5.04 – LE BEATITUDINI 3: I MITI (Matteo 5.3-10)

5.4 – Il sermone sul monte : le beatitudini III (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

BEATI I MITI

Terza beatitudine cronologica, seconda riferita al futuro dopo gli afflitti, dove i “miti” sono tradotti anche con “mansueti”. Il termine è riferito a persone che hanno un carattere dolce e umano, disposto alla pazienza e all’indulgenza, che si comportano con umanità e clemenza, senza severità, durezza o aggressività. Il suo contrario è l’essere impaziente, inesorabile, intransigente, aggressivo, violento, eccessivo.

Nella Scrittura gli esempi che vengono spontanei sono due: Mosè, di cui in Numeri 12.3 è detto che “…era un uomo molto mansueto, più di qualunque altro sulla terra”, e Gesù, che dà di sé questa definizione: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò riposo. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mansueto ed umile di cuore, e darò riposo alle anime vostre” (Matteo 11.28,29). Sempre Matteo connette l’episodio in cui Gesù fece in suo ingresso in Gerusalemme seduto su un’asina allo scritto di Zaccaria 9.9 in cui si legge “Ecco, a te viene il tuo Re. Egli è giusto e vittorioso, mansueto, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina” e quando l’apostolo Paolo dovette trattare il tema dei requisiti del vescovo di una Chiesa, cioè chi ne è responsabile – non può non venire in mente l’Angelo delle sette chiese dell’Apocalisse – ebbe a dire “Ora questa parola è sicura: se uno desidera l’ufficio di vescovo, desidera un buon lavoro. Bisogna dunque che il vescovo sia irreprensibile, marito di una sola moglie, sobrio, assennato, prudente, ospitale, atto ad insegnare, non dedito al vino, non violento, non avaro, ma sia mite, non litigioso, non amante del denaro” (1 Timoteo 3.1-3).

Va detto, dai passi citati, che il mansueto, il mite, è tale per indole ma rappresenta solo una parte della personalità e se fosse presente come caratteristica esclusiva, farebbe dell’individuo una persona debole e priva di possibilità di reazione o difesa. Mosè abbiamo letto che era l’uomo più mansueto di chiunque altro, eppure uccise un egiziano che colpiva un ebreo, evidentemente perché non aveva altro modo per farlo smettere e quelle percosse ne avrebbero causato la morte (Esodo 2.11,12). Va ricordato che tra ebrei ed egiziani c’era un rapporto schiavo – padrone e da parte dei primi non c’era alcuna possibilità di reagire pena punizioni ancora più dure. Per questo, dopo averlo ucciso ed evitare conseguenze, Mosè seppellì quell’uomo nella sabbia. Gesù era mansueto ed umile, ma non si lasciava intimidire dagli Scribi e dai Farisei che lo attaccavano, e cacciò i mercanti dal Tempio anche se non a frustate come molti sostengono. Anche il Suo ingresso in Gerusalemme non avvenne a cavallo, animale possente e sempre associato alla guerra, ai re o principi potenti e gonfi d’orgoglio, ma su un asino, la cavalcatura dei profeti, animale forte, paziente, controllato, mite e socievole. La mansuetudine è pazienza nel sopportare, ma non è cessione dei diritti o vigliaccheria come purtroppo viene scambiata nel mondo che divide le persone nelle categorie di chi subisce o fa subire, ammirando spesso i secondi.

L’apostolo Paolo scrive in Efesi 4.25,26 “Perciò, messa da parte la menzogna, ciascuno dica la verità al suo prossimo, perché siamo membra gli uni degli altri. Adiratevi e non peccate perché il sole non tramonti sopra il vostro cruccio. E non date spazio al diavolo” e nello stesso sermone sul monte, nel passo tradotto “Chiunque si adira contro il suo fratello sarà sottoposto al giudizio” (Matteo 5.22), molti preferiscono ignorare quei manoscritti che specificano “senza ragione”, travisando in questo modo la vera essenza della mansuetudine che non può essere l’unica caratteristica della persona “beata”. È la prevenzione e il controllo di sé che è raccomandato, ma ciò non toglie che vi siano occasioni in cui questa possa avere luogo: “Adiratevi e non peccate”, cioè non eccedete, non comportatevi in modo tale da infierire vendicandovi perché nessun sentimento che possa portare a una condizione di ostilità nei confronti del prossimo può essere coltivato. Già nei tempi antichi era raccomandato “Non ti associare a un collerico e non praticare un uomo iracondo, per non abituarti alle sue maniere e procurarti una trappola per la tua vita” (Proverbi 22.24,25). Anche qui la traduzione, che ho scelto perché più scorrevole in italiano, non rispecchia fedelmente il testo che riporta “…e procurarti un laccio per la tua anima” cioè qualcosa di fortemente penalizzante: il laccio è qualcosa che lega, intrappola, impedisce i movimenti, tiene fermo chi ne viene intrappolato, vincola a un luogo, in questo caso dell’anima. Già la cosiddetta saggezza popolare che ha coniato l’adagio “chi va con lo zoppo impara a zoppicare” aveva capito che una persona normale potesse venire deviata dagli usi altrui e non per nulla il popolo di Israele, entrato in Canaan, non poteva stringere alleanze con gli altri popoli, anzi: “Quando il Signore Iddio tuo ti avrà introdotto nel paese che vai a prendere in possesso e ne avrà scacciate davanti a te molte nazioni,(…)sette nazioni più grandi e più potenti di te, quando il Signore tuo Dio le avrà messe in tuo potere e tu le avrai sconfitte, tu le voterai allo sterminio, non farai con esse alleanza né farai loro grazia. Non ti imparenterai con loro, non darai le tue figlie ai loro figli e non prenderai le loro figlie per i tuoi figli, perché allontanerebbero i tuoi figli dal seguire me, per farti servire a dèi stranieri e l’ira del Signore si accenderebbe contro di voi e ben presto vi distruggerebbe” (Deuteronomio 7.1-4). È un passo indubbiamente forte, riferito ad altri tempi e per un popolo per il quale la testimonianza sarebbe stata fondamentale a tal punto da giustificare uno sterminio per evitare la perdita di un popolo eletto della propria identità. Un popolo che si fa strumento del giudizio insindacabile di Dio. Soprattutto, Israele avrebbe finito per assorbire una cultura estranea che lo avrebbe corrotto, spingendolo all’adorazione di dèi non veri.

Ci sono persone che leggono questo passo e restano inorridite, c’è chi ha scritto articoli e libri sulle “atrocità della Bibbia”, ma si dimentica che il valore della vita umana risiede nella misura in cui questa si rapporta con Dio e lo cerca, non sull’adagio “ogni uomo è mio fratello”, frutto di un equivoco tra chi è uomo e pone la propria sopravvivenza fisica al centro di ogni sua azione – spesso prevaricante sugli altri – e chi è tale perché ha fondato il suo esistere sull’amore e la dipendenza da Dio. Certo la questione è molto più ampia e non credo possa essere affrontata in questa sede.

Mi piace ricordare ancora una volta le parole dell’apostolo Pietro che riconobbe in Gesù “il Figlio dell’Iddio vivente”: un Dio che vive, non immaginato e creato dall’uomo come quello dei sette popoli citati nel passo che abbiamo letto prima. Credo che questa distinzione sia estremamente importante. È molto bello vedere come Pietro, in seguito, dette prova di aver compreso la profondità delle verità dettegli dal suo Maestro, scrivendo due lettere dense di significati e dottrina alle quali sicuramente non sarebbe arrivato senza l’assistenza dello Spirito Santo.

Tornando al nostro tema, il mansueto, il mite, è la persona che più di altre può imparare da Lui, “mansueto ed umile di cuore,” là dove l’imparare è rinunciare a se stessi per provare  quel “giogo” definito “dolce” e il suo carico “leggero”: perché? Il giogo è uno strumento per attaccare i buoi usati come bestie da tiro ed è diventato sinonimo di un dominio oppressivo spesso di un re o di una popolazione su un’altra. Ebbene, Gesù riferendosi agli animali da tiro definisce il suo giogo “dolce” e il suo carico di trasporto “leggero”. Con il possessivo “mio”, poi, dichiara implicitamente che ne esiste un altro e che non ci può essere uomo che non ne sia soggetto: non può esservi giogo alternativo a quello di Gesù che non venga dall’Avversario. E con l’aggettivo “leggero” viene posto l’accento sulla sostanza delle cose, sul fine delle azioni e delle scelte che siamo chiamati a fare in nome di quell’eredità che ci è stata promessa e a cui ogni cristiano tende. Anche qui non si tratta di aderire a una religione per essere qualcuno, per avere un’identità: la vera Chiesa non è un’associazione di volontariato, un circolo più o meno privato, ma un insieme, un corpo di persone diverse per carattere e provenienza storica e sociale che ha compiuto una scelta perché ha aderito a un invito e si ritrova perché unita da un vincolo di fratellanza, salvati dall’amore di Cristo.

Avere su di sé il gioco dell’Avversario significa dipendere in tutto e per tutto dalla casualità della vita, dai propri bisogni, dalla schiavitù della terra intesa come il suolo che ci àncora ad essa senza possibilità di una vera realizzazione ed appagamento spirituale. Ecco perché il “giogo” di Cristo e il carico da portare sono leggeri. E questo ci porta ad estendere il termine di “mansueto” e “mite” perché tendiamo a dimenticare che le caratteristiche esteriori di una persona, quanto al presentarsi agli altri, hanno in realtà radici ben più profonde: il mansueto è una persona interiormente disponibile non solo agli altri, ma nei confronti di tutti quegli “input” che gli vengono dalla Scrittura, trova la sua realizzazione di fronte a quanto scopre, o gli viene rivelato, dalla Parola di Dio. Esiste connessione tra la mansuetudine e la carità che “è magnanima, benevole. Non è invidiosa. Non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede– della Parola di Dio – tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà” (1 Corinti 13. 4-9).

Ecco, credo che questi versi di Paolo siano un ottimo raccordo all’enunciazione di Gesù “Beati i mansueti”, parole dette a persone che già le conoscevano, se non tutti alcuni di loro, perché scritte da Davide nei suoi Salmi e i punti di connessione sono due: il primo in 25.9 “Egli guiderà i mansueti nella giustizia e insegnerà la sua via agli uomini” (25.9) ed il secondo in 37.10,11 “Ancora un po’ e l’empio non sarà più; sì, tu cercherai attentamente il suo posto e non ci sarà più. Ma i mansueti possederanno la terra e godranno di una grande pace”.

Ancora un po’”, è un’ espressione che indica sia un tempo generico, sia preciso, assoluto, quello che Dio ha decretato e che viene ricordato alla moltitudine dei Santi in Apocalisse 6.9-11: “Quando l’Agnello aprì il quinto sigillo, vidi un altare sotto cui stavano le anime di quelli che erano stati uccisi per la loro fedeltà alla Parola di Dio e per la loro testimonianza. Essi chiamavano il Signore a gran voce e dicevano «Fino a quando, o Sovrano vero e santo, aspetterai a giudicare gli abitanti della terra per quello che ci hanno fatto?» Quando chiederai loro conto del nostro sangue?». Ad ognuno di loro fu data una veste bianca e fu detto di aspettare ancora un po’ di tempo, finché non fosse completo il numero dei loro compagni di fede, cioè dei loro fratelli che dovevano essere messi a morte come loro”.

Questi versi testimoniano la differenza del concetto del tempo posseduto dagli uomini e quello di Dio, per cui “un giorno è come mille anni e mille anni sono come un giorno” (2 Pietro 3.8): se ci fossero stati dei “mansueti”, si sarebbero riconosciuti nella Sua promessa: avrebbero ereditato la terra, non quella corrotta del peccato, ma quella a venire. Ed è sempre Pietro a proseguire: “Il Signore non ritarda a compiere la sua promessa: alcuni pensano che sia in ritardo– perché prendevano alla lettera quell’ancora un po’ e credevano che il tempo fosse “vicino” usando i loro parametri umani -, ma non è vero. Piuttosto egli è paziente con voi, perché vuole che nessuno di voi si perda e che tutti abbiano modo di pentirsi” (v. 9).

Riassumendo abbiamo quindi:

  1. “Beati i poveri di spirito, perché di essi è il Regno dei cieli” (perché “il Regno dei cieli è vicino”, ma anche “dentro di voi”;
  2. Beati quelli che fanno cordoglio, perché saranno consolati” (prima beatitudine del primo gruppo di tre riferito alla condizione e al futuro)
  3. Beati i mansueti, perché erediteranno la terra(prima beatitudine del secondo gruppo di tre riferito allo spirito che caratterizza la persona e al futuro).

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5.03 – LE BEATITUDINI 2: QUELLI CHE SONO NEL PIANTO (Matteo 5.3-10)

5.3 – Il sermone sul monte : le beatitudini II (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati.5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

Prima di esaminare la seconda beatitudine occorre una brevissima premessa: stiamo leggendo un testo che riporta le parole di Gesù che, in quel momento, sta parlando a tre categorie di persone: coloro che erano venuti per ascoltarlo e farsi guarire, in gran parte israeliti, i discepoli, in numero ben maggiore rispetto ai dodici che conosciamo, e sicuramente qualche pagano, probabilmente rientrante in quei tanti provenienti dal “litorale di Tiro e Sidone” ebrei e pagani. Ricordiamo le parole di Luca già citate la volta scorsa: “C’era una gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e Sidone che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie” (Luca 6.17,18).

Il sermone sul monte ha quindi una doppia possibilità di lettura: una per i presenti e l’altra per tutti coloro che sarebbero venuti dopo di loro e avrebbero preso costruttivamente atto delle Sue parole, quelli di cui parlò Gesù a Tommaso e agli altri quando disse “Tu hai creduto perché hai visto; beati quelli che, pur non avendo visto, crederanno” (Giovanni 20.28).

Pensiamo a chi era su quel monte: si trovava lì dopo aver faticato, percorso molti chilometri perché bisognoso di soddisfare chi la propria sete di parole di vita, chi la propria curiosità, chi perché confidava nel fatto di venire guarito, ma avendo una base culturale diversa dalla nostra che si basava sull’ascolto della Legge e dei Profeti commentati nella sinagoga. Dichiarando la prima beatitudine ai “Poveri in spirito perché di essi è il Regno dei cieli”, Gesù fece una prima distinzione tra coloro che si ritenevano già “ricchi”, e quindi non avevano bisogno di Lui, e i “poveri”, che avrebbero ottenuto la cittadinanza in un regno a loro riservato. Certamente con quella prima frase fu compreso immediatamente, mentre noi abbiamo bisogno di riflettere di più prima di capire, stante le molte interferenze che abbiamo dal nostro tempo, con le sue consuetudini, che inevitabilmente ci condiziona.

BEATI QUELLI CHE SONO NEL PIANTO

Ecco, questa è una traduzione che, se applicata a un testo normale sarebbe accettabile, ma non lo è altrettanto in quello di Matteo perché ci indirizza immediatamente a una manifestazione specifica del dolore, diversa da persona a persona, che più propriamente altri hanno tradotto con “gli afflitti”, o “coloro che sono nell’afflizione” o “che fanno cordoglio”. Per gli israeliti l’afflizione poteva essere certamente individuale, ma c’era un forte senso collettivo come popolo che attendeva il Messia, certo con aspettative diverse da come lui si sarebbe rivelato. Eppure non tutti attendevano un re potente, ma un consolatore. Vediamo ancora il passo di Isaia 61.1-3 che abbiamo citato la volta scorsa: “Lo Spirito del Signore è sopra di me, perché il Signore mi ha consacrato con l’unzione per recare una buona novella– ecco il Vangelo – agli umili, mi ha inviato a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà agli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore, il giorno di vendetta del nostro Dio, per consolare tutti gli afflitti, per dare agli afflitti di Sion una corona invece della cenere, olio di letizia invece di abito da lutto, veste di lode invece di uno spirito mesto”.

Ecco allora la beatitudine: era arrivato il consolatore e anche qui, per accoglierlo e realizzarla, era necessario riconoscere Colui che  era stato consacrato con l’unzione per annunciare il vangelo destinato, riservato agli umili, cioè tutti coloro che avrebbero riconosciuto la propria inferiorità “naturale” espressa nelle parole del Salmo ottavo “Quando io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita; la luna e le stelle che tu hai disposte; che cos’è l’uomo, che tu ne abbia memoria? E il figlio dell’uomo, che tu ne prenda cura?”. Ricordiamo che il cielo che vedeva il salmista non era inquinato come oggi, per cui appariva in tutta la sua vastità. Vediamo, sempre nel verso di Isaia, il “fasciare le piaghe dei cuori spezzati”, di cui troviamo traccia nella parabola detta del “buon samaritano” in Luca 10. 25-37 che “Vide – l’uomo mal ridotto dai suoi assalitori, i briganti figura del peccato nelle sue multiformi oppressioni – e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite versandovi olio e vino, poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in albergo e si prese cura di lui”. “Vide” come tutti gli altri che passarono, il sacerdote e il levita, ma al contrario di loro “ne ebbe compassione”, attivandosi perché guarisse. Il Consolatore avrebbe proclamato la libertà agli schiavi, cioè a chi non era considerato nemmeno una persona, e la “scarcerazione” ai prigionieri, termine che può essere tradotto anche con “luce” perché chi era carcerato stava in grotte buie e malsane nella quale la luce non entrava mai. Ricordiamo la prima prigione menzionata dalla Bibbia in Genesi 37.23,24: “Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi lo spogliarono della sua tunica, quella tunica con maniche lunghe che egli indossava, lo afferrarono e lo gettarono nella cisterna: era una cisterna vuota, senz’acqua”.

“Gli “afflitti di Sion”, coloro che aspettavano consci della loro condizione di schiavitù e per questo portavano la cenere sul capo in segno di penitenza e dolore, avrebbero ricevuto una corona, olio di letizia al posto dell’abito da lutto, cioè una sorta di sacco composto da pelli di capra e cammello, e veste di lode al posto di uno spirito mesto. Tutto questo stava per realizzarsi: beato chi si trovava in questa condizione perché la sua consolazione era giunta.

Possiamo dire che all’umile, al mansueto, all’afflitto e al povero di spirito non interessava avere un re potente che rovesciasse una situazione politica, ma la stabilità e la libertà interiore, ricevere la “buona notizia” che solo l’Emanuele “Dio con noi” poteva dare; quei miracoli che la folla aveva visto erano solo una pallida anticipazione di quello che sarebbe venuto dopo, con il possesso di un Regno che sarebbe stato “dei cieli” e non “della terra” il cui principato è lasciato a Satana. Un altro regno per gente diversa, che sa e si trova mancante nel proprio intimo, che ha bisogno non di un dio, ma di Dio e lo aspetta pronta a riconoscerlo.

Saranno consolati” è poi un termine ampio. C’è la consolazione che si prova nel momento in cui avviene l’incontro con Dio e l’accettazione di appartenergli come figlio, e c’è quella quotidiana, continua, perché nonostante una parte del cristianesimo voglia vedere il credente come perennemente guidato dallo Spirito e quindi in una condizione di continua letizia vista nell’espressione “pace nel cuore”, in realtà è soggetto come tutti gli altri uomini al dolore fisico e morale, al quale si aggiunge quello spirituale, in particolare al conflitto tra la propria natura sempre disposta a cedere alle tentazioni che variano a seconda della propria personalità, e all’astenersene.

Va sottolineato che, se il cammino cristiano fosse semplice, non sarebbe paragonato all’opposto di quella via “larga e spaziosa” che conduce alla perdizione. Ecco perché del Consolatore abbiamo bisogno sempre! Ciascuno di noi si scontra con la propria fragilità e il constatare quanto sia esteso il divario tra ciò che siamo e ciò che vorremmo-dovremmo essere, alla luce della perfezione che ci è richiesta, può a volte essere frustrante. È una perfezione ideale vista nella frase che Gesù dirà proprio in questo discorso sul monte: “Siate dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (v.48). Un cammino verso la perfezione è l’attivazione delle nostre forze per tendere ad essa, il curare noi stessi sapendo che non siamo lasciati soli perché, appunto, c’è un Consolatore che veglia su di noi.

Ecco allora che iniziamo a delineare la figura dell’afflitto del nostro tempo, che poi è quello di tutti coloro che sono vissuti prima di noi da quando lo Spirito Santo è stato dato ai membri della Chiesa di Gerusalemme, destinati ad incontrare ostacoli spirituali di ogni tipo proprio a causa della loro natura umana: “Siate sobri, vegliate. Il vostro nemico, il diavolo, come un leone ruggente va in giro cercando chi divorare. Resistetegli saldi nella fede, sapendo che le medesime sofferenze sono imposte ai vostri fratelli sparsi per il mondo” (1 Pietro 5.8,9).

Attenzione però a vedere queste parole e a vivere il concetto dell’afflitto con fatalità filosofica, guardando a questa condizione come se fosse stabile, perché Pietro continua dicendo “E il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avrete un poco sofferto, vi ristabilirà, vi confermerà, vi rafforzerà, vi darà solide fondamenta” (v.10). È un ricordo, un’esortazione a vivere tenendo presente la prospettiva che ogni cristiano dovrebbe conoscere. E qui ci troviamo di fronte alla vera consolazione, così diversa dal conforto che un uomo può dare al proprio simile, momentaneo: quando finisce lascia la persona nella stessa condizione di prima. “Consolare” implica eliminare radicalmente il problema che causa l’afflizione, un cambiamento di stato, non ci può essere cristiano che non testimoni questa azione di Gesù Cristo nella propria vita, di questa sua opera continua nonostante i propri sbagli, il suo cammino a volte incerto.

Se Gesù si indirizza all’afflitto, significa che c’è chi non lo è, o meglio affronta il dolore in modo sbagliato escludendo Lui che desidera chinarsi per soccorrere (vedi la suocera di Pietro) e lo fa, nel caso del sermone sul monte, proprio dopo aver guarito e liberato persone da infermità e malattie sottolineando che, al ristabilimento del corpo a lungo desiderato, avrebbe fatto seguito quello dell’anima.

Ci chiediamo: di fronte a un dolore, si può solo aspettare che passi? Ci si può solo rassegnare, rinchiudere in uno stoicismo assoluto che indurisce? È una possibilità, un’alternativa che però non porta da nessuna parte perché esclude Cristo dalla nostra vita, quando questo è un mezzo per arrivare a lui o provare il suo sostegno lungo il cammino.

Ricordo le parole di un fratello a proposito di un bambino appena nato: “conoscerà il dolore e si chiederà perché”. Ecco, il perché è nella vita stessa nel senso che occorre accettarlo, non rifiutarlo come se non ci appartenesse. Va accolto, vissuto e posseduto ma, se questo lo faremo da soli, ci tormenterà senza uno scopo, non risolverà in consolazione, ma finirà eventualmente in un archivio disturbante, pronto ad emergere nei momenti più impensati; se sarà un mezzo per arrivare a Cristo, ecco che questo avrà una consolazione, l’unica possibile perché ciò che attende l’afflitto non è un incontro con un generico essere superiore che nella sua magnanimità assoluta risponderà a una preghiera, ma prima di tutto con la Parola fatta carne che, in quanto uomo, ha patito al di là del sopportabile conoscendo fatica e sofferenza in modo perfetto e totale. Ricordiamo quello che scrive l’autore della lettera agli Ebrei: “Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un Sommo Sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, egli è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (2.17,18).

Gesù Cristo è quindi “in grado” prima di tutto non perché è onnipotente, ma per essere stato “messo alla prova e avere sofferto personalmente”. Lui tutt’uno col Padre, Unico, perfetto e totale intercessore che abbiamo, benedetto in eterno. Amen.

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5.02 – LE BEATITUDINI 1. I POVERI IN SPIRITO (Matteo 5.3-10)

5.2 – Il sermone sul monte : le beatitudini 1 (Matteo 5.3-10)

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli”.

 BEATI I POVERI IN SPIRITO

Poveri in spirito” o “di spirito” sono le traduzioni dall’originale “per lo spirito” ed è opinione di alcuni che la precisazione sul tipo di povertà sia stato un inserimento nel testo greco fatta da un ignoto traduttore dall’aramaico per rendere più compiuto e distinguibile il senso delle parole di Gesù. Va detto però che orientarsi sulle origini del testo di Matteo non è facile: opinione diffusa è che sia stato scritto in aramaico e poi tradotto, basandosi sulle parole di Papia vescovo di Ierapoli nel 130 che scrisse “Matteo raccolse quindi i detti nella lingua degli ebrei, traducendoli ognuno come poteva”. In base agli studi che si intraprendono e quali testi si consultano le opinioni in proposito sono differenti anche sulla data e su chi materialmente abbia compilato il suo Vangelo. Fatto sta che Luca scrive “Beati i poveri” senza specificare altro, ma se prendessimo questa a condizione a senso unico rischieremmo di rendere l’essere poveri materialmente la sola condizione possibile per poter realizzare questa beatitudine. La precisazione che troviamo in Matteo è quindi fondamentale per la tipologia delle persone cui si riferisce.

Parlando di povertà in senso letterale, oggi è suddivisa in assoluta e relativa: la prima è riferita all’estrema difficoltà della sopravvivenza, vale a dire che la vita di chi versa in tale condizione è tale da metterlo in pericolo: non ha da mangiare, non è in grado di provvedere al proprio vestiario, non ha un alloggio, non ha dove lavarsi. Questo stato esclude il poter fruire di beni e/o servizi essenziali per la sopravvivenza. La povertà relativa è invece un parametro che esprime le difficoltà economiche nelle fruizione di beni e servizi in rapporto al livello economico medio di vita dell’ambiente o della nazione.

Soffermiamoci brevemente su questa condizione: chi è povero, assoluto o relativo, sa di esserlo, conosce le difficoltà che incontra e molto spesso ne è angosciato, soprattutto se si ritrova così dopo non aver conosciuto questo tipo di preoccupazioni, quindi aveva una vita tranquilla, normale o agiata e il caso dei molti imprenditori che si sono suicidati in Italia lo conferma. La mancanza di denaro per soddisfare le esigenze elementari o a che fanno da contorno all’esistenza è vissuta da molti come un fallimento e un’umiliazione anche di fronte a se stessi.

La condizione di povertà spirituale, invece, è molto più subdola da ammettere perché si riferisce all’interiorità dell’essere umano. C’è un senso di vuoto, connesso alla “carne” che si cerca di riempire in tutti i modi andando a sopperire i deficit interni e la religione, intesa come pratica che lo riempia, può aiutare a tal punto da essere definita come “l’oppio dei popoli”. Così accade che, praticandola anche nel cristianesimo, l’uomo si senta appagato e perciò si ritenga ricco esattamente come l’angelo (e i componenti) della Chiesa di Laodicea che dice “Io sono ricco, mi sono arricchito e non ho bisogno di nulla” (Apocalisse 3.17).

Il povero materiale è distinguibile e soprattutto sa di esserlo ma il povero in spirito, se non è onesto con se stesso, può mascherarsi, è disposto inconsapevolmente a tutto pur di sentirsi ricco davanti a sé e poi pur di apparirlo di fronte agli altri. Chi è “ricco in spirito” lo è perché così si è voluto definire, ha cercato quest’autodeterminazione e gli esempi nella scrittura sono tanti, primo fra tutti quel fariseo che pregava nel Tempio, ringraziando Dio di non essere come gli altri uomini perché digiunava due volte alla settimana e pagava le decime su quanto possedeva. Il cosiddetto “ricco in spirito” non ha bisogno di nulla, basta a se stesso, è convinto di essere sano e da qui le parole di Nostro Signore “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati”. Il fariseo che abbiamo citato pregava in piedi, il pubblicano stava “a distanza”, in solitudine, è scritto che “non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo”, cioè verso quel luogo da lui incommensurabilmente così distante.

Ecco, qui abbiamo in modo perfettamente reale due atteggiamenti: uno è “ricco”, l’altro è “povero”. Uno ha rimediato coi suoi mezzi alla propria povertà, diventandolo così ancora di più, l’altro ne è conscio e sa di avere nella preghiera di perdono l’unico rimedio a disposizione: “O Dio, sii placato verso di me, peccatore”. Ecco allora che solo chi sa di essere povero di spirito, cioè di non avere mezzi per la sua sopravvivenza spirituale, è beato: dipende da Dio in tutto e per tutto, ammette di avere dentro di sé quella fame che non può soddisfarsi in altro modo se non accettandoLo accogliendoLo dentro di lui.

Il sapere nel profondo di essere dei “Poveri in spirito”, cioè il riconoscersi tali perché si sa o si è sperimentato che le alternative e gli atteggiamenti che la vita può offrire non sono sufficienti né possono garantire stabilità, è il primo passo per il “Regno dei cieli” perché questi poveri lo cercheranno e lo troveranno. Al “ricco in spirito” interessa star bene godendo delle cose effimere che ha a disposizione, al “povero” non interessa la sopravvivenza apparente, qualcosa di generico in cui credere, una ricchezza secondo il mondo o una stabilità incerta, ma sarà attento a come porre rimedio alla sua condizione: non cercherà la compagnia delle persone per sentirsi meno solo, non aderirà a correnti politiche o filosofiche perché dovrà dimostrare a se stesso e agli altri di avere bisogno di qualcosa o di qualcuno a cui credere. Se mai, questi saranno dei passaggi per sperimentare, ma non trovando ciò che realmente cerca, finirà per arrivare a Gesù Cristo perché la sua povertà cessi definitivamente.

Il vero cristiano quindi porta in sé questo dualismo, quello della povertà assoluta quando porta avanti sé stesso, quello della ricchezza quando vive in compagnia di Dio, amandolo. Una ricchezza che non possiede. La parabola dell’uomo ricco di Luca 12.16,21 ci presenta un possidente che aveva avuto un raccolto ottimale dalla sua campagna e progettava una vita esente da preoccupazioni, ma si sentì dire “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?” Notiamo il commento di Gesù: “Così è di chi accumula tesori per sé, e non arricchisce davanti a Dio”.

C’è quindi un cammino da fare, e il riconoscersi poveri nel profondo è la condizione indispensabile per arricchire dentro, come abbiamo letto, “davanti – o “in” a seconda della traduzione – a Dio”; sono due mondi diversi, opposti, per la vita che conta, quella eterna. Chi crede, nel vero senso della parola, non lo fa perché ha bisogno di una religione, ma per diventare e conoscere cose che sa essere irraggiungibile senza una grazia, una rivelazione. Cercherà le promesse per lui e sperimenterà su di sé la loro realizzazione, altrimenti la propria vita non avrebbe scopo. Ricordiamo le parole di Pietro “Signore, a chi ce ne andremmo noi? Tu solo hai parole di vita eterna”: quest’uomo aveva sperimentato la quotidianità della vita, aveva un lavoro, una moglie. Aveva ascoltato da chissà quanto tempo i rabbini nelle sinagoghe e poi Giovanni Battista che preparava il popolo alla venuta di Gesù, ma nessuna di queste cose lo aveva mai arricchito, placato la sua sete interiore, quella di spirito. Pietro sapeva che le uniche parole da ascoltare, per la prospettiva futura che gli venivano garantite, erano quelle di Colui che un giorno lo aveva chiamato con gli altri discepoli e poi lo aveva reso apostolo.

La beatitudine dei poveri in spirito è quindi la descrizione di una condizione base per essere accolti dal Padre ed equivale al senso di sete spirituale che alcuni avvertivano quando Gesù, alzandosi in piedi, gridò “Se qualcuno ha sete, venga a me e beva” (Giovanni 7.37). Non era venuto per vendere qualcosa, ma per dare gratuitamente e invitò gli apostoli a fare altrettanto con il suo “Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date”. Tutta la Scrittura, Antico e Nuovo patto, sono piene di passi che attestano sia l’attenzione che Dio dà ai poveri, anche quelli materiali, tenuti a cercarlo secondo Isaia 55,6,7 “mentre si trova”, a invocarlo “mentre è vicino”. Ricordiamo l’invito “venite e comprate senza denari e senza prezzo” perché la Grazia non può essere comprata avendo un valore inestimabile.

E possiamo citare anche parole di Isaia 1.18 “Su, venite e discutiamo insieme, dice il Signore. Anche se i vostri peccati fossero come lo scarlatto, diventeranno bianchi più che neve”. In questo passo rileviamo che è Dio a invitare l’uomo addirittura ponendosi sul loro stesso piano, non certo quello del peccato, ma dello Spirito che è nell’uomo, quel “soffio vitale” che inalò nelle narici di Adamo. Qui c’è un incontro tra il Santo e la creatura che certo così non è, anzi è invitata nel verso 16 a lavarsi, purificarsi, ad allontanare dai Suoi occhi il male delle loro azioni. Dio invita l’uomo a discutere assieme dando la Sua piena disponibilità al perdono con un intervento che nessun essere terreno sarebbe stato mai in grado di compiere, smacchiare lo scarlatto, cioè un rosso intenso e brillante, a tal punto da farlo diventare più bianco della neve. È l’impossibile che appartiene al Padre, alla trinità, a quel plurale che un giorno disse “Facciamo l’uomo”.

Dio, soprattutto nel tempo in cui la Grazia è aperta non convoca imperiosamente, ma invita a discutere con lui. Dichiara la propria benevolenza, ma non costringe a subirla. E, riferendoci a questi versi, non tutti cessarono di fare il male e non tutti andarono a Lui, consapevoli del valore di quell’invito, a discutere assieme. Oggi il verbo “discutere” è usato per indicare una lite, uno scontro acceso in cui ogni parte difende strenuamente le proprie posizioni, ma ciò solo perché si è perso il senso reale del termine che, al contrario, implica il trattare, esaminare un tema confrontando opinioni diverse, dialogare alla ricerca di una soluzione.

Beati i poveri in spirito” è allora un annuncio importante, una dichiarazione in base alla quale chi appartiene alla categoria dei poveri non è lasciato solo, ma può entrare a far parte di un piano che va oltre le sue aspettative. Infatti, “di loro è il Regno dei cieli”. “Di loro” e di nessun altro. Ecco perché questa beatitudine è al primo posto: esprime quello che potremmo definire un requisito base, quello di chi non ha nulla mentre gli altri pensano di avere chi molto, chi tutto. Il ricco sta bene in questo mondo a prescindere da quale sia la ricchezza su cui fonda la propria vita, il povero certamente soffre e non sa come porvi rimedio, è costantemente in bilico tra la realtà che vorrebbe cambiare e i mezzi che non ha. Ed è beato perché si trova nella sola condizione che gli può consentire l’accettazione di Cristo come proprio Salvatore e fornitore di quella cittadinanza eterna che il ricco certamente non può avere.

Le beatitudini che seguono (gli afflitti, i miti, quelli che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di giustizia e i perseguitati per – e non “da” – essa), sono tutte riferite alla conseguenza della povertà di spirito proprio alla luce di quanto abbiamo detto all’inizio: chi in questo mondo si trova a proprio agio, parla già di sé disprezzando chi appartiene a categorie diverse dalla sua perché già umanamente beato, possedendo non la “makaria”, ma l’”òlbia”, come abbiamo visto nel capitolo precedente.

Nostro Signore sappiamo che aveva da poco guarito tutti quelli che gli si erano presentati a lui: quei miracoli erano per tutti e per tutti erano quelle parole di vita perché non potevano esservi dei sordi tra loro – se c’erano, questo era prima di incontrarlo -, ma nel momento in cui iniziò a parlare disse “Beati i”, cioè “quanti tra voi si riconoscono nella mia descrizione”. Il resto del Vangelo, la “buona notizia” rivelata agli uomini, è proprio la ricchezza in Dio che il povero in spirito trova e che arriverà al culmine con il possesso di quel “Regno dei cieli”, o “Regno di Dio” concepito fin dalla creazione dell’universo. Possiamo concludere con le parole dell’apostolo Paolo in Efesi 1.3 “Benedetto sia Dio, Padre del Signor nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti di ogni benedizione spirituale nei luoghi celesti in Cristo”.

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5.01 – IL SERMONE SUL MONTE: INTRODUZIONE (Luca 6.17-19; Matteo 5.3-7;)

5.1 – Il sermone sul monte: introduzione (Luca 6.17-19; Matteo 5.3-7)

 17Disceso con loro, si fermò in un luogo pianeggiante. C’era gran folla di suoi discepoli e gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidone, 18che erano venuti per ascoltarlo ed essere guariti dalle loro malattie; anche quelli che erano tormentati da spiriti impuri venivano guariti. 19Tutta la folla cercava di toccarlo, perché da lui usciva una forza che guariva tutti.

Con il sermone sul monte entriamo nel territorio delle profondità dell’insegnamento di Gesù alla folla e ai discepoli di cui ci cui Matteo e Luca ci hanno lasciato tracce importanti. Numerose sono le differenze tra i due racconti: il primo evangelista lo riporta in 107 versi, il secondo in 30 perché entrambi adattano i contenuti in base agli scopi che si prefiggono nello scrivere e possiamo presumere che includano nel loro scritto anche parte degli insegnamenti che il loro Maestro faceva nella sinagoga. Sappiamo che Gesù aveva appena eletto i dodici, più in alto rispetto a quel “luogo pianeggiante” in cui trovò una folla composta da discepoli e la “gran moltitudine di gente” composta ormai da giudei, e forse qualche pagano, che avevano saputo delle Sue guarigioni e dell’autorità con la quale predicava commentando i contenuti della Legge e dei profeti. Gli apostoli stessi, da lui scelti, avevano fino ad allora ricevuto una formazione rudimentale, basata soprattutto su ciò che potevano sperimentare di persona attraverso un rapporto continuo e privilegiato con Lui: gli rivolsero domande, chiarimenti, pensieri che gli evangelisti non ci hanno trasmesso. Come qualcuno ha osservato, c’era un grosso divario tra i sentimenti che provavano per Gesù e il reale fondamento dottrinale che ancora non possedevano. Era quindi necessario non solo formare i dodici e gli altri discepoli, ma chiarire a tutti coloro che andavano a lui per farsi guarire tanto dalle malattie quanto tagli spiriti immondi che, se si fossero limitati alla risoluzione di un grave problema contingente quale poteva essere la cecità, la paralisi o la possessione, non avrebbero risolto nulla per le loro anime. E a proposito della “forza che usciva da lui che guariva tutti” (v.19) abbiamo un’anticipazione dell’episodio della donna emorraissa narrata in Matteo 9.20-22: “Ed ecco, una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni, gli si avvicinò alle spalle e toccò il lembo del suo mantello. Diceva infatti tra sé: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò salvata». Gesù si voltò, la vide e disse: «Coraggio, figlia, la tua fede ti ha salvata». E da quell’istante la donna fu guarita”.

Era quindi necessario che la gente sapesse. I miracoli che faceva alla presenza di tutti e che risolvevano il problema di una vita limitata, potevano trovare la loro ragione e destinazione finale con la soluzione del problema reale, la Vita vera vista nell’incontro con la Verità e la Via, l’unica, da percorrere. Ciò che Gesù faceva guarendo le infermità del corpo erano la figura di quello che avrebbe fatto guarendo l’anima. Per questo Nostro Signore apre il suo discorso, in Matteo, iniziando dalle beatitudini che analizzeremo. Ecco il testo di Matteo che inizia il suo quinto capitolo in modo più breve rispetto a Luca: “Vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo”…

3«Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. 4Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati. 5Beati i miti, perché avranno in eredità la terra. 6Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. 7Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. 8Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. 9Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. 10Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. 11Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. 12Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.”.

Contando le beatitudini non ne abbiamo nove, ma otto più una e quell’una si distacca dalle altre, apre un capitolo nuovo con quel “beati voi” così diverso da “beati i”. Ci soffermeremo pertanto solo sulle prime otto, numero dalle ampie prospettive.

Leggendo ora le categorie di persone nei confronti delle quali sono indirizzate le beatitudini (versione di Matteo) e considerandole da un punto di vista esclusivamente umano, queste non hanno umanamente senso perché per “beato”, dimenticando qualsiasi riferimento cosiddetto “religioso”, si intende una persona felice, pienamente appagata e soddisfatta e, nel mondo in cui viviamo, le caratteristiche che hanno i “beati” di cui Gesù parla sono quanto di più lontano dalla condizione che il termine esprime. Il “povero di spirito” è ritenuto una persona senza qualità intellettuali. Dall’afflitto ci si allontana perché mette tristezza . Chi ha fame e sete di giustizia è un povero essere che non ha ancora capito che deve mettersi alla ricerca di chi lo possa aiutare, raccomandare, di un potente che possa intervenire a suo favore. E così via col misericordioso, da sempre scambiato per debole, col puro di cuore quotidianamente calpestato dal potere che non lo tollera come documentano i tanti processi contro di lui, primi fra tutti quelli contro le mafie.

Il Vangelo però non lo si può leggere con gli occhi del mondo in cui viviamo. Il Vangelo propone realtà agli antipodi tra loro usando la stessa terminologia ma, proprio perché opposti, non hanno nulla in comune e il loro significato è diverso. Guardiamo l’episodio: Gesù ha appena eletto i dodici e scendendo trova la folla composta da discepoli, o da chi tale avrebbe voluto diventare, o da persone provenienti da ogni dove e affette da malattie, come ci ha descritto Luca. Gesù guarisce anche “involontariamente” nel senso che bastava toccarlo perché gli inconvenienti fisici cessassero, ma poi inizia a parlare rivolgendosi a tutti quelli che, tra la folla, si sarebbero riconosciuti nelle categorie che avrebbe elencato. Il suo appello, “Beati i” delle otto beatitudini non è lo stesso della nona, o prima dopo le otto, “Beati voi” in cui si rivolge ai discepoli, ai tanti che affollavano quel luogo. Notiamo un particolare al verso 2 di Matteo 5: “Ed Egli, aperta la bocca, li ammaestrava”, che in diverse traduzioni si abbrevia erroneamente con “Cominciò a parlare”, perché “aprire la bocca” era un formula, secondo l’uso ebraico, usata per indicare l’inizio di un discorso autorevole e solenne.

Ho iniziato queste riflessioni ponendo in contrasto la diversa interpretazione che il mondo dà al termine “beato” e quella opposta che dà l’àmbito spirituale, che si ritrova anche nel termine ebraico e biblico: il testo masoretico, la versione della Bibbia in uso fra gli ebrei, usa la parola ashré e indica lo stato interiore di chi vive nell’integrità perché si lascia guidare dai comandamenti di Dio. In questa parola è racchiusa anche l’idea del movimento, dell’alzarsi, dell’essere in cammino. Nel Salmo 128.1,2 leggiamo “Beato chi teme il Signore e cammina nelle sue vie. Della fatica delle tue mani ti nutrirai, sarai felice e avrai ogni bene”; la benedizione è cioè la conseguenza della beatitudine, non viceversa: in pratica, sei benedetto perché sei beato, hai scelto di temere il Signore e camminare nelle sue vie. Vie distanti, sconosciute, incomprensibili per il mondo in cui vivi. Il greco invece ha machàrios, cioè “felice, beato” con riferimento allo stato di chi è in tale condizione perché propria degli dèi, rappresentati sempre al di là di qualsiasi preoccupazione umana, quindi esenti dalla fatica, dal lavoro e dalla morte. “Makàrios” contemplava le caratteristiche di “lungo, ampio, grande” e “favore, dono, cura amorevole”, intesi come qualcosa di concesso. Nel caso di quanto dichiarato da Gesù, allora, i “Makàrioi” (plurale) sono i “felici, fortunati, favoriti perché curati con le cure di Dio”. La beatitudine, la felicità umana, terrena, era indicata con un altro termine, òlbia.

Allora l’essere “beato” è qualcosa che si ha, una caparra, un conto a giustizia, una condizione che a volte può essere sconosciuta e c’è bisogno di qualcuno che la dichiari, come nel caso di Pietro quando riconobbe in Gesù il Cristo, il Figlio dell’Iddio Vivente. Gli fu detto infatti “Tu sei beato Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te le hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16.17). Nel caso delle beatitudini, quindi, Gesù rivolge ai presenti e a tutti quelli che avrebbero letto le sue parole nei secoli a venire, un’esortazione a pensare al privilegio che hanno nel momento in cui si trovano nelle circostanze che andrà a descrivere, un invito amorevole che rivolgerà spesso ad andare oltre quelle che possono sembrare circostanze o posizioni negative perché nella realtà queste porteranno – o hanno già portato – a un risultato che andrà enormemente oltre. Più avanti, del resto, l’apostolo Paolo in Romani 8.28 scriverà che “tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno”. Penso che ogni volta che Gesù sul monte abbia pronunciato quella parola, “beati”, intendesse in subordine anche questo.

Il cristiano quindi è un costruttore beato sia dal punto di vista greco, che suggerisce l’idea di ciò che si possiede già nonostante tutto, ed ebraico, che invece implica un cammino da compiere, è figura di chi è in movimento verso una meta, un progetto che ha garanzia di riuscita come abbiamo letto nella porzione del Salmo 128; la differenza è che, se nell’Antico Testamento la benedizione era tangibile mediante la riscossione di un risultato sulla terra, nel Nuovo è vista nel premio ultraterreno, come provano i verbi usati da Nostro Signore, che sono sempre al futuro.

Sappiamo che le beatitudini sono otto – più una che incorporeremo nella seconda parte del discorso sul monte – e che costituiscono una sorta di cerchio secondo me, ma che indiscutibilmente rappresentano un perimetro all’interno del quale ne sono rinchiuse anche altre, ricorrendo nel Nuovo Testamento la parola “Makàrios” 68 volte al singolare e 50 al plurale. Gesù non poteva dire tutto, ma fornire delle basi ai suoi uditori certamente sì: parlava a discepoli, a malati guariti ed ancor più a una categoria molto particolare rappresentata da quelli che erano tormentati da spiriti impuri, la cui condizione veniva a cessare.

La malattia affligge, lo spirito impuro tormenta perché prende possesso della mente costringendo il posseduto a fare ciò che non vorrebbe, lo umilia davanti a se stesso e spesso anche agli altri quando non si manifesta in modo sommesso, nascosto come nel caso dell’indemoniato guarito nella sinagoga di Capernaum. Ecco, molti dei presenti su quel pianoro avevano avuto una liberazione e si ritenevano beati, ma la vera gioia, il vero favore di Dio, la condizione per poter iniziare e proseguire un cammino vero, quelle persone la avrebbero avuta solo identificandosi nelle categorie di apertura contenute nel discorso che Gesù stava per iniziare. Alla liberazione delle infermità poteva seguire quella vera dal regno della morte e sarebbe avvenuta attraverso la comprensione della necessità di un percorso interiore, il riconoscerlo come il Liberatore Unico e  non, come la maggioranza voleva, vederlo e volerlo come un imperatore, un re terreno invincibile, uno dei tanti condottieri che avrebbero costituito territori politici a prezzo di vite umane, guerre ed oppressioni, per poi finire nel giro di poco tempo. Il Regno di cui parlerà fin dalla prima beatitudine sarebbe stato quello “dei cieli”, non relegato al un tempo che, pensando all’eternità, è poco a prescindere. Il Regno della terra, di cui Gesù non parla mai se non lasciando indizi, è stato dato a Satana che di questo mondo è il principe.

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4.05 – APOSTOLI 5 (Luca 6.12-16)

4.5 – Apostoli V (Luca 6.12-16)

 12In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. 13Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede anche il nome di apostoli: 14Simone, al quale diede anche il nome di Pietro; Andrea, suo fratello; Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, 15Matteo, Tommaso; Giacomo, figlio di Alfeo; Simone, detto Zelota; 16Giuda, figlio di Giacomo; e Giuda Iscariota, che divenne il traditore.”

GIUDA DI GIACOMO

È chiamato anche Taddeo nell’elenco di Matteo e Marco e in alcuni manoscritti Lebbeo, parole che significano entrambe “Diletto, coraggioso”, che si è pensato essere dei soprannomi stanti a indicarne il carattere. A puro titolo di citazione, secondo Eusebio di Cesarea questo apostolo fu lo sposo innominato delle nozze di Cana, ma non abbiamo dati a suffragio di quest’ipotesi. È citato da Giovanni, che spesso dà dei ritratti veloci ma molto indicativi dei dodici, in 14.15-22, nell’occasione in cui Gesù promise il Consolatore facendo un distinguo tra gli uomini: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti ed io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore, che rimanga con voi per sempre, lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce; ma voi lo conoscerete, perché dimora con voi e sarà in voi.(…) Chi ha i miei comandamenti e li osserva, è uno che mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e io lo amerò e mi manifesterò a lui. Giuda, non l’Iscariotha, gli disse «Signore, come mai ti manifesterai a noi e non al mondo?». Gesù rispose e gli disse «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio l’amerà, e noi verremo a lui e faremo dimora presso di lui»”.

La domanda di Giuda di Giacomo lo qualifica allora come uditore attento alle parole del Maestro, non uno che ricorda soltanto l’ultima frase e se ne accontenta. È ritenuto da alcuni l’autore dell’omonima epistola, presentandosi come “Giuda, servo di Gesù Cristo e fratello di Giacomo”, quel Giacomo detto “fratello del Signore” che è annoverato tra le colonne della Chiesa di Gerusalemme, ma altri negano questa possibilità, in particolare la critica moderna.

GIUDA ISCARIOTHA

Il secondo nome, Iscariotha, ha un doppio significato perché se l’ebraico potrebbe qualificare la sua provenienza, “Uomo di Kerioth” città del Sud della Giudea, il significato dall’aramaico è “il mentitore, l’ipocrita”. Dei dodici è sicuramente il personaggio più complesso e credo che una buona analisi su di lui debba attenersi il più possibile ai dati che abbiamo. Non sappiamo nulla riguardo al tempo intercorso tra il primo incontro con Gesù e la sua elezione ad apostolo; di certo c’è solo che fu eletto al pari di tutti gli altri, dopo un certo tempo vissuto con loro. Incontriamo Giuda per la prima volta in Giovanni 6 nell’episodio che abbiamo già ricordato quando, insegnando nella sinagoga di Capernaum, Gesù fece il suo discorso sul mangiare la sua carne e bere il suo sangue. Sappiamo che molti discepoli furono scandalizzati da questo discorso e si allontanarono da lui. Ora è scritto che disse “Tra voi vi sono alcuni che non credono” e, subito dopo, “Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che credevano in lui e chi era colui che lo avrebbe tradito” (v.64). La prima differenza quindi è tra chi crede e chi no. Due mondi diversi nonostante il cielo sotto cui si vive sia lo stesso, ci si incontri per strada, si frequenti la stessa gente. Il fatto che Gesù sappia chi crede in lui, che legga nel cuore della persona, è garanzia della sua attenzione e protezione, ma allo stesso modo il contrario esiste per chi non crede per scelta, vale a dire trova alternative al Suo messaggio e le ritiene migliori. Molto spesso il non credere è una scelta che si fa per continuare a vivere ignorando il messaggio di Cristo, per fare i propri comodi, per non adeguarsi a Lui perché una vita senza gli obiettivi che hanno tutti e che tutti si tramandano da secoli, spaventa.

Secondo dato che i versi di Giovanni ci comunicano è che Gesù sapeva chi lo avrebbe tradito. Lo sapeva da sempre, prima ancora di chiamare l’Iscariotha nel numero dei 12 e possiamo dire che non lo avrebbe mai ammesso al gruppo degli apostoli se non avesse avuto il ruolo di consegnarlo di notte al sinedrio ebraico. Giuda Iscariotha non fu usato per compiere il tradimento, ma piuttosto partecipò alla vita comunitaria dei dodici, ascoltò gli insegnamenti di Gesù, vide molto più di noi che abbiamo solo un libro su cui basarci, ma non credette mai, neppure di fronte ai miracoli. Se avesse avuto anche un solo dubbio, se avesse posto in discussione il suo essere anche in una minima parte, avrebbe avuto il Maestro per un confronto.

Il fatto è che Giuda aveva un’altra caratteristica negativa; sempre nello stesso capitolo, alle parole di Pietro che riconosceva che Gesù era il solo ad avere parole di vita eterna, gli fu risposto: “«Non sono forse io che ho scelto voi, i dodici? Eppure uno di voi è un diavolo». Parlava di Giuda, figlio di Simone Iscariotha: costui infatti stava per tradirlo, ed era uno dei dodici” (v.70,71). Occorre prestare molta attenzione al termine “diavolo”, al quale associamo una figura repellente e macabra che ci è stata tramandata dalla superstizione o da dipinti di artisti più o meno grandi: il termine greco “diàbolos” è colui che divide, accusa, calunnia ed è quindi avverso, contrario, ostile. In altre parole, un nemico. Così “diabolico” è ciò che allontana da Dio e non necessariamente ciò che è perverso, malvagio, assolutamente riconoscibile come opposto al bene. E “diavolo” come persona concreta, nel senso etimologico, Giuda lo fu sempre, come possiamo dedurre dal terzo episodio in cui è citato da Giovanni in cui commenta in modo sprezzante quanto avvene alla cena di Betania: lì Maria, sorella di Lazzaro e Marta, aveva cosparso i piedi di Gesù con una libbra (300 grammi), di nardo puro, del valore di 300 denari, quasi la paga di un anno di un operaio che veniva pagato un denaro al giorno. Al verso 4 leggiamo “Allora Giuda Iscariotha, uno dei suoi discepoli che doveva poi tradirlo, disse «Perché quest’olio profumato non lo si è venduto per 300 denari per poi darlo ai poveri?». Disse questo non perché gli importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro”. (vv.5.6).

Ora dire “era ladro” è diverso che, come alcuni traducono, “era un ladro”, perché la prima definizione indica uno stato d’animo, un atteggiamento, un’attitudine, mentre il secondo può riferirsi anche a qualcosa di occasionale e compiuto per necessità, come leggiamo in Proverbi 6.30 “Non si disprezza il ladro che ruba per soddisfare l’appetito quando ha fame; ma se viene colto in fallo, dovrà restituire sette volte, e dare tutti i beni della sua casa”. Giuda era quindi ladro dentro, privo di rispetto qualsiasi per la cosa altrui, pensava esclusivamente al suo vantaggio incurante della buona fede degli altri undici che lo ritenevano uno di loro, come disse Pietro con quel famoso “Signore, a chi ce ne andremo noi?”. Pensiamo al valore dato al denaro da personaggi che conosciamo: Maria aveva dato per ungere i piedi di Gesù 300 denari – ricordiamo che Filippo disse a Gesù che ce ne sarebbero voluti 200 per sfamare le persone al miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci -, e Nicodemo ne portò 100 libre, quindi 3.000, per l’imbalsamazione del corpo del crocifisso.

Giuda era insensibile a qualsiasi amore che non fosse per se stesso e rubava per il gusto del furto, non certo per arricchirsi, come Anania e Saffira in Atti 5.1-11 che avevano trattenuto per loro una parte del ricavato di un podere che avevano venduto, e arrivò a tradire Gesù per 30 sicli, il prezzo di uno schiavo. Tanto aveva stimato valere il proprio Maestro ed ecco perché Giuda fu un oppositore costante, un “diavolo”, un terreno impermeabile alla parola di Vita, ma permeabile a quella di morte perché in 13.2 Giovanni scrive “Mentre cenavano, il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda Iscariotha, figlio di Simone, di tradirlo.” Qui è l’opera dell’avversario che agisce non certo nei confronti di un innocente, ma di chi da sempre gli aveva dato sempre più spazio, come fosse un veicolo senza freni su una strada in discesa.

Sappiamo che Giuda il tradimento lo aveva già preparato: era già andato dai capi dei sacerdoti per fare arrestare Gesù (Marco 14.10), aveva già ricevuto il prezzo pattuito e “Da quell’ora cercava l’opportunità di tradirlo” (Matteo 26.15,16), ma l’accettazione piena e incondizionata del suo compito la accettò definitivamente nel prendere il “boccone intinto”: “E quel discepolo– Giovanni – chinatosi sul petto di Gesù, gli disse «Signore, chi è?». Gesù rispose «È colui al quale io darò il boccone, dopo averlo intinto» e, intinto il boccone lo diede a Giuda Iscariotha, figlio di Simone. Ora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui” (Giovanni 13.25-27). Giuda, prendendo quanto Gesù gli porgeva, è come se avesse posto la propria firma a un terribile contratto stipulato con l’Avversario, gli diede il suo benestare anche se non possiamo escludere abbia pensato che, con tutti i miracoli che aveva fatto il suo Maestro, avrebbe potuto farne un altro, liberandosi come già avvenuto in altre occasioni. È l’unica attenuante che però non sminuisce la portata dell’atto, è come dire che chi fa un sorpasso azzardato a folle velocità, se causa un incidente in cui muoiono delle persone, non voleva uccidere. Non è un omicidio preterintenzionale.

C’è poi il pentimento: “Allora Giuda – colui che lo tradì -, vedendo che Gesù era stato condannato, preso dal rimorso, riportò le trenta monete d’argento ai capi dei sacerdoti e agli anziani, dicendo: «Ho peccato, perché ho tradito sangue innocente». Ma quelli dissero: «A noi che importa? Pensaci tu!». Egli allora, gettate le monete d’argento nel tempio, si allontanò e andò a impiccarsi. I capi dei sacerdoti, raccolte le monete, dissero: «Non è lecito metterle nel tesoro, perché sono prezzo di sangue». Tenuto consiglio, comprarono con esse il «Campo del vasaio» per la sepoltura degli stranieri. Perciò quel campo fu chiamato «Campo di sangue» fino al giorno d’oggi. Allora si compì quanto era stato detto per mezzo del profeta Geremia: E presero trenta monete d’argento, il prezzo di colui che a tal prezzo fu valutatodai figli d’Israele, e le diedero per il campo del vasaio, come mi aveva ordinato il Signore”(Matteo 27.3-10). Nel libro degli Atti Luca riporta le parole di Pietro che aggiunge dei particolari, vale a dire che Giuda aveva già acquistato un appezzamento di terra con quei soldi pur avendo poi restituito la somma ai capi dei sacerdoti: “In quei giorni Pietro si alzò in mezzo ai fratelli – il numero delle persone radunate era di circa centoventi – e disse: «Fratelli, era necessario che si compisse ciò che nella Scrittura fu predetto dallo Spirito Santo per bocca di Davide riguardo a Giuda, diventato la guida di quelli che arrestarono Gesù. Egli infatti era stato del nostro numero e aveva avuto in sorte lo stesso nostro ministero. Giuda dunque comprò un campo con il prezzo del suo delitto e poi, precipitando, si squarciò e si sparsero tutte le sue viscere. La cosa è divenuta nota a tutti gli abitanti di Gerusalemme, e così quel campo, nella loro lingua, è stato chiamato Akeldamà, cioè «Campo del sangue». Sta scritto infatti nel libro dei Salmi: La sua dimora diventi deserta e nessuno vi abiti, e il suo incarico lo prenda un altro”. (Atti 1. 16-19).

Giuda si rese conto di quello che aveva fatto, ma il suo fu un pentimento disperato, che non contemplava la possibilità del perdono. Scrive Paolo che “La tristezza secondo Dio produce un ravvedimento che porta alla salvezza e del quale non c’è mai da pentirsi, ma la tristezza del mondo produce la morte” (2 Corinti 7.10). Abbiamo detto che l’accettazione del boccone intinto fu la firma di Giuda a un contratto dal quale non poteva più tirarsi indietro: umanamente aveva ragionato fino a poco prima di tradirlo, poi aveva concesso a Satana di disporre di lui e da Satana fu abbandonato una volta raggiunto il suo scopo. Solo con se stesso, si ritrovò totalmente deserto con la propria colpa e il peso fu intollerabile perché non c’era chi potesse sollevarlo. La tristezza secondo il mondo produce la morte e la psicodinamica del suicidio è la disperazione che si forma nella persona quando non esiste più nulla in cui sperare, manca una prospettiva e il peso conseguente si fa insopportabile a tal punto che la non esistenza appare l’unica soluzione.

Pietro, dopo aver rinnegato Gesù per tre volte, è scritto che “pianse amaramente”: pianse sulla sua natura avendo agito per paura dopo una crisi nervosa vista in quel “cominciò a maledirsi”, pensando alla verità delle parole del Maestro che gli aveva predetto quel comportamento, ma a Giuda restava solo quel peccato, l’aver tradito quel “sangue innocente” che tanto aveva “amato il mondo”. Era possibile un perdono per lui? Se il pentimento può nascere solo dalla comprensione dell’errore, è indubbio che ci sia stato, ma questo stato d’animo può trovare rimedio solo rivolgendosi all’Unico in grado di dare perdono, cosa che non avvenne. Forse le parole che più lo tormentarono furono “Amico, tradisci il Figlio dell’uomo con un bacio?”. Amico.

Si possono concludere queste riflessioni con le parole di don Primo Mazzolari: “Credete voi che non ci fosse stato posto anche per Giuda, se avesse voluto? Se si fosse portato ai piedi del calvario, se l’avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della via crucis, la salvezza sarebbe arrivata anche per lui. Povero Giuda, una croce e l’albero di un impiccato, dei chiodi e una corda”.

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