3.12 – IL SERVO CHE HO SCELTO (Matteo 12.15-21)

3.12 – Il servo che ho scelto (Matteo 12.15-21)

 

 15Gesù però, avendolo saputo, si allontanò di là. Molti lo seguirono ed egli li guarì tutti 16e impose loro di non divulgarlo, 17perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta Isaia: 18Ecco il mio servo, che io ho scelto; il mio amato, nel quale ho posto il mio compiacimento. Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà alle nazioni la giustizia. 19Non contesterà né griderà né si udrà nelle piazze la sua voce. 20Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fattotrionfare lagiustizia; 21nel suo nome spereranno le nazioni.

Riconosciamo subito lo stile di Matteo che ci presenta un adempimento della profezia di Isaia che cercheremo di analizzare non senza sottolineare che quanto scritto sia da lui che da Marco, che mette più particolari, avviene poco prima dell’elezione dei dodici ad apostoli. Quanto abbiamo letto si verifica dopo l’ultimo insegnamento sul sabato culminato con la guarigione della mano rattrappita di un uomo presente nella sinagoga, probabilmente di Capernaum.

L’allontanamento di Gesù da quel luogo avvenne per vari motivi, primo fra tutti lo stesso che lo aveva visto spostarsi da Gerusalemme a Capernaum: non creare i presupposti perché fosse catturato prima del tempo e perché il campo da seminare con la Sua Parola era veramente enorme. Inoltre con il suo insegnamento sul sabato aveva esposto dei concetti talmente chiari che altro non avrebbe avuto da dire ai suoi detrattori che, volendo, avrebbero avuto tutti gli elementi per “andare e imparare”, cioè procedere ad una revisione del loro sapere.

Possiamo rilevare che la guarigione di quella mano paralizzata, oltre che l’applicazione spirituale sul sabato fatta da Gesù, abbia suscitato due reazioni, viste prima di tutto nel delineare il piano omicida nei suoi confronti, e poi nel fatto che molti fra il popolo iniziarono a seguirLo: “Gesù, intanto, con i suoi discepoli si ritirò presso il mare e lo seguì molta folla dalla Galilea. Dalla Giudea e da Gerusalemme, dall’Idumea e da oltre il Giordano e dalle parti di Tiro e Sidone, una grande folla, sentendo quanto faceva, andò da lui. Allora egli disse ai suoi discepoli di tenergli pronta una barca, a causa della folla, perché non lo schiacciassero. Infatti aveva guarito molti, cosicché quanti avevano qualche male si gettavano su di lui per toccarlo. Gli spiriti impuri, quando lo vedevano, cadevano ai suoi piedi e gridavano: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli imponeva loro severamente di non svelare chi egli fosse”. (Marco 3.7-12).

Notiamo la zone di provenienza di coloro che seguivano Gesù: venivano dalla Galilea, dalla Giudea e da Gerusalemme, quindi erano ebrei, ma vi erano anche molti che non lo erano: gli Idumei (dai quali proveniva la famiglia di Erode il Grande) che discendevano da Esaù, e genti dalle parti di Tiro e Sidone, cioè fenici oltre ad ebrei che risiedevano in quelle città. Tutti costoro erano compresi nella “gran folla che, sentendo quello che faceva, andò a lui”. Stando il fatto che Nostro Signore predicava e guariva, viene da pensare che andassero da lui per vedere e ascoltare e non a caso la loro presenza produrrà la predicazione totale che sfocerà nel cosiddetto “discorso della montagna”. Non si trattava di ascoltare un rabbi, ma uno che confermava la veridicità dei suoi insegnamenti con miracoli e, guarendo e cacciando i demoni, dimostrava di avere autorità su di loro e di essere in grado di annunciare la verità: le parole conclusive di Matteo che cita Isaia, “nel suo nome spereranno le nazioni”, è qui applicato agli idumei e ai fenici che le rappresentano poiché è da quei popoli, oltre ai samaritani che abbiamo visto tempo fa, che si riconoscono tutti gli altri che verranno.

Prendiamo ora in esame il testo di Isaia, che troviamo nel capitolo 42 dai versi 1 a 4, cercando di sottolineare i termini che vengono impiegati: “Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto in cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce, non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. Non verrà meno e non si abbatterà finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento“.

“Ecco” è la prima parola della profezia ed esprime la presenza di qualcosa, o di qualcuno, nel momento esatto in cui se ne parla o appare. Ci sarebbe stato allora un tempo preciso, unico e irripetibile in cui sarebbe venuto “il mio servo”, primo riferimento possessivo e/o personale di quattro – numero di stabilità nell’Universo e nel mondo creato per l’uomo –  assieme a “io ho eletto”, “mio amato”, “mio compiacimento”. In Zaccaria 3.8 YHWH dirà “Ecco, io faccio giungere il mio servo, il Germoglio”. Il termine “servo” qui usato da Matteo, che non trascrive il passo di Isaia ma lo traduce dall’ebraico, è lo stesso da lui impiegato in 8.6 nel raccontare la guarigione del servitore di un anonimo centurione romano per il quale lo stesso provava un amore praticamente filiale: “Signore, il mio servo è in casa, a letto, paralizzato, e soffre grandemente”. Il “mio servo” di cui Dio parla in Isaia aveva allora questa caratteristica di doppio rapporto, “servo” quanto a ruolo e “figlio” quanto a dignità. L’inviato di YHWH però doveva essere perfetto e una sola definizione non poteva bastare: ne abbiamo contate quattro, oltre una che viene dopo: quel “servo” che avrebbe avuto su di lui lo spirito del Creatore. Immaginiamoci allora un quadrato, che chiude un’area, o una casa composta da quattro pareti e da un tetto. Il primo lato, o parete, è lo stato di servo, non generico, che a parte l’implicazione filiale ha quella del riferimento diretto a Dio, cioè rispondere unicamente a Lui. Secondo, questo servo lo ha scelto il Creatore, il Progettista tanto dell’Universo quanto del piano di salvezza per l’uomo; “che io ho scelto” o, in altra traduzione, “che io ho eletto” garantisce la perfezione perché operata dall’Onnisciente che non poteva fare altro che operare un’elezione perfetta, al tempo stesso analoga e diversa da quella che lui stesso aveva fatto con Isaia dopo averlo valutato e purificato. L’episodio è ricordato così in 6.4-6: “Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il tempio si riempiva di fumo. E dissi “Ohime! Io sono perduto, perché sono un uomo dalle labbra impure e abito in mezzo a un popolo dalle labbra impure, eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti– quelli angelici, non quelli umani come molti fraintendono -. Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e disse: «Ecco, questo ha toccato le tua labbra, perciò è scomparsa la tua colpa e il tuo peccato è espiato». Poi io udii la voce del Signore che diceva «Chi manderò, e chi andrà per noi?» ed io dissi «Eccomi, manda me». Egli disse “Va’ e riferisci a questo popolo… (segue)”. Se Isaia, per portare il messaggio di Dio al popolo, doveva essere santificato, il nuovo inviato era stato scelto per un’opera a carattere perfetto e definitivo; il suo messaggio sarebbe stato non quello della venuta imminente di un servitore perfetto, ma quello della Scrittura adempiuta, come ebbe a dire Gesù ai nazareni nella loro sinagoga: “Oggi si è compiuta questa scrittura che avete ascoltato” (Luca 4.21). Pietro scrive che Gesù è quella “pietra viva, rifiutata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio” (1 Pietro 2.4).

Dobbiamo notare che Matteo, scrivendo “Ecco il servo che ho scelto” usa un termine che, oltre al concetto immediato di elezione, usa un verbo che significa anche “tenere forte, sostenere”. Sono convinto che, nelle Sue preghiere al Padre, Gesù facesse riferimento anche a questa promessa.

Terzo lato, parete, terza caratteristica del servo scelto è “il mio amato”. Anche qui c’è un’indicazione inequivocabile, unica, di fronte alla quale la comprensione umana può perdersi perché è esclusiva e allude a un rapporto reciproco: Dio ama il suo servo-figlio a tal punto da definirlo “amato” pubblicamente, nel senso che non avrebbe avuto alcuna importanza se fosse stato odiato da molti. Qui avvertiamo tutta l’inutilità del sentimento di ostilità nei suoi confronti: le attenzioni amorevoli di Dio Padre sarebbero state su di lui, condizione determinante assieme alle altre. Se Gesù non avesse avuto tutte le quattro caratteristiche più una di cui Isaia ha parlato, la Sua opera non sarebbe stata perfetta: togliendone anche una sola, non avremmo avuto il quadrato, figura della chiusura di un discorso, di completezza e pienezza e la casa, la stanza di cui abbiamo parlato, non avrebbe potuto definirsi tale. Paolo scrivendo ai Colossesi dice “Ringraziate con gioia il Padre che vi ha resi capaci di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del Figlio del suo amore, per mezzo del quale abbiamo la redenzione, il perdono dei peccati” (Colossesi 1.13).

Quarta caratteristica è “nel quale ho posto il mio compiacimento”, cioè soddisfazione, piacere provato per qualcosa, soddisfazione, sentimento che sappiamo sia impossibile far provare a Dio da parte di qualsiasi uomo al quale, al massimo, può guardare con favore. Qui parliamo del compiacimento dell’Autore, del Responsabile di quegli equilibri perfetti che ancora sussistono in natura nonostante il peccato, delle Sue esigenze e dei Suoi calcoli, della Sua essenza: ha posto il suo compiacimento in Lui e lo dichiarò non solo tramite Isaia ma, come sappiamo, al battesimo di Gesù e non solo: “Tu sei il mio figlio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento” (Luca 3. 22). Ricordiamo la stessa frase nell’episodio della trasfigurazione, che però termina con l’esortazione “Ascoltatelo” (Marco 9.6).

Se con queste caratteristiche, viste anche se brevemente ma quanto basta per una panoramica generale, si chiude il nostro “quadrato”, ecco ora la conclusione che paragono alla firma di Dio, o al tetto della casa: “Porrò il mio spirito sopra di lui e annuncerà alle nazioni la giustizia”, frase più correttamente traducibile con “e annuncerà il giudizio alle genti”. Quello “Spirito” fu messo su Nostro Signore al suo battesimo quando uscì dall’acqua identificandosi completamente nell’uomo che aveva bisogno dell’adempiersi nell’opera di Dio. Quel battesimo era il simbolo del ravvedimento di cui Gesù non necessitava, ma lo accomunava a quanti lo praticavano confessando pubblicamente di attenderlo, di voler ripensare la loro condotta ed esistenza. Perché lo Spirito scese su di Gesù solo allora? Perché possiamo dire che, battezzandosi nelle acque del Giordano, Gesù dichiarava di voler prendere ufficialmente possesso dell’incarico ricevuto, che comportava condividere la vita umana in tutto fuorché nel peccato. Era come se quel battesimo fosse una dichiarazione ufficiale: uomo come gli altri, li avrebbe condotti come l’unico pastore al solo ovile possibile, quello di Dio.

Nell’annuncio del giudizio alle genti, alle nazioni, vediamo l’universalità del messaggio che non esclude nessun essere umano indipendentemente dalla razza o dalla condizione sociale oltre che la profezia in base alla quale l’opera dell’Inviato di Dio non sarebbe stata solo per il popolo eletto. Egli avrebbe predicato per mezzo dello Spirito Santo, l’unico a poter convincere l’uomo di peccato, giustizia e giudizio. L’uomo deve sapere che dovrà incontrare il proprio Creatore, in salvezza o in condanna, deve sapere che cos’è il giudizio e cosa sia effettivamente la giustizia, quella cui a modo suo tende come dimostrano tutti quei codici che, almeno nei tempi antichi, erano stati studiati e scritti a tutela della persona e non per la sua umiliazione, come oggi.

Con la deposizione dello Spirito Servo amato termina la prima parte dei versi di Isaia: se questa riguarda le caratteristiche, le credenziali del servo, la seconda ne illustra i metodi. “Non contesterà, non griderà e non si udrà la sua voce nelle piazze”, caratteristiche che si riferiscono a quelle che Paolo definisce “la dolcezza e la mansuetudine di Cristo” (2 Corinti 10.1) e al suo metodo che sarà sempre volto a voler recuperare e non condannare l’uomo agendo individualmente senza irrompere con grandi manifestazioni pubbliche facendo comizi per promuovere l’appartenenza a un partito.

Gesù cercò sempre l’essere umano che andrò da lui per ascoltarlo, seguirlo, farsi guarire. Se Salomone diceva che “la sapienza grida nelle piazze” alludeva al fatto che anche in un luogo come quello era possibile trarre considerazioni utili per riflettere, che questa era ovunque tranne nelle manifestazioni sguaiate, coreografiche o imposte come fanno alcuni regimi.

A questo metodo, che il servo farà proprio per tutta la sua vita terrena, si aggiungono altri esempi: “Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fatto trionfare la giustizia”: qui “canna” e “fiamma” sono figure per indicare l’uomo per il quale c’è ancora una speranza di vita. La canna incrinata, o ammaccata che altri spezzerebbero ritenendola inutile, potrebbe tornare a vivere e produrre frutto se rialzata e legata a un sostegno e la “fiamma smorta”, o “lucignolo fumante”, se ravvivata con sostanze opportune, potrebbe tornare a fare luce. Gesù stesso illustra questo metodo nella parabola del lavoratore della vigna in Luca 13. 6-9: “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarne dei frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo, dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». Ma quello gli rispose: «Padrone, lascialo stare ancora quest’anno, finché gli avrò zappato intorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»”.

Anche qui vediamo l’intercessione del vignaiolo, figura di Gesù pronto non ad abbattere l’albero infruttifero, ma a mettere in atto a favore dell’albero, figura dell’uomo, tutto quanto è in suo favore per porlo nella condizione di diventare produttivo. Senza la sua intercessione ed opera, alla quale nessuno può sostituirsi, ci sarebbe solo la morte. Per questo “Nel suo nome spereranno le nazioni”.

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3.11 – L’UOMO DALLA MANO RATTRAPPITA (Luca 6.6-11)

3.11 – L’uomo dalla mano rattrappita (Luca 6.6-11)

 

6Un altro sabato egli entrò nella sinagoga e si mise a insegnare. C’era là un uomo che aveva la mano destra paralizzata. 7Gli scribi e i farisei lo osservavano per vedere se lo guariva in giorno di sabato, per trovare di che accusarlo. 8Ma Gesù conosceva i loro pensieri e disse all’uomo che aveva la mano paralizzata: «Àlzati e mettiti qui in mezzo!». Si alzò e si mise in mezzo. 9Poi Gesù disse loro: «Domando a voi: in giorno di sabato, è lecito fare del bene o fare del male, salvare una vita o sopprimerla?». 10E guardandoli tutti intorno, disse all’uomo: «Tendi la tua mano!». Egli lo fece e la sua mano fu guarita. 11Ma essi, fuori di sé dalla collera, si misero a discutere tra loro su quello che avrebbero potuto fare a Gesù.”

 

 

Siamo così giunti al terzo miracolo operato da Gesù in giorno di sabato, dopo la liberazione dell’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum e della suocera di Simone dalla febbre. Apparentemente non sappiamo dove avvenne l’episodio, ma poiché Matteo scrive “…andò nella loro sinagoga”, quella cui facevano riferimento i farisei che avevano accusato i discepoli di infrangere il sabato strappando le spighe e mangiando i chicchi di grano, ci lascia ragionevolmente supporre sia stata la stessa.

Il racconto, che armonizzeremo con gli interventi di Marco e Matteo, non trova problemi interpretativi e può considerarsi complementare a quello precedente delle spighe strappate; ciò ci consente di dare qualche cenno sugli scribi, i farisei e gli erodiani, oltre che meditare quanto avvenuto. Eviterò di citare i casi in cui compaiono nei Vangeli ritenendo più utile avere una base storica, per quanto sommaria, per comprendere i passi in cui verranno citati nel corso della nostra lettura cronologica.

 

Gli scribi

Nascono in tempi molto antichi come persone versate nell’arte dello studio e dello scrivere e perciò tenute in grande considerazione nelle corti. Quando nell’esilio di Babilonia (VII° – VI° sec. a.C.) il popolo giudaico si trovò privato di tutti i suoi beni materiali e morali salvo che della Legge, vi furono uomini che consacrarono tutta la loro operosità e vita all’unico bene che era rimasto, la Legge, perché fosse conservata e trasmessa con ogni cura ed esattezza, per investigarla ed applicarla in tutta la sua scrupolosità: questi erano gli scribi. Lo scriba ai tempi del Nuovo Testamento è persona che non è mai disgiunto dal Rabbi, cioè dal maestro, dal dottore della Legge che la insegnava e la interpretava considerandola come l’unica, somma forma di erudizione. Si diventava Scriba dopo studi severi che duravano molti anni nelle scuole più importanti del tempo che erano quella di Hillel e di Shammai. Molti scribi erano anche Farisei ed è per questo che si trovano quasi sempre associati a loro nei racconti evangelici: aderivano cioè a quel movimento, o categoria di persone, che negli anni avevano finito per detenere il potere religioso assoluto assieme ai sadducei, che non abbiamo ancora incontrato, dai quali però si discostavano per la diversa tradizione che li caratterizzava. Per questo motivo non è sempre facile distinguere gli Scribi dai Farisei: potevano tanto formare un tutt’uno, quando costituire due gruppi distinti, ma non erano mai in contrasto tra loro. Non è azzardato ipotizzare che il fariseo potesse essere considerato uno scriba “perfetto”.

Con l’andar del tempo, man mano che gli scribi e i dottori della legge elaboravano il materiale della tradizione interpretativa della Torah scritta, questa diventò sempre più importante. Nel Talmud leggiamo che “Maggior forza hanno le parole degli Scribi che le parole della Torah”, che “È peggior cosa andar contro le parole degli Scribi che alle parole della Torah”, elementi che ci fanno capire quanto fosse facile portare all’estrema esasperazione i loro sentimenti, religiosi e non, quando leggiamo che Gesù “insegnava avendo autorità e non come gli scribi e i farisei”. Questo lo notavano anche loro e lo consideravano come un furto. Il sistema religioso fondato da questi personaggi era rigidamente dogmatico e li poneva al vertice di una piramide in cui trovava posto solo ed esclusivamente il loro orgoglio. Occorre però sottolineare che non tutta l’elaborazione della Legge fatta da scribi e farisei fosse menzognera; piuttosto, come osserva l’abate Ricciotti, “In un mare di futilità e pedanterie erano contenute vere perle preziose che rappresentavano l’eredità dell’insegnamento profetico spirituale. Ma troppa sproporzione correva tra l’ampiezza del mare e la scarsità delle perle, tra lo smisurato scenario giuridico e l’esigua impalcatura spirituale, cosicché l’utile rimaneva affogato fra tanto disutile.” Ad esempio una sentenza di Hillel, anteriore a Gesù di pochi anni, alla richiesta di un pagano che gli chiedeva di spiegargli tutta la legge nel tempo che riusciva a stare in equilibrio su un piede solo, gli disse “Ciò che non desideri per te, non fare al tuo prossimo. Questa è tutta la Legge, il resto è solo commento. Va’ e impara”. Facciamo attenzione a come conclude Hillel, “va’ e impara”, tipico detto degli scribi e farisei che Gesù utilizzò, rivoltandolo contro di loro quando disse “Andate e imparate ciò che vuol dire «Voglio misericordia e non sacrificio»”. La massima “Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”, attribuita a Gesù, è però soltanto di comodo poiché Gesù andò oltre dicendo “Le cose che vorreste fossero fatte a voi, fatele agli altri”.

 

I Farisei

È molto probabile che questo gruppo derivi storicamente da quello degli scribi e che farisei diventeranno quelli più radicali fra i componenti del gruppo originario, cioè degli scribi. Il termine “fariseo” significa “separato” da tutto ciò che non era religioso e giudaico. Se ciò può essere visto come qualcosa di apprezzabile stante la volontà di preservare le tradizioni, questo andava a sfociare in un formalismo rigido e in una minuziosità assoluta nello studio e interpretazione della Legge che aveva già portato ad un profondo disprezzo verso il popolo che, nonostante l’elezione che aveva perché appartenente a Dio, era chiamato con disprezzo “Popolo della terra”. Lo studio farisaico si basava su tre argomenti principali: il riposo del sabato, che era il primo. Ecco perché i Vangeli insistono sull’insegnamento di Gesù al riguardo, contrapposto al loro. Seguivano il pagamento delle decime e la purità rituale oltre l’immenso campo delle sentenze già emanate dalla loro tradizione che studiavano ed estendevano e andava a confluire nel Talmud che già i dottori della Legge avevano trasmesso. Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche scrive che ai tempi di Erode il Grande c’erano 6000 farisei in Israele, ricchi e poveri. Quelli che non appartenevano alla loro cerchia erano chiamati, come già sappiamo, con disprezzo “il popolo della terra”, cioè dei maledetti e per questo non avevano con loro alcun contatto nel senso che non potevano ospitare né farsi ospitare da un normale israelita o peggio contrarre vincoli matrimoniali con una donna che non fosse della loro cerchia: tutti erano giudicati in base alla conoscenza che avevano delle loro leggi, usanze, costumi. E sulla loro messa in pratica. Sempre lo storico Giuseppe Flavio scrive che “tanta potenza hanno sulla folla, che pure se dicano alcunché contro il re o contro il sommo sacerdote, sono immediatamente creduti”.

 

Gli Erodiani

Nel passo in esame gli erodiani compaiono per la prima volta. Erano questi dei giudei che sostenevano apertamente la dinastia degli Erodi costituendo una sorta di partito politico anziché una setta religiosa. Ligi al potere costituito, si opponevano a qualsiasi forma di ribellione che potesse causare l’intervento dei dominatori romani. Attenti quindi all’ordine pubblico, avevano capito che Gesù poteva essere un potenziale pericolo e perciò potevano essere usati dagli altri due gruppi per cospirare contro di lui. Pare che gli erodiani non fossero molto numerosi, ma il fatto che vengano citati indica che comunque un peso politico nella vita della nazione lo avessero, per quanto marginale. Il fatto è che tanto agli scribi che ai farisei serviva qualunque tipo di appoggio pur di giungere ad una futura eliminazione fisica di Gesù, ormai divenuto chiaramente e ufficialmente un loro avversario.

 

A parte gli erodiani di cui si sa poco, possiamo aprire una parentesi citando la preghiera di ringraziamento di Gesù al Padre al ritorno dei 70 discepoli inviati in missione: “Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Luca 10.21). Quei discepoli, non appartenenti né agli scribi né ai farisei, erano persone comuni, non apprezzate per la loro scienza religiosa, ma “Tornarono pieni di gioia dicendo «Signore, anche i demoni si sottomettono nel tuo nome” (v.17) Sicuramente gli scribi e i farisei erano i “sapienti e i dotti” di cui parlò Gesù nella sua preghiera, ma non possiamo nemmeno annoverare nella categoria dei “semplici” coloro che sono convinti che sia sufficiente leggere il Vangelo e stare genericamente assieme per essere considerati tali.

L’uomo dalla mano paralizzata è un personaggio che ritengo particolare e su di lui hanno indagato molti a cominciare dalla ricerca di una traduzione corretta per stabilire con la maggiore esattezza possibile in cosa consistesse la sua infermità: così troviamo “mano secca”, “anchilosata”, “paralizzata”, “rattrappita” e ciò poteva essere avvenuto dalla nascita o per incidente sul lavoro. C’è chi ha pensato più alla seconda ipotesi, sostenendo che quest’uomo avesse potuto un tempo essere un muratore che si fosse accidentalmente schiacciato una mano e si trovasse nelle condizioni di non poter lavorare, e nulla ce lo dice e nulla ce lo lascia escludere. Di fatto però, quell’uomo si trovava nella sinagoga come tutti, quindi non aveva imputato a Dio la sua sventura tanto per il fatto di essere nato così, quanto per essersela lesionata sul lavoro, ritenendosi offeso per non essere stato protetto da Lui.

Dal suo comportamento si può dedurre che fosse un uomo dalla forte dignità, visto che un altro avrebbe potuto benissimo, nelle sue condizioni, chiedere l’elemosina, a meno di non avere soldi da parte o chi lo assisteva. Sicuramente si trovava in una situazione invalidante, ma non ritenne di chiedere a Gesù nulla: gli bastava l’attenzione che prestava, o stava per prestare, ai Suoi insegnamenti. E Nostro Signore, che sapeva la storia di ognuno dei presenti come abbiamo letto dalla frase “conosceva i loro pensieri” al v.8, colse l’occasione tanto per guarirlo quanto per dare un’ulteriore lezione a quanti nella sinagoga erano a lui ostili. Questo episodio, a parte il suo significato più immediato visto nell’insegnamento sul sabato, ci vuol dire che l’intervento di Dio nella vita di una persona può giungere anche in modo inaspettato, visto che è Lui che cerca.

Vediamo il clima che si venne a creare nella sinagoga confrontando il racconto dei sinottici: Matteo non espone i dettagli, ma si preoccupa di mettere in risalto i motivi che spinsero Gesù ad agire in giorno di sabato; Marco però, che ha una narrazione simile a quella di Luca, ci parla dell’attenzione che scribi e farisei misero per accusare Gesù di un’altra violazione del sabato tant’è che gli chiesero “È lecito guarire in giorno di sabato?” (Matteo 12.10). Fu allora che Nostro Signore mise a confronto i due atteggiamenti, quello ostile del suoi accusatori che lo interrogavano non certo per istruirsi, e quello di attesa dell’uomo nell’assemblea cui chiese di venire al centro non prima di rivolgere ai suoi oppositori due domande, la prima riportata da Marco e la seconda da Matteo: “È lecito in giorno di sabato fare del bene o del male, salvare una vita o ucciderla?“ (Marco 3.4).

A questa domanda, secondo i loro metodi di ragionamento, non poteva esserci risposta perché fare del male non era lecito in nessun giorno, mentre far del bene e salvare una vita, sempre. Quella domanda però aveva un significato che per noi, lettori che pensiamo sempre da un’ottica esterna data in gran parte dal tempo in cui viviamo e dal nostro bagaglio storico, è più recondito: Gesù parlava a persone in cui l’ostilità era sempre più in fase montante e già allora portava in sé l’idea dell’omicidio per cui quel “salvare una vita o ucciderla” era un riferimento alle loro intenzioni. A questa domanda Marco dice che quelli tacevano, credo perché non sapevano cosa rispondere, ma soprattutto perché pensavano a come fare per sbarazzarsi di lui. Era il loro un silenzio che non prendeva in considerazione la riflessione e nemmeno quella contesa dottrinale che avevano proposto, ma la sua eliminazione fisica che sfocerà in una discussione aperta tra loro, cioè scribi, farisei ed erodiani, su “quello che avrebbero potuto fare a Gesù” secondo Luca, “per farlo morire” secondo Marco. Sapevano che, se la predicazione di Gesù fosse proseguita, avrebbero perso il loro prestigio e il loro potere sul popolo.

Matteo riporta poi la seconda domanda: “Chi di voi, se possiede una pecora e questa in giorno di sabato cade in un fosso, non l’afferra e la tira fuori? Ora un uomo vale ben più di una pecora! Perciò è lecito in giorno di sabato fare del bene!”. Si tratta di una questione che Matteo inserisce qui, ma che probabilmente fu posta più avanti, in un altro miracolo operato sempre di sabato, il cui beneficiario fu un uomo idropico.

A questo punto Gesù ordina all’uomo di stendere la mano: per farlo, l’innominato infermo dovette ordinare alla mano di stendersi tramite il cervello esattamente come se si trattasse di un arto sano, quindi non ebbe titubanze, non rispose “è impossibile”, o “non riesco”: semplicemente, fece ciò che il Signore gli aveva chiesto. Se l’uomo vuole avere un risultato nella propria vita, deve farsi collaboratore di Dio che non gli chiede mai l’impossibile: a Naaman fu chiesto di bagnarsi sette volte nel Giordano, qui la richiesta fu di stendere la mano.

Abbiamo letto che a quel punto gli scribi, i farisei e gli erodiani, visto il risultato, uscirono dalla sinagoga e iniziarono a discutere sul da farsi per uccidere Gesù: fuori da quel luogo sacro, pensavano fosse possibile progettare un omicidio, quasi pensando che in quel modo Dio non li sentisse. Per loro, in quel giorno era lecito fare del male.

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3.10 – LE SPIGHE STRAPPATE (Matteo 12.1-8)

3.10 – Le spighe strappate (Matteo 12.1-8)

In quel tempo Gesù passò, in giorno di sabato, fra campi di grano e i suoi discepoli ebbero fame e cominciarono a cogliere delle spighe e a mangiarle. 2Vedendo ciò, i farisei gli dissero: «Ecco, i tuoi discepoli stanno facendo quello che non è lecito fare di sabato». 3Ma egli rispose loro: «Non avete letto quello che fece Davide, quando lui e i suoi compagni ebbero fame? 4Egli entrò nella casa di Dio e mangiarono i pani dell’offerta, che né a lui né ai suoi compagni era lecito mangiare, ma ai soli sacerdoti. 5O non avete letto nella Legge che nei giorni di sabato i sacerdoti nel tempio vìolano il sabato e tuttavia sono senza colpa? 6Ora io vi dico che qui vi è uno più grande del tempio. 7Se aveste compreso che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici, non avreste condannato persone senza colpa. 8Perché il Figlio dell’uomo è signore del sabato».”

Fra le tre versioni di questo episodio, la più accurata è quella di Matteo che utilizzeremo per le nostre riflessioni per quanto la collochi più avanti rispetto agli altri, che preferiscono porla dopo la questione sollevata dai discepoli di Giovanni e dai farisei sul digiuno. Luca è quello che colloca l’avvenimento temporalmente, anche se di questa sua annotazione in diverse traduzioni non v’è traccia: leggendo infatti 6.1 troviamo che “Un sabato Gesù passava tra i campi di grano e i suoi discepoli coglievano e mangiavano le spighe”. Alcuni testi dai quali diversi traduttori hanno attinto, primo fra tutti San Girolamo (317-420 d.C.), riportano “E avvenne che nel sabato secondo primo, passando egli per i seminati, i suoi discepoli coglievano spighe, e stritolatele con le mani, le mangiavano”. Diodati nel 1600, chiarisce cosa fosse quel “secondo primo” traducendo “nel primo sabato dal dì dopo la Pasqua”, come in effetti è. Di questa precisazione rimangono tracce sia nella Diodati riveduta, “”Ora avvenne che in giorno di sabato, dopo il gran sabato”, quanto nella Bibbia tradotta dall’abate Giuseppe Ricciotti (1949), sostanzialmente identica a quella di San Girolamo. La differenza è dovuta ai diversi codici greci presi in esame in cui il “sabato secondo primo” manca.

Fatta questa precisazione, doverosa perché chi legge Luca potrebbe chiedersi il perché di una differenza piuttosto rilevante tra i testi, entriamo nell’oggetto della presunta infrazione alla Legge che i discepoli di Gesù avrebbero compiuto. Era sabato, giorno di riposo, per il quale i Farisei avevano stabilito e aggiunto ben 39 azioni proibite tra le quali il mietere, che era indubbiamente un lavoro, ma anche stropicciare le spighe fra le mani. Per i farisei, per i quali era lavoro di sabato anche raccogliere un frutto caduto spontaneamente da un albero oppure mangiare un uovo, l’accusa bastava. Leggiamo invece in Deuteronomio 23.26 quanto segue: “Se passi tra la messe del tuo prossimo, potrai coglierne le spighe con la mano, ma non potrai mettere la falce nella messe dei tuo prossimo”, quindi di mietitura non se ne poteva parlare e la Legge, che proibiva il furto ma consentiva la spigolatura, faceva sì che e il proprietario del campo, indipendentemente dal fatto dal tipo di coltivazione, nel raccoglierne i frutti non ripassasse mai a cercare quelli rimasti indietro, ma li lasciasse ai poveri che avrebbero potuto raccoglierli. “Quando bacchierai i tuoi ulivi, non tornare a ripassare i rami. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto; perciò ti comando di fare questo” (Deuteronomio 24.20-22). Ancora: “Quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono YHWH, vostro Dio” (Levitico 19.9,10).

Quindi i discepoli, che presumiamo percorressero il “cammino di sabato” perché nulla in proposito rilevano gli oppositori di Gesù, non infrangevano le prescrizioni stabilite per quel giorno perché non solo non mietevano, ma neppure commettevano un furto. Gesù però non fa osservare loro questo, non li segue né apre una dissertazione su ciò che era o meno concesso di sabato, ma li riconduce allo spirito della Legge e li richiama a riconsiderare un episodio che dovevano conoscere molto bene. In casi come questo, in cui Lui cita episodi descritti nell’Antico Patto, mi viene sempre in mente che il Figlio di Dio era là, presente e testimone degli avvenimenti.

Ebbene Davide, perseguitato da Saulle che, accecato dall’invidia a seguito delle parole del canto delle donne israelite “Saul ha abbattuto i suoi mille, ma Davide i suoi diecimila”, voleva ucciderlo, giunse in fuga a Nob, città sacerdotale appartenente alla tribù di Beniamino. Nob era popolata da sacerdoti che, come membri della tribù di Levi, non possedevano una regione precisa ma si trovavano sparsi tra i vari centri della terra di Israele. Davide arriva così da Achimelech che, non avendo pane comune, alla sua richiesta di averne, gli dà quello sacro, cioè le dodici focacce che dovevano essere conservate davanti al luogo santo del tempio e rinnovate ogni sabato.

È un episodio al quale bisogna prestare molta attenzione perché contiene insegnamenti che vanno oltre le parole di Gesù a quei farisei: citando l’episodio, Nostro Signore implicitamente ricorda loro le verità nascoste bell’episodio che avrebbero dovuto e potuto meritare se solo avessero voluto. Ora Davide, e i suoi che lo attendevano in un luogo precedentemente concordato, era stremato dopo tre giorni di viaggio per cui la fame sua e degli altri era grave. Il fatto poi che il sacerdote non avesse pane e abbia scelto di dargli quello sacro, non trovandosi isolato in mezzo al deserto e potendo quindi cucinargli del pane normale, lascia supporre che fosse sabato e che quei pani, detti “di presentazione” fossero gli unici che gli fosse lecito preparare. Certo la Legge prescriveva che nessuno li potesse toccare o mangiare, ma se il sacerdote non avesse deciso di sfamare Davide e i suoi con quelli, li avrebbe debilitati visto che erano in fuga e sarebbero potuti morire. Erano uomini stremati. Inoltre Davide, quando si presenta ad Achimelech, non gli dice che stava scappando da Saul, ma “Il re mi ha ordinato e mi ha detto «Nessuno sappia di questa cosa per la quale io ti mando e di cui ti ho dato incarico»”, sempre per proteggere la propria vita. L’episodio è raccontato al capitolo 21 del primo libro di Samuele.

A proposito dei pani di presentazione, leggiamo Esodo 25.30: “Sulla tavola collocherai i pani della presentazione, saranno sempre alla mia presenza”. È un comandamento non da poco le cui parole “sempre” e “mia presenza” ci danno l’idea della continuità e di quanto quest’ordine fosse assoluto e il termine stesso “pane di presentazione” letteralmente dall’ebraico si traduce con “pane di facce” a motivo del fatto che dovesse restare davanti a Dio.

Se andiamo in Levitico 24.5-9, poi, abbiamo una visione ancora più esaustiva di quanto fosse seria la funzione di quei pani: “Prenderai anche fior di farina e ne farai cuocere dodici focacce. (…) Le disporrai su due pile, sei per pila, sulla tavola d’oro puro davanti al Signore, sempre. Porrai incenso puro sopra ogni pila, perché serva da memoriale per il pane, come sacrificio consumato dal fuoco in onore del Signore. Ogni giorno di sabato lo si disporrà davanti al Signore perennemente da parte degli israeliti: è un’alleanza eterna. Sarà riservato ad Aaronne e ai suoi figli: essi lo mangeranno in luogo santo, perché sarà per loro una cosa santissima tra i sacrifici da bruciare in onore del Signore. È una legge perenne”. Anche qui il redattore del libro del Levitico usa termini che poco spazio lasciano all’interpretazione: “in onore del Signore” – “perennemente” – “alleanza eterna” – “riservato” – “luogo santo” – “cosa santissima” – “in onore del Signore“ (per la seconda volta) – “legge perenne” (per la seconda volta).

Ebbene, queste istruzioni così particolareggiate vengono temporaneamente abolite dietro un’iniziativa non contemplata dalla Legge per salvare una vita umana e Dio non ne chiederà conto né ad Achimelech, né a Davide quando il solo annusare l’incenso preparato per il servizio sacerdotale o il fabbricarne di simile, era punito con la morte. Tutto questo abbatteva il formalismo esasperato – oggi lo chiameremmo radicalismo – di quei farisei ancora una volta chiamati a considerare da Gesù che la misericordia valeva più del sacrificio. Ancora una volta viene citato Osea, ancora una volta si sottolinea il principio in base al quale quando la misericordia – vedasi l’amore – e il sacrificio, cioè la parte esterna della religione, vengono in conflitto, Dio nella sua benignità sceglie la prima.

È indubbiamente questa una verità che dovrebbe molto insegnare a quei cristiani che si arroccano su posizioni che tendono a dividere il mondo in bianco e nero senza possibilità di grigio e dimenticano che Dio ha creato il colore. Camminare in mezzo a un bosco in estate equivale a vedere non del verde, ma sue sfumature infinite tutte riferite alla vita, così come guardare il cielo non significa vedere solo un azzurro uniforme che si trova, solo e al limite, in quei cartoni animati in cui i disegnatori devono produrre fotogrammi dipendenti da costi di produzione.

Marco scrive che Gesù disse nell’occasione che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”, cioè: l’uomo aveva bisogno di riposo per rigenerare le proprie energie e per questo era stata imposta l’astensione dal lavoro dandogli modo di far propria e meditare l’opera di Dio che in quel giorno contemplò il suo lavoro minato da Satana attraverso la disubbidienza dei nostri progenitori. Il sabato di Dio doveva essere eterno, santificato dalla reciprocità di amore tra lui e l’uomo, suo vero capolavoro protagonista in un creato perfetto e puro. L’uomo non era stato creato per osservare il sabato, ma per vivere pienamente condividendo con il suo Creatore giorno di eternità e beatitudine. Dopo la caduta, era chiamato ad osservarlo anche per riflettere sulla sua condizione consacrando il suo tempo al Signore.

Per questo Gesù, “Figlio dell’uomo” indicato nei testi profetici, era “Signore del sabato” e anche “più grande del Tempio”, cosa che i farisei non potevano accettare perché, in quel caso, tutto il loro castello di teoremi e il loro stesso modo di vivere, con il rispetto che avevano presso il popolo, sarebbe crollato. Avrebbero dovuto rinunciare a loro stessi, porre tutto in discussione da capo. In poche parole, avrebbero dovuto ubbidire a quell’esortazione detta loro qualche giorno prima, “Andate e imparate cosa vuol dire «Voglio misericordia e non sacrificio»”. Là dove il termine allude, da dizionario, a un “sentimento di compassione e pietà per l’infelicità e la sventura altrui che induce a soccorrere, a perdonare e a non infierire”. E l’episodio successivo sarà proprio un nuovo miracolo, il terzo operato da Gesù in giorno di sabato.

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3.09 – LA DISCUSSIONE SUL DIGIUNO (Matteo 9.18-22)

3.09 – La discussione sul digiuno (Matteo 9.18-22)

 

14Allora gli si avvicinarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?». 15E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno. 16Nessuno mette un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio, perché il rattoppo porta via qualcosa dal vestito e lo strappo diventa peggiore. 17Né si versa vino nuovo in otri vecchi, altrimenti si spaccano gli otri e il vino si spande e gli otri vanno perduti. Ma si versa vino nuovo in otri nuovi, e così l’uno e gli altri si conservano»”.

 

Questo episodio viene integrato da Marco con una precisazione importante vista nella frase di apertura “I discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno” (2.18), mentre Matteo (che era presente) e Luca lo collocano subito dopo le parole di Gesù ai farisei e ai loro discepoli che abbiamo esaminato la volta scorsa. Qui c’è però un cambio di interlocutori perché i farisei erano stati ridotti al silenzio. Non sapevano più cosa rispondere anche perché, citando Osea, Nostro Signore era risalito ai tempi in cui la tradizione rabbinica ancora non esisteva e, con le Sue parole, si era collegato alla sintesi degli antichi profeti che avevano mirato molto più alla formazione spirituale che alle formalità rituali, cosa che aveva fatto anche Giovanni Battista, l’ultimo profeta dell’Antico Patto.

È a questo punto che intervengono i discepoli di Giovanni, che con il loro rimanere ancorati al loro maestro dimostravano di non aver capito nulla né delle sue parole, né di che cosa aveva significato il suo battesimo, anzi, con la frase “Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?” (v.14) si associano a loro. È come se volessero dire “Noi e i farisei abbiamo questa tradizione che ha radici nella Legge, perché tu non dici ai tuoi discepoli di fare altrettanto?”. È triste considerare quanto, nella pratica, quelli che seguivano il Battista fossero distanti dal loro maestro che, nella sua predicazione, si era sempre distinto da Gesù per ruolo e funzione: aveva detto di non essere il Cristo, che dopo di lui sarebbe venuto uno cui non era degno di sciogliere neppure il laccio dei sandali, lo aveva indicato come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” e aveva spiegato ai suoi discepoli che chi doveva “crescere” non era l’amico dello sposo, ma lo sposo stesso: meglio di così, non poteva parlare per spiegare ai suoi che il suo compito volgeva ormai al termine.

Il voler rimanere fedeli a Giovanni da parte dei suoi discepoli denotava allora che non solo non avevano capito la differenza tra i due inviati di Dio, ma che rimanevano ancorati a vecchi preconcetti: non avevano realizzato il fatto che Giovanni era e sarebbe stato l’ultimo dei profeti secondo le parole “La Legge durò fino a Giovanni”, ponte tra le due dispensazioni della Legge e della Grazia. Ora che Gesù aveva iniziato a predicare dimostrando di essere Colui che avrebbe rivelato il Padre, erano le Sue parole che gli uomini avrebbero dovuto conoscere, ascoltare e mettere in pratica, era Lui che avrebbero dovuto seguire. Invece tutti avevano una grande confusione in merito, compreso più avanti lo stesso Battista che, come abbiamo già ricordato, gli mandò a chiedere se era lui quello che avrebbe dovuto arrivare oppure avrebbero dovuto aspettarne un altro. Queste parole dimostrano che Giovanni, pur avendolo riconosciuto nelle modalità che abbiamo visto a suo tempo, era ancora ancorato all’idea secondo la quale il Messia avrebbe agito con potenza sui suoi nemici e quindi lo avrebbe liberato dalla prigione del Macheronte in cui certamente soffriva.

I discepoli del Battista, quindi, a vedere quell’abbondante convito, si scandalizzarono, ritenendo il digiuno meritevole davanti a Dio e l’agire dei discepoli di Gesù in contrasto con la loro posizione. Il digiuno: non lo troviamo comandato in modo chiaro e assoluto nella Legge, ma lo vediamo la prima volta come forma esteriore di penitenza nel caso di Mosè, che a fronte dei peccati del popolo stette senza mangiare né bere per un certo periodo (Deuteronomio 9.17-19). È probabile che il digiuno sia citato con l’espressione “affliggerete le vostre persone”, tradotto anche con “vi umilierete” in Levitico 16.28-34: in questo caso il digiuno è comandato una volta all’anno nel gran giorno dell’espiazione nel quale si compendiavano tutte le cerimonie espiatorie. Dice il testo “29Questa sarà per voi una legge perenne: nel settimo mese, nel decimo giorno del mese, affliggerete le vostre persone, vi asterrete da qualsiasi lavoro, sia colui che è nativo del paese sia il forestiero che soggiorna in mezzo a voi, 30poiché in quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi da tutti i vostri peccati. Sarete purificati davanti al Signore. 31Sarà per voi un sabato di riposo assoluto e voi vi umilierete; è una legge perenne. 32Compirà il rito espiatorio il sacerdote che ha ricevuto l’unzione e l’investitura per succedere nel sacerdozio al posto di suo padre; si vestirà delle vesti di lino, delle vesti sacre. 33Purificherà la parte più santa del santuario, purificherà la tenda del convegno e l’altare; farà l’espiazione per i sacerdoti e per tutto il popolo della comunità. 34Questa sarà per voi una legge perenne: una volta all’anno si compirà il rito espiatorio in favore degli Israeliti, per tutti i loro peccati».

Fu nel corso del tempo che il digiuno assunse valore come pratica di penitenza e soprattutto con l’intento di mortificare gli appetiti della carne concentrandosi sullo spirito in grado di dominarla. Sappiamo che Gesù digiunava spesso e che non lo proibì, ma nel nostro episodio siamo di fronte a una realtà diversa: Marco ci spiega l’origine di quella contesa con le parole “I discepoli di Giovanni e i farisei stavano facendo un digiuno” (v.18); si trattava quindi di un’astinenza tradizionale, quella di cui, per lo meno i farisei, abusavano spacciandola come mezzo per essere giustificati davanti a Dio, ma facendo in modo di farlo notare agli altri. Gesù commentò così questo atteggiamento: “E quando digiunate, non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano. In verità vi dico che hanno già ricevuto la loro ricompensa. Invece, quando tu digiuni, profumati la testa e làvati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo il Padre tuo, che è nel segreto. E il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Matteo 6.16-18).

Anche prendendo il digiuno a prescindere da quanto abbiamo letto, a questo punto Gesù usa un termine che i discepoli di Giovanni dovevano conoscere molto bene perché lo avevano già sentito dal loro maestro, quello dello sposo: “Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro?”. E, parlando della Sua morte imminente, aggiunge “Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno”. Giovanni non era lo sposo, ma il suo amico, che si “rallegra grandemente alla sua voce”. Il digiuno quindi, emblema del cordoglio, era lì fuori luogo.

Gesù si definisce quindi come “lo sposo” e i presenti al banchetto come “gli invitati alle nozze”, o meglio “gli amici della camera nuziale”, in questo caso quei pubblicani e i peccatori ai quali aveva o avrebbe predicato invitandoli a condividere, credendo in lui, la partecipazione alle nozze future, quelle che si sarebbero celebrate quando la Chiesa, sposa di Cristo, avrebbe potuto essere presentata a lui completa, con tutti i suoi membri.

Già negli scritti dell’Antico Patto i profeti avevano parlato dello sposo, fra i molti Isaia che scrive “…poiché il tuo sposo è il tuo creatore, Signore degli eserciti – angelici – è il suo nome; tuo redentore è il santo di Israele, è chiamato Dio di tutta la terra” (Isaia 54.5), parole che Paolo accosta alla Gerusalemme che deve venire in cui dimoreranno tutti i credenti: “La Gerusalemme attuale è di fatto schiava assieme ai suoi figli. Invece la Gerusalemme di lassù è libera ed è la madre di tutti noi” (Galati 4.25,26).

Lo sposo però, tornando al presente cui Gesù fa riferimento, “sarà tolto”, termine che esprime violenza e sta ad indicare il dolore e la paura che si impossesserà dei discepoli dal Suo alla resurrezione.

A questo punto Gesù pone i suoi uditori innanzi a due paragoni, quello del panno e degli otri: c’è un vestito, termine che nella Scrittura si riferisce sempre a una condizione (giustizia, perdono, purezza, vendetta, gioia e lode) e c’è un rattoppo, cioè una parte nuova, ma grezza, non gestibile perché il rammendo provocherebbe al primo lavaggio il restringersi dal tessuto vecchio lacerandolo e ottenendo un effetto ancora peggiore. Ci sono poi gli otri vecchi che, già indeboliti e irrigiditi dalla fermentazione del vino precedente, scoppierebbero di fronte alla forza del nuovo: Gesù allora non parla di uomini, ma di sistemi e, come scrive Robert Stewart, “Nel vino nuovo è simboleggiato il Vangelo con la sua energia viva e spirituale, negli otri vecchi la dispensazione cerimoniale giudaica”. L’insegnamento di Gesù in questo caso è che l’energia, la potenza del Vangelo, non può essere limitata dall’osservanza della lettera, ma deve svilupparsi con lo Spirito perché è scritto che la prima uccide, mentre lo spirito vivifica. Mescolando tra loro le due dispensazioni e i loro contenuti entrambe non potrebbero reggere e verrebbero sfigurate, svuotate, si distruggerebbero per quanto non siano tra loro in antitesi. Un vestito è vecchio, ma c’è un panno nuovo che in comune col primo ha solo la composizione del tessuto. Gli otri sono vecchi, hanno già svolto il loro compito, hanno già dato, non sono in grado di reggere un vino nuovo. Sappiamo che l’apostolo Paolo, nonostante il suo passato di dottore della Legge, scrive in proposito:“8Dio infatti, biasimando il suo popolo, dice: Ecco: vengono giorni, dice il Signore, quando io concluderò un’alleanza nuova con la casa d’Israele e con la casa di Giuda. 9Non sarà come l’alleanza che feci con i loro padri, nel giorno in cui li presi per mano per farli uscire dalla terra d’Egitto; poiché essi non rimasero fedeli alla mia alleanza, anch’io non ebbi più cura di loro, dice il Signore. 10E questa è l’alleanza che io stipulerò con la casa d’Israele dopo quei giorni, dice il Signore: porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori; sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo. 11Né alcuno avrà più da istruire il suo concittadino, né alcuno il proprio fratello, dicendo: «Conosci il Signore!». Tutti infatti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande di loro. 12Perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati. 13Dicendo alleanza nuova, Dio ha dichiarato antica la prima: ma, ciò che diventa antico e invecchia, è prossimo a scomparire.” (Ebrei 8.8-13). I versi che Paolo cita, riferiti al capitolo 31 di Geremia, li pone in una prospettiva che deve ancora venire.

Torniamo al nostro episodio e facciamo ora riferimento a Luca, il solo a fare un’aggiunta dopo il paragone dei rattoppo e degli otri: “Nessuno poi che beve il vino vecchio desidera il nuovo, perché dice «Il vecchio è gradevole»” (5.39). Gesù fa qui una considerazione amara su quanti, abituati al sapore del vino vecchio, non gradiscono il nuovo. I farisei e i discepoli di Giovanni erano abituati, affezionati alle loro antiche abitudini, dottrine e tradizioni e in queste si ritenevano al sicuro perché “si è sempre fatto così”, come sentiamo dire da molti. Così avevano ereditato le tradizioni, c’erano rabbini che su di esse costruivano interpretazioni e teoremi, la Legge cerimoniale era una condizione di vita alla quale attingere, ma anche sulla quale sostare in pace con la propria coscienza, convinti di essere nel giusto, che a tutto ci fosse rimedio. Ne erano però prigionieri, nulla vedevano al di là di essa né volevano alcunché di nuovo per cui la dottrina di Cristo era malvista nonostante fosse accompagnata da segni volti a far capire che il Regno di Dio era giunto a loro dopo millenni di deserto, pur con qualche speranza data da profeti troppo spesso rimasti inascoltati. Diversi furono però i samaritani, che dissero “Noi stessi abbiamo udito e sappiamo che questi è veramente il salvatore del mondo”. Vino nuovo in otri nuovi.

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