5.1 – Il sermone sul monte: introduzione (Luca 6.17-19; Matteo 5.3-7)
“17Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, 18che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. 19Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti.”
Con il sermone sul monte entriamo nel territorio delle profondità dell’insegnamento di Gesù alla folla e ai discepoli di cui ci cui Matteo e Luca ci hanno lasciato tracce importanti. Numerose sono le differenze tra i due racconti: il primo evangelista lo riporta in 107 versi, il secondo in 30 perché entrambi adattano i contenuti in base agli scopi che si prefiggono nello scrivere e possiamo presumere che includano nel loro scritto anche parte degli insegnamenti che il loro Maestro faceva nella sinagoga. Sappiamo che Gesù aveva appena eletto i dodici, più in alto rispetto a quel “luogo pianeggiante” in cui trovò una folla composta da discepoli e la “gran moltitudine di gente” composta ormai da giudei, e forse qualche pagano, che avevano saputo delle Sue guarigioni e dell’autorità con la quale predicava commentando i contenuti della Legge e dei profeti. Gli apostoli stessi, da lui scelti, avevano fino ad allora ricevuto una formazione rudimentale, basata soprattutto su ciò che potevano sperimentare di persona attraverso un rapporto continuo e privilegiato con Lui: gli rivolsero domande, chiarimenti, pensieri che gli evangelisti non ci hanno trasmesso. Come qualcuno ha osservato, c’era un grosso divario tra i sentimenti che provavano per Gesù e il reale fondamento dottrinale che ancora non possedevano. Era quindi necessario non solo formare i dodici e gli altri discepoli, ma chiarire a tutti coloro che andavano a lui per farsi guarire tanto dalle malattie quanto tagli spiriti immondi che, se si fossero limitati alla risoluzione di un grave problema contingente quale poteva essere la cecità, la paralisi o la possessione, non avrebbero risolto nulla per le loro anime. E a proposito della “forza che usciva da lui che guariva tutti” (v.19) abbiamo un’anticipazione dell’episodio della donna emorraissa narrata in Matteo 9.20-22: “Ed ecco, una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva infatti tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata». Gesù si voltò, la vide e disse: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata». E da quell’istante la donna fu guarita”.
Era quindi necessario che la gente sapesse. I miracoli che faceva alla presenza di tutti e che risolvevano il problema di una vita limitata, potevano trovare la loro ragione e destinazione finale con la soluzione del problema reale, la Vita vera vista nell’incontro con la Verità e la Via, l’unica, da percorrere. Ciò che Gesù faceva guarendo le infermità del corpo erano la figura di quello che avrebbe fatto guarendo l’anima. Per questo Nostro Signore apre il suo discorso, in Matteo, iniziando dalle beatitudini che analizzeremo. Ecco il testo di Matteo che inizia il suo quinto capitolo in modo più breve rispetto a Luca: “Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo”…
“3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.”.
Contando le beatitudini non ne abbiamo nove, ma otto più una e quell’una si distacca dalle altre, apre un capitolo nuovo con quel “beati voi” così diverso da “beati i”. Ci soffermeremo pertanto solo sulle prime otto, numero dalle ampie prospettive.
Leggendo ora le categorie di persone nei confronti delle quali sono indirizzate le beatitudini (versione di Matteo) e considerandole da un punto di vista esclusivamente umano, queste non hanno umanamente senso perché per “beato”, dimenticando qualsiasi riferimento cosiddetto “religioso”, si intende una persona felice, pienamente appagata e soddisfatta e, nel mondo in cui viviamo, le caratteristiche che hanno i “beati” di cui Gesù parla sono quanto di più lontano dalla condizione che il termine esprime. Il “povero di spirito” è ritenuto una persona senza qualità intellettuali. Dall’afflitto ci si allontana perché mette tristezza . Chi ha fame e sete di giustizia è un povero essere che non ha ancora capito che deve mettersi alla ricerca di chi lo possa aiutare, raccomandare, di un potente che possa intervenire a suo favore. E così via col misericordioso, da sempre scambiato per debole, col puro di cuore quotidianamente calpestato dal potere che non lo tollera come documentano i tanti processi contro di lui, primi fra tutti quelli contro le mafie.
Il Vangelo però non lo si può leggere con gli occhi del mondo in cui viviamo. Il Vangelo propone realtà agli antipodi tra loro usando la stessa terminologia ma, proprio perché opposti, non hanno nulla in comune e il loro significato è diverso. Guardiamo l’episodio: Gesù ha appena eletto i dodici e scendendo trova la folla composta da discepoli, o da chi tale avrebbe voluto diventare, o da persone provenienti da ogni dove e affette da malattie, come ci ha descritto Luca. Gesù guarisce anche “involontariamente” nel senso che bastava toccarlo perché gli inconvenienti fisici cessassero, ma poi inizia a parlare rivolgendosi a tutti quelli che, tra la folla, si sarebbero riconosciuti nelle categorie che avrebbe elencato. Il suo appello, “Beati i” delle otto beatitudini non è lo stesso della nona, o prima dopo le otto, “Beati voi” in cui si rivolge ai discepoli, ai tanti che affollavano quel luogo. Notiamo un particolare al verso 2 di Matteo 5: “Ed Egli, aperta la bocca, li ammaestrava”, che in diverse traduzioni si abbrevia erroneamente con “Cominciò a parlare”, perché “aprire la bocca” era un formula, secondo l’uso ebraico, usata per indicare l’inizio di un discorso autorevole e solenne.
Ho iniziato queste riflessioni ponendo in contrasto la diversa interpretazione che il mondo dà al termine “beato” e quella opposta che dà l’àmbito spirituale, che si ritrova anche nel termine ebraico e biblico: il testo masoretico, la versione della Bibbia in uso fra gli ebrei, usa la parola ashré e indica lo stato interiore di chi vive nell’integrità perché si lascia guidare dai comandamenti di Dio. In questa parola è racchiusa anche l’idea del movimento, dell’alzarsi, dell’essere in cammino. Nel Salmo 128.1,2 leggiamo “Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene”; la benedizione è cioè la conseguenza della beatitudine, non viceversa: in pratica, sei benedetto perché sei beato, hai scelto di temere il Signore e camminare nelle sue vie. Vie distanti, sconosciute, incomprensibili per il mondo in cui vivi. Il greco invece ha machàrios, cioè “felice, beato” con riferimento allo stato di chi è in tale condizione perché propria degli dèi, rappresentati sempre al di là di qualsiasi preoccupazione umana, quindi esenti dalla fatica, dal lavoro e dalla morte. “Makàrios” contemplava le caratteristiche di “lungo, ampio, grande” e “favore, dono, cura amorevole”, intesi come qualcosa di concesso. Nel caso di quanto dichiarato da Gesù, allora, i “Makàrioi” (plurale) sono i “felici, fortunati, favoriti perché curati con le cure di Dio”. La beatitudine, la felicità umana, terrena, era indicata con un altro termine, òlbia.
Allora l’essere “beato” è qualcosa che si ha, una caparra, un conto a giustizia, una condizione che a volte può essere sconosciuta e c’è bisogno di qualcuno che la dichiari, come nel caso di Pietro quando riconobbe in Gesù il Cristo, il Figlio dell’Iddio Vivente. Gli fu detto infatti “Tu sei beato Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te le hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16.17). Nel caso delle beatitudini, quindi, Gesù rivolge ai presenti e a tutti quelli che avrebbero letto le sue parole nei secoli a venire, un’esortazione a pensare al privilegio che hanno nel momento in cui si trovano nelle circostanze che andrà a descrivere, un invito amorevole che rivolgerà spesso ad andare oltre quelle che possono sembrare circostanze o posizioni negative perché nella realtà queste porteranno – o hanno già portato – a un risultato che andrà enormemente oltre. Più avanti, del resto, l’apostolo Paolo in Romani 8.28 scriverà che “tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno”. Penso che ogni volta che Gesù sul monte abbia pronunciato quella parola, “beati”, intendesse in subordine anche questo.
Il cristiano quindi è un costruttore beato sia dal punto di vista greco, che suggerisce l’idea di ciò che si possiede già nonostante tutto, ed ebraico, che invece implica un cammino da compiere, è figura di chi è in movimento verso una meta, un progetto che ha garanzia di riuscita come abbiamo letto nella porzione del Salmo 128; la differenza è che, se nell’Antico Testamento la benedizione era tangibile mediante la riscossione di un risultato sulla terra, nel Nuovo è vista nel premio ultraterreno, come provano i verbi usati da Nostro Signore, che sono sempre al futuro.
Sappiamo che le beatitudini sono otto – più una che incorporeremo nella seconda parte del discorso sul monte – e che costituiscono una sorta di cerchio secondo me, ma che indiscutibilmente rappresentano un perimetro all’interno del quale ne sono rinchiuse anche altre, ricorrendo nel Nuovo Testamento la parola “Makàrios” 68 volte al singolare e 50 al plurale. Gesù non poteva dire tutto, ma fornire delle basi ai suoi uditori certamente sì: parlava a discepoli, a malati guariti ed ancor più a una categoria molto particolare rappresentata da quelli che erano tormentati da spiriti impuri, la cui condizione veniva a cessare.
La malattia affligge, lo spirito impuro tormenta perché prende possesso della mente costringendo il posseduto a fare ciò che non vorrebbe, lo umilia davanti a se stesso e spesso anche agli altri quando non si manifesta in modo sommesso, nascosto come nel caso dell’indemoniato guarito nella sinagoga di Capernaum. Ecco, molti dei presenti su quel pianoro avevano avuto una liberazione e si ritenevano beati, ma la vera gioia, il vero favore di Dio, la condizione per poter iniziare e proseguire un cammino vero, quelle persone la avrebbero avuta solo identificandosi nelle categorie di apertura contenute nel discorso che Gesù stava per iniziare. Alla liberazione delle infermità poteva seguire quella vera dal regno della morte e sarebbe avvenuta attraverso la comprensione della necessità di un percorso interiore, il riconoscerlo come il Liberatore Unico e non, come la maggioranza voleva, vederlo e volerlo come un imperatore, un re terreno invincibile, uno dei tanti condottieri che avrebbero costituito territori politici a prezzo di vite umane, guerre ed oppressioni, per poi finire nel giro di poco tempo. Il Regno di cui parlerà fin dalla prima beatitudine sarebbe stato quello “dei cieli”, non relegato al un tempo che, pensando all’eternità, è poco a prescindere. Il Regno della terra, di cui Gesù non parla mai se non lasciando indizi, è stato dato a Satana che di questo mondo è il principe.
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