non sono forse galilei? E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadocia, del Ponto e dell’Asia, della Frigia e della Panfilia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, Giudei e proseliti, Cretesi ed Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». Tutti erano stupefatti e perplessi e si chiedevano l’un l’altro «Che cosa significa questo?». Altri, invece, li deridevano e dicevano «Si sono ubriacati di vino dolce»” (Atti 2.7-13). Dopo quella manifestazione dello Spirito, chiunque avesse voluto imparare l’arabo, avrebbe dovuto studiarlo. Dopo di allora, ogni persona anche spirituale, se vuole parlare una lingua straniera, è costretta a dedicarsi ad essa con impegno e può far leva solo sulla propria attitudine.

Altro caso avvenuto e non più proponibile oggi è l’immunità dal morso dei serpenti velenosi. Leggiamo infatti “Questi sono i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome cacceranno i demoni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malari e questi guariranno” (Marco 16.17,18): sono eventi che si sono verificati; Paolo stesso sulla costa di Malta fu morso da un serpente e, fra lo stupore generale, non gli avvenne nulla di male (Atti 28.1-10). Oggi, se mi morde una vipera, la mia vita corre un serio pericolo se non ho con me l’antidoto o il Padre decide che la mia ora non è ancora giunta. Ma mi faccio male comunque.

Questi due esempi li ho citati per dire che i tempi sono diversi e che oggi i miracoli e l’assistenza di Dio costituiscono eventi molto seri che non possono essere dati per scontati. Certo sostenere che non siamo protetti sarebbe un’assurdità, ma dobbiamo tenere presente sempre che abbiamo il dovere di essere consapevoli e di “non tentare il Signore” attraverso la pretesa che debba per forza intervenire, provvedere, assistere, sopperire alla nostra incoscienza o presunzione. Ecco, questa è una premessa fondamentale per le nostre prossime riflessioni sul matrimonio cristiano: oggi le leggi della fisica, della psicologia accertata, della genetica, insomma di tutto quanto è dimostrato e dimostrabile, non possono essere ignorate come un tempo.

Chiudo citando l’esempio di un componente di una Chiesa cristiana di cui sentii parlare tempo fa: era portatore sano di una malattia genetica remissiva che, quindi, avrebbe potuto essere trasmessa ad eventuali figli. Convinto che Dio avrebbe comunque provveduto in bene, volle un figlio che nacque con problematiche molto serie e, convinto che ciò fosse dovuto a una sua poca fede, ne ebbe ancora un altro che nacque con gli stessi handicap del fratello. Il suo fu un comportamento che potrebbe essere definito criminale, ma che trova le sue radici in un atteggiamento, o interpretazione, superstiziosa: non si possono sfidare impunemente le leggi della scienza quando è palese che riflettono la logica della creazione. Non tentare il Signore Iddio tuo.

Il matrimonio, per noi oggi, alla luce di quello che sappiamo dall’Antico e del Nuovo Testamento, è un avvenimento che spesso trova le origini del suo eventuale fallimento in un difetto di progettazione di uno o entrambi i coniugi che, probabilmente non informati a dovere non tanto sulla sua importanza, ma sulle sue premesse, finiscono per vivere con estrema fatica il loro legame.

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