5.08 – LE BEATITUDINI 7: GLI OPERATORI DI PACE (Matteo 5.3-10)

5.8 – Il sermone sul monte : le beatitudini VII (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

 

BEATI GLI OPERATORI DI PACE

Più che “pacifici” come in alcune traduzione, è corretta quella di “operatori di pace” o “coloro che si adoperano per la pace” nel senso che si impegnano per costituirla. La parola greca, letteralmente è, è “coloro che pongono la pace”, cioè non tanto quelli che sono di indole pacifica, istintivamente contrari alle dispute, ai litigi e alle lotte, ma quegli uomini che compiono sforzi per riconciliare coloro che sono nemici, o per prevenire i dissidi. Si tratta di una beatitudine particolare, raccordabile a quella dei mansueti e dei misericordiosi, che comporta l’essere chiamati “figli di Dio”, cioè avere un riconoscimento. Può sembrare scontato, ma non è così perché l’operatore di pace non è un diplomatico, chi appende alla finestra una bandiera con i colori dell’arcobaleno, chi rifiuta aprioristicamente l’uso delle armi o che pretende di insegnare la pace agli altri come stato d’animo interiore o esteriore, ma chi l’ha trovata in Cristo e per questo ha deposto il contendere, innato in lui, come metodo di espressione. La pace altrimenti è irraggiungibile e ciò può avvenire anche nel cristianesimo quando, più che difendere l’essenza del Vangelo dentro di noi, ci preoccupiamo delle nostre posizioni e coltiviamo l’orgoglio: nel momento in cui la fede diventa un alibi, e quindi è uno degli scopi della carne per apparire o salvaguardare “l’uomo vecchio”, ecco che viene a mancare.

Anche questa beatitudine viene pronunciata da Gesù per il suo uditorio guardando sia il presente, ma soprattutto il futuro: la folla sul monte poteva facilmente ricordarsi di Davide, al quale Iddio non consentì di costruirgli il Tempio, come leggiamo in 1 Cronache 22.7-10: “Davide disse a Salomone: «Figlio mio, io stesso avevo in cuore di costruire una casa al nome dell’Eterno, il mio Dio. Ma la parola dell’Eterno mi fu rivolta dicendo «Tu hai versato molto sangue e hai fatto molte guerre; perciò non costruirai una casa al mio nome, perché hai versato molto sangue sulla terra davanti a me. Ma ecco ti nascerà un figlio che sarà uomo pacifico e io gli darò riposo da parte di tutti i suoi nemici tutt’intorno. Egli si chiamerà Salomone e nei suoi giorni darò pace e tranquillità ad Israele. Egli costruirà una casa al mio nome: egli sarà per me un figlio e io sarò per lui un padre, e renderò stabile il suo trono su Israele per sempre”.

Il brano letto è indubbiamente interessante: Davide fece molte guerre e sparse molto sangue, anche se ciò serviva per la stabilità e la sussistenza di Israele, fu un servitore utile che tuttavia aveva messo in luce un aspetto di Dio in cui non si compiace, preferendo sempre la pace al dar luogo ai suoi giudizi e ricorrendo ad essi solo quando l’uomo lo pone nelle condizioni di non agire altrimenti. È questo un modo sbrigativo per accennare l’argomento, ma affrontando la severità di Dio andremmo fuori tema. Davide non era idoneo alla costruzione del tempio non perché “cattivo”, ma perché l’utilità che aveva avuto sconfiggendo tutti quei popoli descritti nei libri storici si era esaurita e un uomo come lui non poteva edificare un Tempio all’Iddio misericordioso e lento all’ira. Questo naturalmente in estrema sintesi. Per costruire il Tempio ci voleva un uomo come Salomone, appunto dall’ebraico šalôm, pace. E il suo regno ebbe una pace – a parte lievi interruzioni – praticamente continua che portarono ricchezza, prosperità, aumenti nel commercio e costruzioni.

Nella storia di Davide e in quella di suo figlio abbiamo un forte insegnamento sulla natura umana poiché il primo, nonostante la protezione di Dio in tutte le fasi più determinanti della sua vita e un continuo avere di fronte concretamente la sua assistenza, fu adultero e omicida. Anche Salomone, con tutta la sua saggezza divenuta proverbiale e la sua storia edificante, finì in una condizione triste vista in 1 Re 11.1-11: “Il re Salomone amò molte donne straniere, oltre alla figlia del faraone: moabite, edomite, sidònie e ittite, provenienti dai popoli di cui aveva detto il Signore agli israeliti «Non andate da loro ed essi non vengano da voi, perché certo faranno deviare i vostri cuori dietro i loro dèi». Salomone si legò a loro per amore. Aveva 700 principesse per mogli e 300 concubine; le sue donne gli fecero deviare il cuore. Quando Salomone fu vecchio, le sue donne gli fecero deviare il cuore per seguire altri dèi e il suo cuore non restò integro con il Signore, suo Dio, come il cuore di Davide, suo padre. Salomone seguì Astarte, dea di quelli di Sidone, e Milcom, obbrobrio degli ammoniti. Salomone commise il male agli occhi del Signore e non seguì pienamente il Signore come Davide, suo padre. Salomone costruì un’altura per Camos, obbrobrio dei Moabiti, suo monte che è di fronte a Gerusalemme, e anche per Moloc, obbrobrio degli Ammoniti. Allo stesso modo fece per tutte le sue donne straniere che offrivano incenso e sacrifici ai loro dèi. Il Signore, perciò, si sdegnò contro Salomone, perché aveva deviato il suo cuore dal Signore, Dio d’Israele, che gli era apparso due volte e gli aveva comandato di non seguire altri dèi, ma Salomone non osservò quanto gli era stato comandato”.

Un uomo integro, Davide, non poté costruire il Tempio, ma un uomo pacifico e saggio, Salomone, giunse al punto da seguire dèi immaginari e a costruire templi per gli “obbrobri” degli Ammoniti, cioè gli idoli. Se, come scrive l’apostolo Paolo, queste cose sono state scritte per nostro insegnamento, consideriamo ciò che quel re aveva ricevuto: “Dio concesse a Salomone sapienza, una grandissima intelligenza e una mente vasta come la sabbia che è sulla riva del mare. E la sapienza di Salomone superò la sapienza di tutti i figli di Oriente e tutta la sapienza degli Egiziani. Da tutti i popoli veniva gente per udire la sapienza di Salomone, mandati da tutti i re della terra che avevano sentito parlare della sua sapienza” (1 Re 4.29-30,34). Questo re, quindi, è l’esempio più eclatante di chi, permettendo a ciò che è impuro di svilupparsi dentro di lui, finisce per corromperlo. Siamo sempre al solito tema, quello del peccato che raramente fa nell’essere umano una brutale irruzione, ma si presenta sempre come qualcosa di apparentemente trascurabile, di “quasi innocuo”, naturale. Ma che poi presenta il conto quando è troppo tardi e chi si trova a pagarne le conseguenze è proprio chi ha sottovalutato il problema.

Ecco quindi il perché della citazione di Davide, uomo di guerra, e di Salomone, uomo di pace: il primo fu considerato come una persona che seguì Iddio “pienamente” e con il cuore “integro” nonostante il peccato commesso con Uria e sua moglie, il secondo invece fu un uomo a cui molto fu dato, ma diede prova di non saper gestire quanto ricevuto e fu giudicato per questo. Allora va da sé che col termine “operatori di pace” Gesù alluda agli uomini che si adoperano per essa utilizzando uno strumento la cui gestione corretta è possibile solo se guidata dallo Spirito Santo, dato ai figli di Dio che ne hanno la responsabilità.

Della pace, come esseri umani, abbiamo due idee, quella interiore e quella tra gli uomini o i popoli, entrambe irraggiungibili, possibili solo per un certo periodo tempo; basta poco a rompere il loro equilibrio. Il cristiano deve tenere presente sempre che ci sono due ambiti in cui vive, quello terreno e quello spirituale e che è nella misura in cui si dedica all’uno piuttosto che all’altro che realizza l’una o l’altra pace. Un caro fratello raffigurava la vita del credente in una “L” affermando che se la sua base era dominante sull’altezza, questi avrebbe vissuto una vita dominata dalla carne, dalla terra, dal proprio “io”; ecco perché nella preghiera del “Padre Nostro” leggiamo “dacci oggi il nostro pane quotidiano”, meglio tradotto con “necessario”, alludendo sì al cibo per il naturale sostentamento del nostro corpo, ma ancor di più a quello spirituale. Gesù disse “Vi lascio la pace, vi dò la mia pace. Non la dò come il mondo la dà a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbiate timore” (Giovanni 14.27). Chiedersi ogni giorno cosa facciamo della pace che Cristo ci ha lasciato, è importante.

In contrapposizione, a proposito di pace umana, va tenuto presente l’insegnamento di Paolo ai credenti di Tessalonica, la cui Chiesa si riuniva in casa di un certo Giasone. Tra gli interrogativi cui era necessario dare una risposta, vi erano quelli relativi alla destinazione finale di coloro che morivano e sul tempo in cui Gesù Cristo sarebbe ritornato: Paolo scrive “Riguardo poi ai tempi e ai momenti, non avete bisogno che ve lo scriva, perché sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà «C’è pace e sicurezza» allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta e non potranno sfuggire. Ma voi, fratelli, non siate nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre” (1 Tessalonicesi 5.1-4). Pace e sicurezza irraggiungibili, posticci, effimeri su cui l’uomo cerca di costruire lasciando da parte quelle che solo il Cristo risorto può dare.

Chi appartiene a Dio e lo segue, non può che essere un portatore di pace, tanto dentro di sé quanto nei suoi rapporti con gli altri, non può non adoperarsi ad essa tanto più in seno alla Chiesa di cui fa parte perché Cristo stesso è stato un riconciliatore: “È piaciuto infatti a Dio che abiti in lui tutta la pienezza e che per mezzo di lui e in vista di lui siano riconciliate tutte le cose, avendo pacificato con il sangue della sua croce sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli” (Colossesi 1.19, 20).

Chi davvero crede, ha avuto la sua persona lavata e santificata dal sangue di Gesù, deve fare altrettanto: “Chi è tra voi saggio e intelligente? Con la buona condotta mostri che le sue opere sono ispirate a mitezza e sapienza. Ma se avete nel vostro cuore gelosia amara e spirito di contesa, non vantatevi e non dite menzogne contro la verità. Non è questa la sapienza che viene dall’alto: è terrestre, materiale, diabolica; perché dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni. Invece la sapienza che viene dall’alto è pura, poi pacifica, mite, arrendevole, piena di misericordia e di buoni frutti, imparziale e sincera. Per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia” (Giacomo 3.13-18).

Ecco gli operatori di pace: saranno chiamati, riconosciuti da Dio stesso come suoi figli. Amen.

* * * * *

 

 

5.07 – LE BEATITUDINI 6: I PURI DI CUORE (Matteo 5.3-10)

05.07 – Il sermone sul monte : le beatitudini VI (Matteo 5.3-10)

 

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I PURI DI CUORE

E arriviamo al cuore, argomento molto vasto cui anche la letteratura ha dato uno spazio enorme in tutte le epoche: quest’organo, così complesso e fondamentale per la vita non solo degli esseri umani, è stato da sempre visto come la sede dei sentimenti e dei pensieri, mutando i propri battiti in base alle emozioni e non solo allo sforzo fisico. Il cuore, assieme allo stomaco e al fegato, è suscettibile allo stress anche cronico e, se prolungato, può danneggiare in modo grave tutto il sistema cardiovascolare tramite l’ipertensione, a sua volta causa di inconvenienti anche gravi. Nella Bibbia il cuore è visto come l’organo che risponde alle emozioni e che arriva a influenzare fortemente quello che dovrebbe essere teoricamente, asetticamente, un altro ente del tutto autonomo, cioè il cervello dal quale scaturiscono tutti gli impulsi, spesso automatici, per la nostra vita e sopravvivenza. Allora non si sapeva che il cuore possiede dei neuroni che lo abilitano ad agire indipendentemente dal cervello che in alcuni casi, come dimostrano le ricerche del californiano HearthMath Insitute, gli obbedisce.

La conoscenza della fisiologia del muscolo cardiaco, tanto ai tempi del Nuovo che dell’Antico Patto, nonostante allora fosse elementare, aveva individuato comunque delle linee di base valide ancora oggi: pensiamo solo a Proverbi 14.30 “Un cuore calmo è vita per il corpo, ma l’invidia è il tarlo delle ossa”, o a 4.23 “Custodisci il tuo cuore più di ogni altra cosa, perché da esso sgorgano le sorgenti della vita”. Collegato a questo verso, che troviamo in 14.30 possiamo citare 17.22 “Un cuore allegro è una buona medicina, ma uno spirito abbattuto inaridisce le ossa”.

La “cardiologia biblica”, però, al di là di questi esempi e molti altri che si possono trovare in cui il cuore è citato nelle situazioni più disparate, si occupa fondamentalmente di lui come motore delle azioni e delle scelte della persona e la prima volta in cui viene nominato in tal senso la troviamo poco prima del terzo giudizio di Dio sull’uomo mediante il Diluvio: “Ora Iddio vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che tutti i disegni dei pensieri del loro cuore non erano altro che male in ogni tempo” (Genesi 6.5). Era un’umanità che pensava esclusivamente a se stessa, che si preoccupava della propria sopravvivenza materiale cercando di riempire il proprio tempo senza interrogarsi su come affrontare degnamente la propria vita e la propria morte in vista dell’eternità di cui conosceva l’esistenza; leggiamo infatti che “Dio ha fatto ogni cosa bella al suo tempo: egli ha messo la nozione dell’eternità nel loro cuore, senza però che gli uomini possano capire l’opera compiuta da Dio dal principio alla fine” (Ecclesiaste 3,11). Per questo le religioni sono un tentativo umano per sopperire a questo senso innato. Per questo, quando un uomo muore, se non è illuminato dallo Spirito Santo, ha paura.

Il cuore, quindi, caratterizza la vita dell’essere umano ed è visto come sede del vero motore delle scelte che poi effettivamente andrà a compiere perché, attratto dalle emozioni che lo stimolano in positivo, tenderà ad agire e progettare affinché durino il più possibile o si realizzino in futuro. “Cuore” è una parola che nella Scrittura è usata circa mille volte e solo in una parte, il 20 per cento, si allude al muscolo vero e proprio; per il resto la sua applicazione è figurata ed è connessa tanto all’uomo naturale che tutti conosciamo, quello che “non comprende le cose di Dio, perché per lui sono follia, e non è capace di intenderle, perché possono essere giudicate solo per mezzo dello Spirito” (1 Corinzi 2.14), quanto a quello spirituale, tale perché Dio stesso è intervenuto personalmente a renderlo così. Sono realtà tra le quali c’è un baratro, un mondo differente per modo di vita, aspirazioni e prospettive perché nessuno sarebbe mai in grado di essere un “puro di cuore” senza un intervento di Colui che lo ha creato e accolto.

Sotto questo aspetto sono gli scritti dell’Antico Patto a illuminarci per primi, tutta la storia del popolo di Israele che, nonostante l’assistenza continua di Dio dal momento in cui lo chiamò fuori dall’Egitto fino ad arrivare alla venuta di Gesù Cristo, si sviò provando su di sé giudizi anche terribili. Precisazione obbligatoria: se il verso che abbiamo citato molte volte, “Questo popolo mi onora con le labbra, ma suo cuore è lontano da me”, è riferito al popolo eletto, questo non vuol dire che non possa applicarsi anche al cristianesimo quando questo lascia che sia l’abitudine e la ritualità a prevalere sulla coscienza, sul cuore, come recita il proverbio profano “passata la festa, gabbato il santo”; solo perché si crede, non siamo autorizzati a fare qualsiasi cosa perché “tanto siamo salvati” o “tanto Dio ci protegge”. C’è una diffusa opinione in base alla quale ciò che è scritto nell’Antico Patto siano cose passate e non ci riguardino perché viviamo nella dispensazione della grazia, ma non è così: ricordiamoci sempre che Gesù non venne per abolire la Legge, ma per adempierla e che essa è e rimane il metro per misurare il bene e il male.

Nella sua prima lettera ai Corinzi Paolo di Tarso fa una lunga esposizione invitando i cristiani di quella Chiesa a considerare l’esempio di Israele e i suoi errori pagati a caro prezzo, con queste parole: “Ciò avvenne come esempio per noi, perché non desiderassimo cose cattive, come le desiderarono loro. Non diventate idolatri come alcuni di loro, secondo quanto sta scritto: «Il popolo sedette a mangiare e a bere e poi si alzò per divertirsi». Non abbandoniamoci all’impurità come si abbandonarono alcuni di loro e in un solo giorno ne caddero ventitremila. Non mettiamo alla prova il Signore, come lo misero alla prova alcuni di loro e caddero vittime dei serpenti. Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro, e caddero vittime dello sterminatore. Tutte queste cose però accaddero a loro come esempio, e sono state scritte per nostro ammonimento, di noi per i quali è arrivata la fine dei tempi. Quindi, chi crede di stare in piedi, stia attento a non cadere” (10.5-11).

Paolo qui si guarda bene dal dichiarare che lo sviarsi per noi è impossibile; certo Gesù ha pagato per i peccati che possiamo sempre commettere nella carne, ma una cosa è camminare uniti a Lui e cadere per un incidente di percorso, altra cosa è desiderare cose cattive nel proprio intimo, cioè non porre freno a ciò che sappiamo essere male, o cadere nell’idolatria, cioè sostituire una persona o uno stile di vita diverso a quello ricevuto o rivelatoci un giorno, mettere Dio alla prova con una condotta che rientri nel comandamento “Non tentare il Signore Iddio tuo”.

Rientrando ora in tema, il cuore è un problema sia a livello di corpo, perché soggetto ad ammalarsi come tutti gli altri organi, sia a livello spirituale e di questo se ne accorsero molti, soprattutto quanto a motore delle azioni, positive o negative: ricordiamo ad esempio Davide che, conscio del proprio peccato e del fatto che da solo non avrebbe mai potuto fare nulla per mutare la propria condizione, scrisse nel Salmo 50: “Pietà di me, o Dio, nel tuo amore: nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità. Lavami tutto dalla mia colpa, dal mio peccato rendimi puro. Crea in me, o Dio, un cuore puro, rinnova in me uno spirito saldo. Non scacciarmi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito. Rendimi la gioia della tua salvezza, sostienimi con uno spirito generoso. Insegnerò ai ribelli le tue vie e i peccatori a te ritorneranno”. Ricordiamoci che quella che abbiamo letto è la preghiera di un re costituito su Israele che non si assolse, ma si prostrò riconoscendo di avere bisogno dell’intervento di Dio nella sua vita per poter sussistere.

Ancora, sono determinanti le parole di Ezechiele che sottolineano l’impossibilità fisica di un rinnovamento umano senza un preciso operare di Dio: “Vi aspergerò di acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre iniquità e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme” (Ezechiele 36.25-27). Un rinnovamento, dunque, un miracolo.

A questo punto è inevitabile chiedersi se su quell’altopiano in cui Gesù proclamò le beatitudini ci fossero dei puri di cuore. Potremmo azzardare che Nostro Signore, facendo un collegamento estensivo, si rivolgesse a degli israeliti come Natanaele, uomo in cui non c’era “alcuna frode”, ma sbaglieremmo perché la chiave di lettura corretta risiede in due parole, “puri” e “cuore”.

I farisei avevano strutturato rigidamente il concetto di purezza, esasperandolo e vedendolo come l’osservanza di una serie di precetti, per non contaminarsi, che prendevano dalla Legge trasmessa al popolo da Mosè. In questo caso Gesù fa riferimento alla purezza levitica esteriore ottenuta mediante l’abluzione rituale, che vedeva in quel caso l’uomo “puro” se applicava alcune norme di comportamento. Leggiamo in proposito Marco 7.14,15: “Chiamata di nuovo la folla, diceva loro «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro, ma sono le cose che escono dall’uomo che lo rendono impuro”. Ora, dopo queste parole, fu interrogato dai discepoli che non avevano capito. Disse loro “«Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, perché non gli entra nel cuore, ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è ciò che lo rende impuro. Dal di dentro, infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultéri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono l’uomo impuro»” (Marco 7. 18-23).

E vediamo allora che il cuore ritorna, e vediamo che Gesù elenca ciò che sono le vere impurità che contaminano la sua creatura e da dove provengono. Ecco quindi che essere “puri” legalmente è una cosa, esserlo “di cuore” è un’altra. “Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”, espressione che nel linguaggio dell’Antico Patto si riferiva ai membri della corte, quelli che vedevano la faccia del re. “Vedranno Dio” è poi un’espressione che si rifà alle parole che Lui stesso disse a Mosè che gli chiedeva di vedere il Suo volto: “L’uomo non può vedermi e vivere”.

Saranno quindi i puri di cuore a vedere Dio, cioè tutti coloro che rientreranno nella categoria descritta in 1 Corinzi 6-9,11: “Non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né depravati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né calunniatori, né rapinatori erediteranno il regno di Dio. E tali eravate alcuni di voi! Ma siete stati lavati, siete stati santificati, siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio”.

Una degna conclusione di questa beatitudine possono essere le parole di Giovanni nella sua prima lettera: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando Egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come Egli è” (3.2). Amen.

* * * * *

 

 

5.06 – LE BEATITUDINI 5: I MISERICORDIOSI (Matteo 5.3-10)

5.6 – Il sermone sul monte : le beatitudini V (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I MISERICORDIOSI

Altra beatitudine, terza per la condizione dello spirito e quinta in ordine cronologico. L’aggettivo si riferisce a chi prova un sentimento di compassione per l’infelicità altrui che spinge ad agire per alleviarla, ma anche alla pietà che muove a soccorrere, a perdonare, a desistere dal punire. Il misericordioso è colui che antepone l’altro a se stesso nel senso che partecipa alle sue sofferenze, vede le condizioni in cui versa il suo prossimo e si preoccupa di lenirle, di comprendere; in poche parole, è una persona caritatevole nel senso spirituale del termine. La misericordia, del resto, è la prima azione con la quale Iddio si caratterizzò dopo la trasgressione e il conseguente giudizio dei nostri progenitori in Eden, poiché leggiamo “Poi l’Eterno Dio fece ad Adamo e sua moglie delle tuniche di pelle, e li vestì” (Genesi 3.21): solo con quelle tuniche e non con le foglie di fico con le quali i nostri progenitori avevano cercato di coprirsi sarebbero stati in grado di affrontare la vita nuova che li attendeva al di là di quel giardino protetto da qualsiasi contaminazione. Dio non inferì, non chiuse i rapporti con la sua creatura, ma si preoccupò di fornirle un abito che potesse proteggerlo nel nuovo mondo in cui andava ad abitare. Inoltre, continuò a comunicare con loro nonostante il peccato, per quanto non come prima, come deduciamo dal fatto che dimostrava di gradivre le offerte di Abele e non quelle di Caino.

La dichiarazione della beatitudine per i mansueti era ed è però rivolta a uomini particolari che anteponevano la misericordia al sacrificio. Guardiamo brevemente le queste parole: “Seminate per voi secondo giustizia e mietete secondo misericordia; dissodatevi un campo nuovo, perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia” (…) “Preparate le parole da dire, tornate al Signore e ditegli «Togli ogni iniquità. Accetta ciò che è bene: non offerta di tori immolati, ma la lode dalle nostre labbra»” (Osea 10.12; 14.3). Tanto le parole di Osea che quelle di Gesù erano rivolte a uomini che vivevano ancora l’Antico Patto, ma vediamo espressi dei concetti molto importanti e che si raccordano tra loro: il popolo viene esortato a seminare “secondo giustizia”, cioè mettere le basi per una condotta nuova che non cercasse più la facilità dello sviare dal cammino preparato per loro e mietere “secondo misericordia”, cioè con la disposizione d’animo dell’umile che ringrazia per l’esaudimento e non quella dell’orgoglioso perché “ha fatto un buon lavoro” e raccoglie il frutto delle sue fatiche perché se lo merita. È l’orgoglio che pretende, non l’umiltà.

C’è poi l’invito a dissodarsi “un campo nuovo”, cioè se stessi, la propria anima paragonata a un campo – vedi la parabola dei terreni, da quello arido a quello che porta frutto – che va dissodato. Se un terreno va dissodato è segno che non è mai stato interessato da un uso agricolo oppure è rimasto incolto per molti anni. Dissodare un terreno è un’azione che passa attraverso varie fasi: prima va ripulito disboscandolo e decespugliandolo – attività faticosa – e poi bisogna rompere la compattezza del suolo anche in profondità per metterlo in condizione di fare attecchire le nuove coltivazioni. Questo tipo di lavoro è necessario “perché è tempo di cercare il Signore finché Egli venga e diffonda su di voi la giustizia”, cioè quella vera, quella che non si ha per natura. Il secondo verso poi, con le parole “Preparate le parole da dire” non vuole consigliare l’ipocrita costruzione di un discorso da fare, ma un esame sincero della propria coscienza, delle cose dette e non dette, fatte e non fatte, è un consiglio perché “tornate al Signore” è l’unica possibilità che gli uomini hanno per poter sussistere come persone, come esseri bisognosi di una dignità che altrimenti non potrebbe concretarsi.

La preghiera è “Togli ogni iniquità”: solo Lui lo può fare, agire, togliere. E in quell’ ”ogni” c’è tutto il nostro limite perché spesso non vediamo il nostro peccato, come quello commesso per ignoranza. Ricordiamo le parole della Legge: “Se uno pecca e, senza rendersene conto, commette qualunque cosa che l’Eterno Dio ha vietato di fare, è ugualmente colpevole e ne porta la pena” (Levitico 5.17).

Ecco allora che non gli uomini di allora, non noi, siamo quelli che ci possiamo l’autoassolvere: questo è impensabile, la colpa resta e ce la si porta dietro a meno che Dio stesso intervenga per toglierla. E “Ogni iniquità” si riferisce proprio alla Sua misericordia e onnipotenza. Infine la preghiera dell’accettare “ciò che è bene” esclude la formalità del sacrificio, ma richiede la lode delle labbra come frutto di un cuore rinnovato. Conosciamo il detto “Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lontano da me”che Gesù disse un giorno,manon si pensa che il verso che cita prosegue con“…e il timore che ha di me non è altro che un comandamento imparato dagli uomini” (Isaia 29.13): non è altro che un comandamento, quindi una tradizione, un’abitudine che va avanti per forza di inerzia, qualcosa di accettato passivamente, perché così si deve fare, ma la cui ragione non è stata assimilata. Se nei radunamenti delle varie Chiese cristiane se pensasse a questo verso, forse sorgerebbero degli interrogativi sui motivi della presenza in esse. L’abitudine porta alla disgregazione del proprio essere, in tutti i campi. Non può esserci avvicinamento dell’uomo a Dio senza una demolizione dei preconcetti e dei metodi che ne hanno contrassegnato l’esistenza.

Abbiamo citato poco fa Abele e Caino; guardiamo le parole che Dio rivolse al futuro fratricida: “Perché tu sei irritato e il tuo volto è abbattuto? Se fai bene, non sarai tu accettato? Ma se fai il male, il peccato sta spiandoti alla porta e i suoi desideri sono rivolti a te. Ma tu, devi dominarlo” (Genesi 4.6,7). Ecco, Caino era stato invitato con una semplicità e una verità disarmanti, a esaminare ciò che gli impediva di essere come Abele. Gli sarebbe bastato poco per cambiare, ma non volle.

Dissodarsi un campo nuovo, quindi, vuol dire distruggere tutto ciò che abbiamo di inutile, che non serve, che non possiamo portare con noi quando verremo chiamati attraverso la morte o quella trasformazione vista nel “batter d’occhio” di cui si parla in 1 Corinti 15.52. E in questo lavoro non saremmo mai lasciati soli.

Per dissodare un campo, nello specifico noi stessi, ci vuole tempo, bisogna capire profondamente le ragioni e la necessità di farlo, si tratta di agire nel proprio interesse perché “Il misericordioso fa bene a se stesso, ma il crudele tormenta la sua stessa carne” (Proverbi 11.17). Tutto ritorna indietro, tutto viene messo in conto di giustizia o di condanna a tal punto che “Chi ha pietà del povero presta all’Eterno, che gli contraccambierà ciò che egli ha dato” (Proverbi 19.17) ed ecco perché Gesù disse “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, lo avete fatto a me” (Matteo 25.31). Tanto nel bene quanto nel male, attenzione! La sintesi assoluta del discorso giunge poi con l’imperativo “Siate misericordiosi come misericordioso è il Padre vostro”, parole riportate in Luca 6.36 nella sua versione dello stesso sermone sul monte.

A questo punto, dopo aver dato una panoramica generale che credo possa portare a diverse riflessioni personali, scendiamo un po’ più sul concreto, sul concetto già espresso nell’introduzione alle beatitudini che rappresentano il contrario di quello che il mondo spesso ritiene, tendendo ad ammirare chi ha costruito imperi versando sangue innocente e dolore in ogni epoca. Possiamo dire che, nelle beatitudini dichiarate da Gesù ci siano gli esatti contrari di quelle sataniche e che con la frase “…perché troveranno misericordia” viene anticipato ciò che il misericordioso troverà un giorno quando si troverà di fronte a Lui. E qui si apre un mondo di possibilità e di riferimenti tanto per il Suo uditorio di allora quanto per quello di oggi: i misericordiosi la troveranno perché “Se voi perdonerete agli altri le loro colpe, il Padre vostro che è nei cieli perdonerà anche a voi; ma se non perdonerete agli altri, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe” (Matteo 6.14,15). Un perdono che non si può generalizzare, ma che può venire solo di fronte al pentimento della persona che ha offeso con parole o atti. “State attenti a voi stessi! Se un tuo fratello pecca, rimproveralo, ma se si pente, perdonagli. E se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice «Mi pento», tu gli perdonerai”  (Luca 17.3,4).

C’è un confine tra la misericordia e la debolezza esattamente come l’essere mite o mansueto: sono caratteristiche, qualità, che non possono essere a senso unico, che non possono manifestarsi, contrassegnare l’individuo “a prescindere” perché altrimenti Dio stesso, che misericordioso lo è, non potrebbe essere il Giudice perfetto, che per l’ebraico è sia l’amministrazione del giudizio obiettivo e imparziale, ma include anche il provvedere a, difendere e punire. In altri termini, la misericordia non può venire data sempre e comunque, ma richiede il pentimento perché si possa innescare.

Parole illuminanti sulla differenza tra uomini e uomini le troviamo in due episodi nei Vangeli; le prime sono riferite a quanti seguivano Gesù: “Sceso dalla barca, vide una grande folla ed ebbe compassione di loro perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise ad insegnare loro molte cose” (Marco 6.34). Erano lì, non sapevano e non avevano nulla al di fuori della loro ignoranza. Bisognosi di tutto, di sapere, di conoscere, di avere un’identità, chi li guidasse perché la pecora, senza un pastore che la guidi e se ne prenda cura, è inevitabile che vada nel pericolo. Ma erano disposti ad ascoltarlo. Per gli scribi i farisei e il popolo a lui contrario disse però “Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna? Perciò ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi: di questi, alcuni li ucciderete e crocifiggerete, altri li flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città;perché ricada su di voi tutto il sangue innocente versato sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il santuario e l’altare. In verità io vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione”.(Matteo 23.33-36).

Dio, pur volendo che tutti gli uomini siano salvati, non si rivela a tutti, ma a un tipo di persone di indole – non di merito – precisa: “Con l’uomo buono tu sei buono, con l’uomo integro tu sei integro, con l’uomo puro tu sei puro e dal perverso non ti fai ingannare” (2 Samuele 22.26,27) e “il giudizio sarà senza misericordia contro chi non avrà avuto misericordia” (Giacomo 2.13). Perché? Perché chi è privo di pietà prende posizioni opposte a quelle del Creatore che si è rivelato come misericordioso attraverso i secoli a tal punto da dare il Figlio Unigenito “affinché chiunque creda in lui non perisca, ma abbia vita eterna”.

I requisiti della quinta beatitudine si possono acquisire poi non con la pratica, cioè con lo sforzo, ma con l’acquisizione e la sperimentazione di quanto Dio ha fatto e fa con noi, con il confronto personale con Lui, chiamati come siamo a non guardare gli errori degli altri, ma i nostri prima di tutto, come rileviamo dall’insegnamento della pagliuzza e della trave nell’occhio. Chi guarda agli errori e ai peccati altrui, è persona che spesso ha paura di esaminare i propri, si rifugia spesso nell’integralismo, figlio prediletto dell’ignoranza, e tende a prendere posizioni estreme che altro non possono fare se non generare contese e risentimento. Così scrive l’apostolo Paolo agli Efesi: ““Sia rimossa da voi ogni amarezza, ira, cruccio, tumulto e maldicenza con ogni malizia. Siate invece benigni e misericordiosi gli uni verso gli altri, perdonandovi a vicenda, come anche Dio vi ha perdonato in Cristo” (4.32).

Abbiamo citato l’apostolo Paolo: l’intervento di Dio verso di lui fu a dir poco sorprendente perché era un persecutore della Chiesa ed era consenziente alla lapidazione di Stefano e quindi, se lo possiamo definire versato nella Legge (era fariseo), certo qualificarlo come misericordioso è quanto meno azzardato. Eppure fu chiamato direttamente in visione da Gesù e più volte nelle sue lettere parla del suo passato riconoscendo i propri errori. In 1 Timoteo 1.12-17 leggiamo la sua esperienza di uomo trasformato dall’amore di Cristo: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me,che prima ero un bestemmiatore, un persecutoree un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen”.

* * * * *

 

5.05 – LE BEATITUDINI 4: FAME E SETE DI GIUSTIZIA (Matteo 5.3-10)

5.5 – Il sermone sul monte : le beatitudini IV (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI QUELLI CHE HANNO FAME E SETE DELLA GIUSTIZIA

Condizione che denota l’impossibilità di sfamarsi e dissetarsi nonostante se ne avvertano i sintomi. Chi ha fame e sete cerca di soddisfare questo bisogno primario cercandolo ovunque possa, ma se permane in questa condizione vuol dire che ciò che ha eventualmente assunto ha fallito il suo scopo, non ha risolto il suo problema e cerca di sfamarsi e dissetarsi a sazieà. Questa applicazione è però più adatta alla nostra visione che a quella dell’uditorio di Gesù, che poneva il riferimento, come già avvenuto nelle sue precedenti enunciazioni, a passi che erano, o potevano essere, noti, primo fra tutti il Salmo 89.14 che recita “Giustizia e diritto formano la base del tuo trono, benignità e verità vanno davanti al tuo volto” e la conseguente supplica di Davide, conscio di essere in difetto: “Vivificami nella tua giustizia” (Salmo 112.40), parola che nella Scrittura indica la giustificazione davanti a Dio e la santità della vita vista nel perfetta conformità al Suo volere.

Credo che in questa fame e in questa sete si riassuma tutto il vissuto di quanti tra il popolo di Israele attendevano l’Unto del Signore di cui Isaia scrisse “La giustizia sarà fascia delle sue reni e la fedeltà la cintura dei suoi fianchi” (11.5) perché consci non solo si non averne, ma che neppure essa poteva trovarsi sulla terra, altro grande tema compreso in questa beatitudine. Davide scriveva “La mia anima è assetata di Dio, del Dio vivente” (Salmo 42.2), quindi non di un dio qualunque inventato o presunto: si tratta di quel Dio vivente, Unico e vero che legge nel cuore umano che chiama anche attraverso una fame e sete così particolare che non tutti provano. Essere “affamati e assetati di giustizia” significa escludere la propria, così facile e immediata, soprattutto così su misura per l’uomo naturale, sempre pronto a giudicare e condannare il proprio simile non pensando, non sapendo e spesso volutamente ignorando di compiere le stesse cose di chi condanna.

E ancora una volta qui si aprono due mondi, quello terreno e quello spirituale che proprio nell’uomo affamato e assetato di giustizia trovano il loro punto di incontro, una base, una possibilità, vista prima di tutto nel credere in Lui. Andiamo alle origini, in Genesi 15 che contiene un passo che tutti i lettori della Bibbia conoscono per essere stato citato dall’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani a proposito della giustificazione per fede. Troviamo Abamo a colloquio con Dio, in uno dei tanti avuti con Lui in cui già aveva avuto modo di illustrargli il Suo progetto anche sulla sua discendenza. “…la parola dell’Eterno fu rivolta in visione ad Abramo, dicendo: «Non temere, Abramo, io sono il tuo scudo e la tua ricompensa sarà grandissima». Ma Abramo disse «Signore, Eterno, che mi darai, perché io sono senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco? (…) Tu non mi hai dato alcuna discendenza; ora ecco, uno nato in casa mia sarà mio erede». Allora la parola dell’Eterno gli fu rivolta, dicendo «Questi non sarà tuo erede, ma colui che uscirà dalle tue viscere sarà tuo erede». Poi lo condusse fuori e gli disse «Guarda il cielo e conta le stelle, se le puoi contare» quindi aggiunse «Così sarà la tua discendenza». Ed egli credette a Dio, che glielo mise in conto di giustizia” (Genesi 15.1,6).

Ebbene, il “credere” di Abramo gli fu messo “in conto di giustizia” non solo perché aveva fatto sua la promessa fattagli in quel momento, ma soprattutto perché non dubitò nonostante gli anni che aveva, che erano 86 (Genesi 16.16), in cui avere figli è impossibile. “Credere a Dio” in questo caso è riconoscerlo come tale, tacere nel momento in cui Lui parla, non porre barriere, non rispondere con un “ma” alle Sue parole. Abramo sapeva che, come disse Gesù, “Ciò che è impossibile per gli uomini, è possibile per Dio”. Il credere di Abramo indicava una mente e un cuore a Lui rivolto indipendentemente dalla condizione di peccatore, quindi di inferiorità assoluta, in cui si trovava. Dobbiamo infatti sottolineare che il testo di Genesi nulla ci dice di quello che fece tra i suoi 86 e i 99 anni, età che aveva quando “…l’Eterno gli apparve e gli disse «Io sono il Dio onnipotente, cammina alla mia presenza e sii integro; e io stabilirò il mio patto fra me e te, e ti moltiplicherò grandemente»” (17.1,2), ben 13 anni dopo. E 13 anni di silenzio sono umanamente tanti. Abramo esteriormente era una persona come molte, eppure fu eletto, chiamato da Dio che lo scelse. Guardando alla storia di quest’uomo, vediamo che il suo nome compare alla fine dell’elenco della discendenza di Sem e poi a un certo punto Dio irrompe nella sua vita, quando aveva 75 anni, con una chiamata: “Vattene dal tuo paese, dal tuo parentado e dalla casa di tuo padre nel paese che io ti mostrerò, e io farò di te una grande nazione e ti benedirò grandemente e renderò grande il tuo nome e tu sarai una benedizione” (12.1). Abramo avrebbe potuto benissimo rimanere dov’era, rispondere “No, grazie” perché non credo non si trovasse a suo agio circondato dai parenti con cui i legami, nella realtà tribale di allora, erano molto stretti. Eppure se ne andò, lasciò il suo ambiente, ritenendo le benedizioni che gli venivano promesse migliori.

Ora, sappiamo che fu il “credere” e il conseguente agire che gli fece avere l’accreditamento in giustizia di cui abbiamo letto. Fu una scelta naturale così come altrettanto naturale, conseguente, fu il modo con cui Iddio lo considerò, cioè “giusto” nonostante i suoi errori anteriori e posteriori, che troviamo documentati in Genesi. Abramo fu una delle persone descritte in Salmo 25.9 “Buono e retto è il Signore: indica ai peccatori la via giusta, guida i mansueti secondo giustizia, insegna agli umili la sua via”, là dove i peccatori sono tutti gli uomini senza distinzione. Basta solo che questa via essi la vogliano riconoscere e seguire per rimediare alla condizione che, in quanto tali, non avrebbero mai modo di modificare. Ai peccatori indica la via giusta, la sola che li possa salvare, in alternativa alle tante che possono percorrere sospinti dalla loro natura. Chi è peccatore non sa dove andare, fa percorsi a caso in base ai propri sensi che lo dominano al momento e cambia strada nell’attimo stesso in cui questi mutano. Non compie scelte libere perché nessuna delle direzioni che prende è dominata dalla ragione, ma dal suo sentire momentaneo.

Eppure, se la destinazione finale è l’eternità, la via, la verità e la vita non possono che essere una sola. I mansueti, i docili al suo volere, vengono guidati secondo giustizia perché tutti i sentieri di Dio lo sono. E agli umili, tradotti anche “poveri” con evidente richiamo a quelli di spirito, insegna la Sua via: “insegnare” significa etimologicamente “mettere segni nella mente”, dal latino “in-signare”, cioè “mettere un segno dentro” e, da vocabolario, “In genere, colui che insegna fa sì, con le parole, con spiegazioni, o anche solo con l’esempio, che qualcun altro acquisti una o più cognizioni, un’esperienza, un’abitudine, la capacità di compiere un’operazione o apprenda modo di fare un lavoro”.

Ogni essere umano sa fare qualcosa per averlo appreso da qualcun altro, ma nessuno è in grado per natura di conoscere le cose di Dio, salvo che Lui glielo insegni, gli imprima nella mente se non altro i fondamenti di cosa voglia dire camminare secondo la Sua volontà. Il resto viene col tempo.

Ecco, credo che su questi principi si basi la fame e la sete della giustizia, che per la moltitudine che ascoltava Gesù si riferiva a un concetto preciso, così diverso da quello degli scribi e dei farisei che ritenevano di possederla già per i loro meriti di studio e abnegazione alla legge formale che si erano costruiti: “Se la vostra giustizia non supera quella degli scribi e dei farisei, voi non entrerete affatto nel regno dei cieli” (Matteo 5.20). La folla che era lì, che penso fosse composta da molti che cercavano nel Cristo la fonte della giustizia o volevano anche solo sentirlo parlare, viene così messa in condizione, nello stesso frangente, di valutare da sola cosa cercasse, domanda che fu la prima rivolta a Giovanni e Andrea: “Cosa cercate?”.

Ci vuole quindi fame e sete di giustizia per rivolgersi a Gesù, sapendo che in lui e in nessun altro la si può trovare. Abbiamo letto nel Salmo 25 che “il Signore indica ai peccatori la via giusta, guida i mansueti secondo giustizia, insegna agli umili la sua via”, azioni al presente ma che denotano continuità nel tempo perché la giustizia di cui si ha fame e sete comprende un percorso visto prima di tutto nella giustificazione davanti a Dio, poi nel condurre una vita santa nonostante la nostra imperfezione e le cadute purtroppo inevitabili. E qui è automatico inserire il verso di Paolo che dice “Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore” (Romani 5.1). Pace con Dio significa non essere più visti da Lui come ostili ed estranee per cui, altro verso molto conosciuto, “Voi non siete più stranieri né ospiti, ma concittadini dei santi, e membri della famiglia di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti, e avendo come pietra angolare lo stesso Cristo Gesù” (Efesi 2.19,20).

È questo un aspetto dell’essere saziati, che raggiungerà la sua pienezza con la cittadinanza eterna, che già abbiamo, del Regno che sarà instaurato nella nuova terra. Vediamo però il verso di Efesi: “Non siete più stranieri né ospiti”. C’è un presente, non un futuro. Poi, una condizione che è cessata, quella di essere “straniero o ospite”, termini che suggeriscono una temporaneità: lo straniero è chi non appartiene al Paese in cui vive perché a lui estraneo per cultura e origine; l’ospite poi è qualcuno con cui si condivide un periodo “da” ”a” e poi tutto torna come prima. L’ospite è colui che condivide con noi, nella nostra casa o a tavola, un tempo limitato perché destinato a scadere. “Voi non siete più” è qualcosa riferito al passato, come dire “una volta eravate stranieri e ospiti”. Una volta, adesso no. Dimenticate quello che eravate perché questo non conta più, oggi siete persone diverse.

Se hai creduto in Gesù Cristo, se Dio ti ha giustificato per fede, non sei più né uno straniero né un ospite, ma un concittadino dei Santi e un membro della famiglia di Dio, concetto sconosciuto nell’Antico Patto, ma dichiarato nel Nuovo perché Gesù è chiamato “il primogenito fra molti fratelli” (Romani 8.29): è la trasformazione operata dalla Grazia. Io che credo, tu che credi, sono e siamo fratelli di Gesù, cioè apparteniamo alla stessa famiglia e a Lui abbiamo la possibilità di rivolgerci per ogni cosa. “Concittadini dei santi”, cioè di quelli che popolano e popoleranno la “Santa città”, la Gerusalemme che ha da venire, quella nuova, e “membri della famiglia di Dio”, condizione possibile tramite il sublime, perfetto sacrificio del Figlio. Sono prospettive nuove per un peccatore che, se perdonato, ha trovato pace con Dio, cioè ha visto rimuovere la sua condizione di peccato che prima impediva un rapporto con Lui. A volte il cristiano può dimenticarsi di questa comunione che si è venuta a creare, se in essa non si nutre, se ad essa non pensa, se perde di vista la sua cittadinanza vera, se dimentica che, visto il verso che abbiamo letto, ha una carta di identità con su scritto il proprio nome e cognome che lo qualifica come individuo. Può accadere che ci si dimentichi di quanto siamo costati, la morte di quel “Figlio” che è morto e risorto per noi, di essere una persona, un individuo unico e irripetibile per il quale Cristo stesso ha dato la sua vita per salvarlo.

Il credente ha una identità e una dignità che gli altri, quelli che vivono il mondo e per il mondo, non hanno e non possono avere, è radicato su un fondamento che è quello che hanno posto gli apostoli e che ha Cristo come pietra angolare cioè quella che sostiene tutta la costruzione, il corpo, la Chiesa vera che gli apostoli hanno fondato a prezzo di sofferenze e fatiche; alcuni di loro hanno affrontato il martirio non tanto per essere di esempio, ma in quanto non potevano rinnegare quello che avevano ricevuto come elezione, mandato, salvezza, amore.

Poi c’è la promessa, “saranno saziati”: come? Questo avviene sia sulla terra, al presente, che in cielo, in futuro, per la caparra dello Spirito Santo che ci è stato dato, quello che ora attenua la fame e la sete e che in futuro sazierà pienamente. E vengono in mente le parole di Gesù alla donna samaritana: “Chiunque bene di quest’acqua avrà di nuovo sete, ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno”. Amen.

* * * * *