3.03 – LA SUOCERA DI PIETRO E I MALATI (Luca 4.38-44)

3.03 – La suocera di Pietro e i malati (Luca 4.38-44)

 

38Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. 39Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva.40Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. 41Da molti uscivano anche demòni, gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo.42Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e tentarono di trattenerlo perché non se ne andasse via. 43Egli però disse loro: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato». 44E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”.

Nulla sappiamo, come in numerosi casi di guarigione, dell’uomo liberato dallo spirito impuro che abbiamo visto nella scorsa riflessione se non che era stato messo nella condizione di ricominciare tutto da capo dopo un’attenta revisione del suo comportamento. Ora Luca e non solo, nell’episodio precedente, avendoci informato che tutto avvenne di sabato, ci consente di sapere che la casa di Pietro e Andrea era nei pressi della Sinagoga, poiché in quel giorno non potevano essere percorsi più di 890 metri, distanza stabilita dai rabbini studiando il passo di Giosuè 3.4 in cui si parla dello spazio che doveva intercorrere tra l’Arca dell’Alleanza, portata dai sacerdoti e dai leviti, e il resto del popolo. Anche il primo verso del nostro testo, “Uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone”, lascia pensare ad un’azione quasi immediata.

Marco riferisce che “Usciti dalla sinagoga vennero, con Giacomo e Giovanni, in casa di Simone e Andrea. Ora la suocera di Simone giaceva in letto, con la febbre, ed essi subito gliene parlarono” (1.30). È quindi probabile che quella casa fosse di proprietà di entrambi i fratelli, poiché erano benestanti stante il guadagno ottenuto dalla loro professione di pescatori. Il lago di Galilea infatti non era povero di fauna ittica e i guadagni erano consistenti (pensiamo a Zebedeo, padre di Giacomo e Giovanni, che aveva una flotta di barche e dei dipendenti al suo servizio).

Della febbre abbiamo già parlato in occasione della guarigione del figlio del funzionario reale, ma qui possiamo notare il diverso approccio: Gesù si chinò su di lei, “comandò alla febbre” – Marco scrive “La fece alzare” – “…e la febbre la lasciò”. Il chinarsi implica piegarsi con la persona verso qualcuno, in questo caso per sollevarla: è un gesto di aiuto verso un essere umano in difficoltà, a letto. Implica l’avvicinarsi ed è segno di compassione che denota volontà di aiutare, in questo caso guarire. È la prima volta in cui troviamo scritto che Nostro Signore si china su qualcuno, lui che avrebbe potuto agire stando distante come già avvenuto. Lui Figlio e Dio stesso, che poteva rimanere nella gloria e nell’onore che aveva, Creatore e Signore del cielo e della terra, si occupa di un essere umano chinandosi. Non so se quella donna fosse più grave del figlio del funzionario reale che stava per morire –, ma era in condizioni prossime alle sue perché Luca ci parla di “grande febbre” secondo l’uso di classificarla in “grande” o “piccola” di allora, come testimonia Galeno, medico greco del primo secolo D.C. i cui punti di vista hanno dominato la medicina occidentale fino al Rinascimento; con quel gesto Gesù volle manifestare la sua identificazione con l’essere umano nella sua condizione di impotenza a vivere come vorrebbe, cioè senza incappare in malattie e tutto quanto lo rallenta nelle sue attività quotidiane. Ricordiamo che la febbre poteva anche essere preludio di malattie più importanti, se non saliva e raggiungeva livelli tali da causare la morte. Gesù si china su di lei, denotando interesse e compassione. È giusto ripeterlo perché a volte, soggetti come tutti gli esseri umani istintivamente a reagire con ansia e paura di fronte alla malattia, tendiamo a dimenticare questo atteggiamento del Salvatore chino sull’uomo dimostrando prima di tutto si comprendere e sapere la condizione in cui la persona può venirsi a trovare.

Gesù opera non di sua iniziativa, ma perché i discepoli “lo pregarono per lei” diventando così un esempio anche per i cristiani, chiamati a pregare gli uni per gli altri e non solo per loro stessi. Troppe volte si tende a porre davanti a Lui i nostri problemi contingenti, si prega magari perché si hanno dei dolori fisici e non si fa caso alle sofferenze fisiche e morali del nostro prossimo, che crede come noi e forse non importuna Dio presentando i suoi problemi di salute perché ne ha di più importanti. I discepoli “Lo pregarono” perché sapevano che il suo intervento poteva essere risolutore. Gesù quindi operò come scrisse Isaia 750 anni prima della Sua venuta nel mondo in 53.4 quando scrisse “…eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori”.

Leggiamo che “comandò alla febbre”, altri traducono “sgridò la febbre”: non sappiamo quali parole usò, fatto sta che il Suo fu un comando pronunciato a voce alta e quella donna guarì istantaneamente: leggiamo “subito si alzò in piedi e li serviva”. La risposta a quella preghiera fu rapida, ma soprattutto inequivocabile come lo è qualsiasi intervento di Dio nei confronti nostri e di altri.

Per estensione, se la febbre naturale blocca le attività ordinarie dell’uomo, quella spirituale fa altrettanto e in un ambito più importante. Si contrae per ignoranza, per negligenza, trascuratezza, perché siamo esseri umani, di carne e può capitare che non sempre, per molte ragioni, siamo in grado di porre su noi stessi la vigilanza che dovremmo. Di qui l’importante contenuto della preghiera del “Padre Nostro” “non esporci alla tentazione”, traduzione più corretta rispetto a quella più usata, “non indurci”. Come cristiani, dovremmo avere il coraggio di riconoscere la nostra febbre, possibilmente quanto inizia appena ad insorgere, e chiedere a Dio l’aiuto per uscirne.

 

Ora la notizia di quella guarigione trapelò all’esterno e andò ad aggiungersi a quella della liberazione dell’indemoniato nella sinagoga fatta poco prima: era sabato, era proibito svolgere qualsiasi attività e per questo la gente attese, prima di portargli i malati nel prosieguo del racconto, che arrivasse il tramonto, cioè quando il giorno si concludeva e non si era più sotto il vincolo del quarto comandamento che è opportuno citare: “Ricordati del giorno di sabato per santificarlo. Sei giorni lavorerai e farai ogni tuo lavoro, ma il settimo giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: non farai alcun lavoro, né tu né tuo figlio né tua figlia, né il tuo schiavo o la tua schiava, né il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te” (Esodo 20.9,10). Ancora, Geremia 17.21,22 riporta “Così dice il Signore: per amor della vostra stessa vita, guardatevi dal trasportare un peso in giorno di sabato e di introdurlo per le porte di Gerusalemme. Non portate alcun peso fuori dalle vostre case in giorno di sabato e non fate alcun lavoro, ma santificate il giorno di sabato, come io ho comandato ai vostri padri”.

Rileggiamo ora i versi di Luca: “Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano anche demoni, gridando “Tu sei il Figlio di Dio!”. Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo”. Marco completa l’episodio: “Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano affetti da varie malattie e scacciò molti demoni, ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano” (1.32-33).

Credo sia importante porre la nostra attenzione su due elementi, cioè la differenza intercorrente fra il “tutta la città”, o i “tutti” e i “molti”, che non indicano la stessa cosa. Si radunò davanti alla porta della casa di Simone una quantità impressionante di gente a tal punto che si può dire che tutta la città di Capernaum era presente, malati e indemoniati compresi portati là dai parenti. Però non tutti quelli portati a Gesù guarirono, poiché Marco scrive “Guarì molti”, cioè non adottò un comportamento universale, ma selettivo proprio perché altrove abbiamo letto che “conosceva quel che c’è nell’uomo”. Ecco allora che Nostro Signore guarì coloro che erano vittime e non protagoniste della loro condizione di peccato. La guarigione di un peccatore infatti ha senso solo se questi è disposto a ravvedersi e non per comportarsi come se nulla fosse una volta guarito perché tornerebbe nella sua condizione di prima, se non peggiore. Anche oggi credo che il Signore sappia fare distinzioni tra chi è protagonista o vittima di un peccato, quindi di se stesso nel profondo a livello di volontà, e che agisca di conseguenza. La Sua lettura dei cuori infatti è la capacità di valutare, più che i pensieri presenti in esso, ciò che è nell’anima e lo spirito che muove la persona, vale a dire il suo passato e il suo presente. E sì, anche il futuro che ne è spesso la conseguenza.

Poi ci sono gli indemoniati, persone che si manifestavano con i loro disturbi apertamente, a differenza dell’anonimo che abbiamo visto nella Sinagoga. Qui direi che è obbligatoria una domanda: si può escludere che Marco e Luca abbiano fatto rientrare nella categoria degli indemoniati anche delle persone disturbate mentalmente? Non a priori poiché il campo delle scienze che si occupano della mente è oggi molto vasto e una gran quantità degli interrogativi di allora hanno trovato una spiegazione nelle neuroscienze e nella psichiatria, per quanto non tutte. Piuttosto, l’indemoniato va raccordato al contesto storico di allora, in cui la lontananza da Dio del popolo di Israele aveva causato loro gravi danni: ricordiamo che non avevano profeti da 350 anni, che la presenza stessa dei malati, dei paralitici, ciechi e altre categorie a vasto raggio erano i sintomi di un allontanamento da quel Dio che aveva promesso, in caso di fedeltà ai suoi comandamenti, l’assenza di quelle che chiamiamo “sventure” e di qualsiasi tipo di malattie. Nell’Antico Patto, una malattia in Israele era sempre il risultato di un peccato, mentre per gli altri popoli era piuttosto la conseguenza della loro condizione ereditata da Adamo, vale a dire un corpo soggetto ad ammalarsi, logorarsi e infine morire. La presenza degli indemoniati tra il popolo testimoniava, in fin dei conti, quanto fosse lontana la loro mente dall’attesa del Cristo promesso.

Oggi Satana agisce in coloro che glielo consentono e ne fa dei suoi strumenti come fu il caso di Giuda Iscariotha di cui a un certo punto, nell’ultima cena di Gesù con gli apostoli, è scritto: “E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariotha, figlio di Simone. E allora, dopo quel boccone, Satana entrò in lui” (Giovanni 26,27). Ciò va detto per non incorrere nell’errore di alcune Chiese i cui componenti tendono a vedere l’opera del demonio ovunque, anche nelle persone depresse dimenticando che la mente, al pari del corpo, può sempre ammalarsi e va curata.

Credo che ogni cristiano debba piuttosto meditare quanto scrive Giovanni nella sua prima lettera: “Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che noi vi annunciamo: Dio è luce e non vi è in lui tenebra alcuna. Se diciamo di essere in comunione con lui e camminiamo nelle tenebre, siamo bugiardi e non mettiamo in pratica la verità. Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri e il sangue di Gesù, il Figlio suo, ci purifica da ogni peccato. Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi” (1 Giovanni 5,10).

Tornando all’ultimo verso del nostro secondo episodio, leggiamo che i demoni lo qualificavano come Figlio di Dio, ma che Gesù non li lasciava parlare: erano testimoni di cui non aveva bisogno, inopportuni, che non avevano alcun diritto di qualificarlo in quel modo per quanto corrispondesse a verità. “Tu sei il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”, come gli disse Pietro, è una frase che compete alla persona che Lo riconosce come Unico riferimento per la propria salvezza eterna.

 

Il terzo momento descritto da Luca ci conferma le due nature di Gesù, che dopo i tre episodi, cioè la guarigione dell’indemoniato, della suocera di Pietro e dei molti indemoniati, si alzò presto per pregare, cioè chiedere al Padre l’assistenza di cui aveva bisogno come uomo; ricordiamo le parole “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato”, quel cibo che i suoi discepoli non conoscevano. Gli abitanti di Capernaum non potevano certo dimenticare le guarigioni del giorno precedente e si misero a cercarlo. I primi a fare questo furono i discepoli, poi seguiti dagli altri. Infatti Marco scrive “E Simone e quelli che erano con lui si misero sulle sue tracce. Lo trovarono e gli dissero «Tutti ti cercano»” (1.36,37): erano legati al fatto che dovesse restare lì, che avesse ancora molto da fare. Quelli di Capernaum però erano animati da un sentimento egoistico, come scrive Luca, perché “cercavano di trattenerlo perché non se ne andasse via” nel senso che volevano avere a loro disposizione quel Maestro così diverso dagli altri: prima doveva guarire le loro malattie e poi gli insegnare la Scrittura nella Sinagoga. Doveva essere motivo di vanto per Capernaum, città sulla quale poi pronuncerà una maledizione. Fu il loro un comportamento diverso da quello dei samaritani che abbiamo letto da poco, in cui Giovanni non riferisce di miracoli fatti in mezzo a loro, anche se non possiamo escludere che non siano avvenuti. I samaritani accolsero Gesù “con gioia”, a Capernaum inizia la volontà, non molto velata, di farne un condottiero politico o uno strumento di richiamo per la città al punto che più avanti, quando si recherà a Nazarth, i suoi concittadini pretendevano che facesse presso di loro gli stessi miracoli che aveva fatto là.

Su Capernaum Gesù formulerà un giudizio importante: “…e tu, Capernaum, sarai forse innalzata fino al cielo? Precipiterai fino agli inferi! Perché, se a Sodoma fossero avvenuti i prodigi che sono stati in mezzo a te, oggi essa esisterebbe ancora! Ebbene io vi dico, nel giorno del giudizio la terra di Sodoma sarà trattata meno duramente di te” (Matteo 11.22-24).

Gesù però non poteva accettare i sentimenti che animavano i suoi nuovi concittadini e, come lui stesso dice, la sua predicazione non poteva essere contenuta in un perimetro limitato, ma avrebbe dovuto essere per tutto il popolo di Israele: “È necessario che io annunci la buona notizia del regno anche alle altre città; per questo sono stato mandato”. Quindi, Luca dà un accenno su un periodo ulteriore: “E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea”, che altre versioni indicano più correttamente nella Galilea dove si trovava. Un cammino che diversi commentatori hanno ritenuto abbia compiuto da solo.

* * * * *

3.02 – L’INDEMONIATO NELLA SINAGOGA DI CAPERNAUM (Luca 31.37))

3.02 – L’indemoniato nella Sinagoga di Capernaum (Luca 4.31-37)

 

31Poi scese a Cafàrnao, città della Galilea, e in giorno di sabato insegnava alla gente. 32Erano stupiti del suo insegnamento perché la sua parola aveva autorità. 33Nella sinagoga c’era un uomo che era posseduto da un demonio impuro; cominciò a gridare forte: 34«Basta! Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei: il santo di Dio!». 35Gesù gli ordinò severamente: «Taci! Esci da lui!». E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male. 36Tutti furono presi da timore e si dicevano l’un l’altro: «Che parola è mai questa, che comanda con autorità e potenza agli spiriti impuri ed essi se ne vanno?». 37E la sua fama si diffondeva in ogni luogo della regione circostante”.

Di questo episodio parlano Luca e Marco, che integra il racconto con una annotazione: “…erano stupiti dal suo insegnamento: Egli insegnava loro come uno che ha autorità, e non come gli scribi” (1.22). Come abbiamo anticipato nello scorso episodio, la guarigione dell’indemoniato fu il primo dei sette miracoli compiuti da Gesù in giorno di sabato ed avvenne in una Sinagoga a sottolineare la continuità fra Antico e Nuovo Patto. Il contenuto della Sua predicazione fu probabilmente graduale: parlando a tutti, quindi in gran parte al popolo e poi agli eventuali dottori presenti, partiva dalle Scritture che lo riguardavano e le aggiornava, mostrando i veri contenuti della Legge e dei Profeti. Ma soprattutto la Legge, che secondo l’insegnamento dell’apostolo Paolo “possiede soltanto l’ombra dei futuri beni e non la realtà stessa delle cose”, andava esposta, commentata in modo tale da condurre il popolo a Lui.

Nello scorso capitolo ho accennato al fatto che a Capernaum inizia un tempo nuovo, un periodo di insegnamento e di dedizione totale alla creatura e lo vedremo nei miracoli, negli insegnamenti, nei segni di Cristo. Ora Credo che il Suo insegnamento consistesse appunto in questo: ampliare la conoscenza in merito agli avvenimenti e ai precetti che molti, se non tutti, conoscevano in modo limitato e freddamente osservante.

L’obiettivo di Gesù era quindi da un lato quello di portare in luce ciò che era in ombra, dall’altro dimostrare inconfutabilmente che, attraverso i segni che compiva e avrebbe compiuto, aveva un’autorità che procedeva da Dio, ciò per condurre gli uomini a riconoscerlo come il Figlio di Dio nel quale il Padre si era compiaciuto. Non era infatti lontano il tempo in cui, parlando nella Sinagoga di Nazareth e commentando Isaia dirà “Oggi si è compiuto quello che voi avete ascoltato” (Luca 4.21), facendo esplicito riferimento a se stesso. Insegnando nella Sinagoga, già provocava nella gente un senso di rispetto e di edificazione perché si distingueva da chiunque nell’esporre: era la sua consacrazione e la conseguente relazione che aveva con il Padre che produceva quell’insegnamento autorevole così distante da quello degli scribi che si limitavano a discorsi basati su concetti religiosi, osservanti l’estensione della tradizione orale così lontana dall’amare “il Signore Iddio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e tutta la tua mente”; ciò produceva un’esposizione magari accademica, ma certo non in grado di dissetare l’anima perché mancava l’acqua viva che doveva sgorgare. Luca 4.14 ha scritto “Insegnava nello loro sinagoghe e tutti gli rendevano lode”, cosa impossibile senza questa caratteristica. Anche oggi chi insegna il Vangelo dovrebbe essere in grado di presentarlo con l’autorità che deriva dall’esperienza, dall’aver provato prima di tutto i benefici della Grazia su di sé piuttosto che percorrere i sentieri della storia e della tradizione, a meno che non sia strettamente necessario e limitatamente all’inquadramento nel tempo di un determinato personaggio o corrente.

Qual era la destinazione, l’obiettivo a lunga scadenza che Gesù si prefiggeva? Dare la sua vita perché gli uomini credessero in Lui e si salvassero. Così Paolo in Ebrei 10.11-14: “Ogni sacerdote si presenta giorno per giorno a celebrare il culto e a offrire molte volte gli stessi sacrifici, che non possono mai eliminare i peccati. Cristo, invece, avendo offerto un solo sacrificio per il peccato, si è assiso per sempre alla destra di Dio, aspettando ormai che i suoi nemici vengano posti a sgabello dei suoi piedi. Infatti, con un’unica offerta, egli ha reso perfetti per sempre quelli che vengono santificati”.

Salvare l’uomo significa sottrarlo a Satana in vista del giudizio futuro su di lui e questo è uno dei motivi per cui lo spirito immondo, come abbiamo letto, gli si rivolterà contro. E qui abbiamo il primo dato: un vero insegnamento, fosse anche una semplice frase di natura spirituale, non può che generare una reazione in positivo o in negativo. In quella Sinagoga Luca e Marco ci dicono che c’era un uomo posseduto da uno spirito immondo di cui probabilmente nessuno si era mai accorto perché, in caso di comportamento sconnesso, gli sarebbe stato impedito l’accesso: frequentava allora le riunioni in quell’edificio probabilmente con regolarità e non aveva mai dato adito a preoccupazioni o provvedimenti tali da escluderlo dalla comunità. Ecco allora che quell’uomo frequentava l’assemblea sentendosi a suo agio tra le preghiere formali e gli insegnamenti frutto della scienza scritturale umana proposta dagli scribi. Anche oggi sono tanti quelli che frequentano i radunamenti di Chiesa per lavare le loro coscienze, oppure per sentirsi a posto senza pensare al Corpo di Cristo al quale appartengono. La Chiesa non è costituita da membri isolati gli uni dagli altri, ma da persone che interagiscono tra loro per un bene comune. In pratica sono un corpo solo, ciascuno con una funzionalità precisa. Chiamati fuori da un mondo che non riconosce Dio, rischiano di chiudersi dentro loro stessi, attratti più da eventuali riti e atteggiamenti esteriori più che dal vivere assieme in Cristo.

Ma torniamo all’episodio: non resta che concludere che la presenza di Gesù e le sue parole su un brano di scrittura specifico abbiano provocato nel demone che abitava quella persona anonima la reazione che abbiamo letto. Penso che Gesù abbia affrontato un passo impegnativo, come del resto tutti quelli che coinvolgono l’osservanza spirituale di un comandamento, quello che c’è dietro, le sue profonde implicazioni, della Legge o di una profezia sul trionfo del Messia sul peccato, su Satana e i suoi angeli. Prestiamo ora attenzione alle parole di Giacomo, fratello di Gesù nella sua lettera: “Tu credi che c’è un solo Dio? Fai bene, anche i demoni lo credono e tremano” (2.19). I demoni, come ha spiegato Giacomo, hanno due caratteristiche: la prima è che credono – ma per questo non sono salvati – perché lo hanno visto e conosciuto il Suo primo giudizio; la seconda è il tremare, verbo che ha come suo secondo significato l’essere in uno stato di agitazione, di ansia, di paura interiore.

I demoni infatti sanno che un giorno Satana avrà il capo schiacciato dalla progenie della donna e che il loro destino sarà l’essere gettati nello stagno di fuoco e di zolfo con lui, ma non quando. Ecco il perché della frase che quello spirito, che fino a quel momento era rimasto silente accontentandosi di vivere in quell’uomo dominandolo, ha una reazione che si caratterizza con delle frasi che iniziano quasi con un imperativo: “Basta!”, che tuttavia è più corretto tradurre con “Lasciaci” o con un grido, “Ah!”. Marco scrive infatti “diede in grido” (1.23). Quel demone non tollerava prima di tutto di ascoltare un insegnamento di vera dottrina perché, se lo Spirito convince di peccato, quella predicazione generava in lui un cortocircuito. La presenza e le parole di Gesù erano diventate letteralmente intollerabili.

Se l’intento di Satana è tenere l’uomo all’oscuro della verità in modo che l’uomo non giunga alla salvezza e di compromettere nella maniera più grave possibile il rapporto dei credenti, non poteva tollerare quelle parole di vita che, per lui, erano di morte. L’apostolo Giovanni, nella sua prima lettera in 3,8, scrive che “Gesù è venuto per distruggere le opere del diavolo“.

Lo spirito impuro, inoltre, si considerava un tutt’uno con la persona che occupava, la considerava già una sua proprietà e, infatti, parla al plurale, “Che vuoi da noi (…) sei venuto a rovinarci?”. Da qui possiamo fare un’altra riflessione: per possedere quella persona, vale a dire la sua anima e il suo spirito, voleva dire che la stessa glielo aveva permesso con un comportamento non consono alla Scrittura, in particolare nei confronti della Legge, con una ribellione sistematica a uno o più comandamenti, quel decalogo dato agli uomini per evitare che offendessero Dio. Dei dieci, diversi da quello che è insegnato nel catechismo della Chiesa di Roma, ne abbiamo quattro che riguardano la relazione con Dio (1. Non avere altri dèi oltre a me – 2. Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra, non ti prostrare davanti a loro e non li servire – 3. Non pronunciare il nome del Signore, tuo Dio, invano – 4. Ricordati del giorno di riposo per santificarlo) e sei sono norme comportamentali tra simili che vanno a danneggiare uno o più soggetti in modo tale da rendere impossibile un contatto con Lui: “5. Onora tuo padre e tua madre – 6. Non uccidere – 7. Non commettere adulterio – 8. Non rubare – 9. Non attestare il falso contro il tuo prossimo – 10. Non desiderare la casa del tuo prossimo, non desiderarne la moglie né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue né il suo asino, né cosa alcuna del tuo prossimo”.

Ora va fatta molta attenzione: i punti in cui quella persona era mancante alla luce del decalogo poteva riguardare il settimo comandamento “Non commettere adulterio” o l’ottavo “Non rubare”, azioni che possono diventare continuative, abitudinarie perché suscettibili, soddisfacendo la carne, ad essere continuate nel tempo e a coperte da una coscienza di per sé impura. Entrambe le infrazioni, poi, sono la conseguenza della coltivazione del decimo comandamento relativo al non desiderare ciò che è di altri, azione che non implica la semplice, bonaria invidia che porta ad esempio un uomo che manca di certe cose accessorie a considerare un suo simile fortunato perché invece le possiede e lì si ferma.

La pratica abituale del trascurare i comandamenti di Dio, soprattutto quelli che possono essere difficilmente scoperti, porta l’uomo a porsi in contrapposizione con Lui, ad adagiarsi su un sistema religioso fatto da uomini: “tanto nessuno mi vede”. Frequentando la Sinagoga, quell’uomo aveva trovato un compromesso e da un lato il recarsi alle riunioni soddisfaceva il suo senso religioso, quindi carnale. Era una situazione da sdoppiamento della persona, che si comportava ora in un modo ora in un altro senza alcun problema.

A questo punto occorre precisare che lo spirito impuro aveva trovato un terreno quanto mai fertile in quella persona per potersi stabilire al suo interno: l’innominato indemoniato aveva finito per diventare una vittima delle proprie concupiscenze materiali e paradossalmente aveva trovato un equilibrio nella sua incontinenza. Solo di fronte alla responsabilizzazione vista nella predicazione di Nostro Signore fu possibile una reazione perché l’impurità non può reggere di fronte alla santità di Dio che la giudica e condanna.

Che vuoi da noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci? Io so chi tu sei, il Santo di Dio!” (v.34): vediamo che prima lo chiama “Nazareno”, in tono evidentemente spregiativo per denigrarlo davanti ai presenti che sapevano quanto fossero rozzi gli abitanti di quella città; poi abbiamo la domanda “Sei venuto a rovinarci?”, che in un altro episodio altri demoni aggiungeranno “prima del tempo?”.

Ecco, qui intervenire Giuda nella sua lettera ai versetti 5 e 6 che scrive “A voi che conoscete tutte queste cose, voglio ricordare che il Signore, dopo aver liberato il popolo dalla terra d’Egitto, fece poi morire quelli che non vollero credere e tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del grande giorno, gli angeli che non conservarono il loro grado ma abbandonarono la propria dimora”: sono catene che non li bloccano nella loro attività, ma non consentono loro di andare oltre a un certo punto, non hanno piena autonomia. Ecco perché possono agire solo in quei contesti in cui viene loro dato uno spazio.

E questo episodio ci insegna una realtà sulla persona indemoniata: il problema non è se indemoniato sia il malato mentale o chi ha problemi psichici che a volte la psicoterapia o le cure farmacologiche sono in grado di aiutare, ma l’uomo che, col suo comportamento, consente di lasciarsi dominare da istinti e forme di ragionamento che a lungo andare consentono a uno spirito immondo di abitarlo. Non tutti quelli che si comportano come l’indemoniato di Capernaum a livello di infrazioni ai comandamenti sono effettivamente tali, ma l’episodio ci insegna che questo è possibile. Non è un ragionamento superstizioso, anzi è un’estensione delle parole di Gesù a proposito di due realtà, entrambe attinenti al nostro caso.

In Luca 16.13 leggiamo che “Nessuno può servire a due padroni, perché o odierà l’uno e amerà l’altro, oppure si affezionerà all’uno e disprezzerà l’altro”. Da questo importante passo rileviamo che l’uomo, che si ritiene autonomo e si proclama libero, in realtà è e rimane un servo; è l’entità con la quale si relaziona che determina il suo carattere e l’a chi sono rivolti i suoi pensieri.

La seconda ci è data per descrivere lo stato di una persona liberata dallo spirito immondo, che non può rimanere da sola, ma iniziare un cammino che abbia Cristo come fondamento: “Quando lo spirito impuro esce dall’uomo, si aggira per luoghi aridi cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice «Ritornerò da dove sono uscito». E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora e l’ultima condizione di quell’uomo diventa peggiore della prima” (Matteo 12.43-45).

 

C’è una terza frase che lo spirito impuro pronuncia pubblicamente: “Io lo so chi sei, il Santo di Dio!”: non riconosce Gesù come profeta generico, ma gli dà quel titolo conosciuto dal popolo come Colui che doveva arrivare, era un titolo non morale, ma ufficiale e preciso che quello spirito non poteva pronunciare: se lo fece, era solo per evidenziare che il tempo per la sua fine non era ancora giunto e voleva essere lasciato stare, libero di occupare quell’uomo.

Satana conosce il suo destino, ma sa anche che prima della sua definitiva sconfitta avrà modo di sedurre “perfettamente” gli uomini degli ultimi tempi, quando si manifesterà tramite un sistema politico (la Bestia) e con un suo rappresentante – un presidente? – chiamato “falso profeta”: “Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti verrà l’apostasia e si rivelerà l’uomo della perdizione, l’avversario, colui che si innalza sopra ogni essere chiamato e adorato come Dio, fino a insediarsi nel tempio di Dio, pretendendo di essere Dio” (2 Tessalonicesi 2.3). Riconoscere in Gesù “Il Santo di Dio”, che costituisce per l’uomo salvezza, qui ha per conseguenza la proibizione di parlare e l’ordine di uscire da quell’uomo.

A questo punto il resoconto di Luca e di Marco sono diversi: Luca scrive “E il demonio lo gettò a terra in mezzo alla gente e uscì da lui, senza fargli alcun male”, mentre Marco “E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui” (1.26). Mi sono chiesto il perché di questi punti di vista, apparentemente contraddittori perché tra lo straziare fortemente e il non fare alcun male esiste differenza. Luca esamina il fatto dal punto di vista medico e, considerato il fatto che quell’uomo ritornò in sé, pone l’accento sulla sua guarigione: non riportò fratture, sanguinamenti, tornò in sé. Marco, che ebbe Pietro come fonte primaria sicuramente presente nella Sinagoga, mette invece l’accento sulla sofferenza spirituale di quell’uomo. “Straziandolo forte” si riferisce probabilmente alla sofferenza che lo spirito impuro gli provocò, sofferenza psichica e morale: lo gettò a terra e con convulsioni. Un tentativo di rivalsa di fronte all’abbandono che gli era stato ordinato.

Sono senz’altro da citare le parole che un caro fratello scrisse un giorno: “Ecco un’importante verità alla quale tutti i credenti devono prestare la massima attenzione: quando noi consegniamo a Satana parte della nostra mente o del nostro corpo, ricordiamoci che, pur se aiutati, protetti e salvati da Gesù, prima di lasciarci il male cercherà di umiliare la nostra vita senza pietà come fece proprio con l’anonimo posseduto”. “Senza pietà”, sentimento che non appartiene né a Satana, né ai suoi angeli, siano essi spiriti immondi o esseri definiti “umani”.

L’episodio si conclude col timore che si impossessò dei presenti, abituati ad assemblee regolate da un susseguirsi di eventi senza che nulla le turbasse: non poteva essere altrimenti. Tuttavia il fatto generò delle domande importanti perché all’insegnamento con autorità di Gesù era subentrata la dimostrazione del suo dominio sugli spiriti a Lui contrari: “Che parola è mai questa, che comanda con autorità agli spiriti impuri, ed essi se ne vanno?”.

Marco scrive invece “Che è mai questo? Un insegnamento nuovo, dato con autorità – notare il termine “nuovo” –. Comanda persino agli spiriti impuri, ed essi gli obbediscono” (1.27). Con quest’ultima frase, i presenti confessano di non aver mai visto niente di simile, soprattutto gli anziani che probabilmente avevano anche visto spiriti impuri all’opera senza che nessuno avesse potuto far niente per scacciarli e farsi ubbidire da loro. Solo Gesù c’era riuscito, a conferma di essere l’unico liberatore possibile.

* * * * *

3.01 – UN TEMPO NUOVO (Vari autori)

3.01 – Un tempo nuovo (vari).

 

Con la venuta di Gesù in Galilea ci raccordiamo a Marco 1.14,15 che dice “Ora, dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù venne in Galilea predicando il Vangelo del Regno di Dio e dicendo «Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino. Ravvedetevi e credete al Vangelo”».

Matteo 4.13,17 scrive “Poi lasciò Nazareth e venne ad abitare a Capernaum, città posta sulla riva del mare, ai confini di Zabulon e Neftali. Affinché si adempisse ciò che fu detto dal profeta Isaia quando scrisse «Il paese di Zabulon, il paese di Neftali, sulla riva del mare, in regione al di là del Giordano, la Galilea dei Gentili, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce, e su coloro che giacevano nella regione e nell’ombra della morte si è levata una gran luce». Da quel tempo Gesù cominciò a predicare e a dire: «Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino»”.

            Luca conferma l’attività di Gesù scrivendo che “…Gesù, nella potenza dello Spirito, se ne tornò in Galilea e la sua fama si sparse per tutta la regione circostante. Ed Egli insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.14,15).

 

Entriamo in un nuovo periodo dell’attività di Gesù, un tempo nuovo che, almeno secondo la visione che ho avuto del Vangelo, inizia quando Gesù venne ad abitare a Capernaum, città posta sulle rive del lago, o mare di Galilea, detto anche di Tiberiade prendendo il nome dalla città costruita da Erode Antipa in onore di Tiberio Claudio Nerone nell’anno 20 circa. Capernaum era posta sulla riva del lago e da lei passavano le vie principali che dall’Egitto portavano in Siria e da Gerusalemme a Damasco. Gesù poteva così non solo incontrarsi con persone con cui non avrebbe mai potuto avere a che fare restando nella lontana Nazareth, ma da lì potevano essere diffuse nelle regioni circostanti le notizie dei suoi miracoli e i contenuti, seppur a grandi linee, della sua predicazione. Se nessuno poteva fare i segni che faceva se Dio non era con lui, come riconobbe Nicodemo, va da sé che alle notizie dei miracoli non si accompagnassero resoconti più o meno particolareggiati delle sue parole e dei suoi commenti alle Scritture esposti nelle Sinagoghe.

Da Capernaum, inoltre, Gesù poteva visitare più facilmente le città della Galilea senza contare che, usando una barca, poteva avere accesso alle città che si affacciavano sul lago e raggiungere così la Traconitide, la Perea e la Decapoli. Matteo, coprendo uno spazio temporale rilevante, ci dice “La Sua fama si diffuse per tutta la Siria e conducevano a lui tutti i malati tormentati da varie malattie e dolori, indemoniati, epilettici e paralitici, ed Egli li guarì. Grandi folle cominciarono a seguirlo dalla Galilea, dalla Decàpoli, da Gerusalemme, dalla Giudea e da oltre il Giordano” (4.24,25).

Matteo collega l’abitare di Gesù a Capernaum con l’adempimento della profezia di Isaia in 8.23 e 9.1,2 che quanti conoscevano non potevano non collegare al suo seguito, che l’evangelista non riporta: “Perché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato. Sulle sue spalle è il potere e il suo nome sarà: Consigliere mirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace. Grande è il suo potere e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul suo regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e per sempre” (Isaia 9.5,6). Notiamo i verbi, “nato” e “dato” che riassumono il periodo della vita di Gesù, “nato”, venuto al mondo come tutti gli altri uomini, e offerto, “dato”, in sacrificio per loro. Ai lettori ebrei che non ignoravano il libro di Isaia, Matteo offre un’altra possibilità di connessione, vale a dire con 11.2-4: “Su di lui si poserà lo Spirito del Signore – in forma di colomba e non solo – Spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e timore del Signore. Si compiacerà nel timore del Signore. Non giudicherà secondo le apparenze e non prenderà decisioni per sentito dire, ma giudicherà con giustizia i poveri e prenderà decisioni eque per gli oppressi del paese”.

 

Ho intitolato queste riflessioni “Un tempo nuovo”, preferendo “tempo” a “periodo”, parola forse più immediata ma che avrebbe definito in misura minore le implicazioni del prendere residenza in quella città. La profezia di Isaia riportata da Matteo che abbiamo letto è la settima usata in quel Vangelo, a sottolineare la pienezza dell’opera di Dio e a sottindendere che tutto quanto fatto da Gesù prima di allora era stato compiuto in maniera perfetta. Sappiamo che il settimo giorno, di riposo per quell’entità perfetta riassunta nel tetragramma YHWH, avvenne dopo la constatazione che “tutto era molto buono”. “Tempo nuovo” perché da Capernaum inizierà una predicazione pressoché ininterrotta consistente in insegnamenti, dottrina, miracoli e guarigioni.

Ricordiamo le profezie precedenti di Matteo:

 

  1. La nascita da una vergine, fatto tecnicamente impossibile senza l’opera dello Spirito Santo. Gesù non poteva avere un DNA unicamente umano, essere figlio carnale di Maria e Giuseppe, perché altrimenti non avrebbe potuto essere al tempo stesso Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo. Fu quello, oltre alla vittoria sul peccato, che lo fece risorgere. Il numero uno, come prima profezia, ci parla di un’esistenza autonoma, santa, non competente all’uomo che, piuttosto, trova la sua dimensione nei numeri pari. L’uno è l’esistere pieno, il tutto, l’autosufficienza, in poche parole l’“io sono colui che sono”;
  2. La nascita di Gesù a Betlehem, l’unica che avrebbe potuto dare i natali al “Capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele”. Non a caso abbiamo questo annuncio al secondo posto: è l’uomo Gesù che viene al mondo, perfetto connubio di due nature, umana e divina. Il due è condivisione e soccorso (“se uno cade l’altro lo rialza”), ma anche separazione vista nell’appartenere a Cristo oppure no, di scelta.
  3. Il ritorno in Israele dalla fuga in Egitto perché Erode il Grande voleva ucciderlo, “Dall’Egitto ho chiamato mio Figlio”. Terza profezia, tre come numero proprio di Dio e che ci questo caso ci parla di quanto sia inutile, oltre che controproducente, ostacolare i suoi piani che si realizzano e realizzeranno comunque;
  4. Il grido udito in Rama, la strage degli innocenti in cui Satana, cui Erode il Grande esattamente come col Faraone molti secoli prima aveva dato spazio nella sua persona, commise uno dei tanti suoi crimini. Il quattro è un numero che ha sempre riferimento alla materia e, in questo caso, a quanto avvenuto ad opera dell’avversario e quindi del peccato.
  5. L’abitare per circa 30 anni a Nazareth perché “Sarà chiamato Nazareno” con l’evidente riferimento, più che alla città dalla quale non poteva venire nulla di buono secondo le parole di Natanaele – Bartolomeo, al Germoglio che sarebbe uscito dal tronco di Jesse, padre di Davide da cui Gesù discendeva sia da parte di padre che di madre. Il cinque, numero intermedio, ci parla di uno stato che porta ad una progressione, ad uno sviluppo nelle mani di Dio e alla sua Grazia. Cinque è 4+1, cioè un dono di Dio aggiunto alla realtà dell’uomo.
  6. La persona e l’opera di Giovanni Battista, visto nella “Voce d’uno che grida nel deserto”. Da notare anche qui il numero sei, che sottintende l’uomo nella sua imperfezione e incompletezza se rimane da solo, dell’uomo che ha bisogno dell’”Uno” di Dio per completarsi. Solo se Giovanni avesse annunciato Gesù secondo l’insegnamento ricevuto nel deserto, come fece, avrebbe davvero assolto al compito lui affidatogli. Ricordiamo, a proposito della completezza, quel giovane ricco che voleva seguire Gesù che si sentì dire “Una cosa sola ti manca: va’, vendi ciò che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi” (Marco 10.21): al suo “6” mancava un “1” per essere perfetto.
  7. Terra di Zabulon e terra di Neftali, il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce”. Settimo passo citato, punto di arrivo e di partenza verso altre destinazioni spirituali. Arrivando a Capernaum Gesù conclude e inizia un periodo della sua vita, che fin qui ho cercato di sviluppare a grandi linee, per iniziarne uno nuovo e lo farà predicando nelle Sinagoghe e chiamando ufficialmente a sé coloro che diventeranno i suoi primi quattro apostoli (Natanaele in un certo senso era già stato chiamato nel breve dialogo riportato da Giovanni, “Vedrai cose più grandi di queste”).

 

Come tutta la creazione, l’universo, iniziò con la luce, allo stesso modo l’universo spirituale e nuovo iniziava con la “gran luce” vista dal popolo che abitava quelle terre, toccate in sorte alle due tribù di Zabulon e Neftali, rispettivamente la nona e la decima. Parte di questo territorio, quella settentrionale, era chiamato “La Galilea dei gentili” a motivo della sua prossimità con la Siria e la Fenicia e al fatto che pare che la popolazione fosse in parte un misto di ebrei e gentili. Ma in quali tenebre giaceva il popolo, a parte l’ovvio, inevitabile riferimento alla sua lontananza da Dio? Leggiamo due elementi negativi, “tenebre” e, da traduzione più corretta “nella regione e nell’ombra della morte”, riferita non alla Giudea, ma alla Galilea con particolare riguardo alle terre di Zabulon e Neftali. Le tenebre sono nella Scrittura una figura familiare per rappresentare non solo l’ignoranza e l’errore, ma la depravazione e la miseria morale e intellettiva di cui sono il frutto, la conseguenza: non possono esservi le une senza le altre. Ricordiamo le parole dell’apostolo Paolo che, con grande umiltà e verità, descrisse il suo passato: 12Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù”. (1 Timoteo 1.12-14).

La luce si è levata su quel paese che, paradossalmente, avrebbe dovuto avere molte più difficoltà rispetto ai giudei nel riconoscerla, perché era lì che si era sviluppato lo studio della Legge, in Gerusalemme si esercitava il sacerdozio e si offrivano i sacrifici nel Tempio. I galilei erano considerati più corrotti e ignoranti dei giudei. “Una luce si è levata”, quella del Cristo, il solo a potere rivelare l’amore e la volontà del Padre e a compierla.

Proseguendo nella lettura di Matteo, questi riporta il senso della predicazione di Gesù, che sintetizza con parole familiari: “Ravvedetevi, perché il Regno dei cieli è vicino”, le stesse che diceva Giovanni Battista. Marco, invece, scrive “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino: convertitevi e credete nel Vangelo”, frase che merita un breve approfondimento perché non può esservi conversione senza credere nel Vangelo nel suo senso etimologico di “buona notizia”, la sola di cui l’uomo ha bisogno. E la buona notizia era proprio che finalmente Dio recuperava ciò che altrimenti sarebbe stato perduto, la sua creatura. “Il tempo è compiuto” cioè “Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (Galati 4.4). E “Il Regno di Dio è vicino” significa che sarebbe stato imminente, sarebbe stato prima “dentro di voi” e in futuro si sarebbe caratterizzato con la sconfitta di Satana, gettato nello stagno di fuoco coi suoi angeli, termine che ha riferimento sia con gli esseri spirituali che lo seguirono, ma anche con tutti quegli uomini che gli dettero spazio perché si potesse servire di loro. Ecco perché chi sentiva le parole di Gesù avrebbe dovuto credere nel Vangelo, quindi in Lui. Credere nel Vangelo implica un profondo ravvedimento, il sapere che così come si è, si agisce, si pensa, può condurre solo alla morte. Di qui il collegamento con le tenebre e la scelta di rimanere in loro fatta dalla maggior parte degli uomini: “Ma gli uomini hanno amato le tenebre più della luce”, verso su cui ci siamo già soffermati in breve.

Tornando ai versi che descrivono l’attività di Gesù in Galilea, che Matteo e Marco sintetizzano con l’accennare alla predicazione della necessità del ravvedersi e nel credere al Vangelo, Luca aggiunge un altro particolare: “Insegnava nelle loro sinagoghe, essendo onorato da tutti” (4.15). Perché è un particolare non marginale? Innanzitutto per la Sinagoga, parola che etimologicamente è formata da syn, insieme, e aghèin, condurre, portare. È un termine che quindi allude a un cammino comunitario e il verbo synàgo significa “radunare”. La sinagoga era ed è tuttora un luogo di preghiera e di istruzione religiosa; le sue adunanze si tenevano ogni sabato mattina e pomeriggio, ma anche in altri giorni; era proibito agli ebrei risiedere in luoghi ove la sinagoga non vi fosse e la sua esistenza era condizionata dalla presenza di non meno di dieci persone, al contrario della Chiesa che ne prevede dalle due o tre. Infatti “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18.20). Se la sinagoga era un luogo di preghiera e di lettura, la Chiesa radunata ha la presenza del Signore Gesù: è “in mezzo”, “tra” di loro come un familiare visto nella frase “Ecco, io sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Apocalisse 3.20). Si tratta di una frase particolare, detta all’Angelo della Chiesa di Laodicea sulla quale, se ci soffermassimo, andremmo fuori tema; tuttavia è interessante notare l’atteggiamento così diverso del Dio giudice inflessibile e tremendo dell’Antico Patto e quello aperto alla comprensione e al perdono del Nuovo: si tratta infatti di parole rivolte a quei credenti che hanno bisogno di ravvedersi ancora perché hanno contristato lo Spirito con una condotta non consona alla loro fede e vivono una condizione per cui sono definiti “tiepidi”.

Ma torniamo alla Sinagoga. La dinamica delle riunioni al suo interno era la seguente: prima vi era lo “Shemà”, (“Ascolta”) che si caratterizzava con la lettura di tre passi del Pentateuco, al quale seguivano una serie di diciotto brevi preghiere che esprimevano adorazione, sudditanza e speranza verso il Dio d’Israele, dopo di che si procedeva alla lettura e spiegazione dei testi sacri, vale a dire la Torà (il Pentateuco) suddivisa in 154 sezioni di modo che veniva letta integralmente in tre anni, e poi i Profeti, cioè i libri da Giosuè in poi. Terminata la lettura, in ebraico e nella lingua di allora che era l’aramaico, seguiva un commento istruttivo che poteva essere tenuto da chiunque tra i presenti giudicati più adatti dal responsabile locale.

Nella pratica chi svolgeva tale ufficio, visto che era richiesta una conoscenza dei testi, era uno scriba o un fariseo, ma Luca ci dice che era Nostro Signore a prendere la parola, o chiamato dal responsabile della Sinagoga o di sua iniziativa visto che ciò era consentito. L’adunanza terminava poi con la benedizione sacerdotale, che recitava il testo di Numeri 6.24-26: “Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga verso di te il suo volto e ti conceda pace”. I presenti rispondevano “Amen”. Proprio nella sinagoga di Capernaum Gesù compirà il suo primo miracolo dei sette in giorno di sabato, oggetto della nostra prossima riflessione.

* * * * *

 

02.16 – IL FIGLIO DEL FUNZIONARIO REALE (Giovanni 4.43-54)

2.15 – Il figlio del funzionario reale (Giovanni 4.43-54)

43Trascorsi due giorni, partì di là per la Galilea. 44Gesù stesso infatti aveva dichiarato che un profeta non riceve onore nella propria patria. 45Quando dunque giunse in Galilea, i Galilei lo accolsero, perché avevano visto tutto quello che aveva fatto a Gerusalemme, durante la festa; anch’essi infatti erano andati alla festa.46Andò dunque di nuovo a Cana di Galilea, dove aveva cambiato l’acqua in vino. Vi era un funzionario del re, che aveva un figlio malato a Cafàrnao. 47Costui, udito che Gesù era venuto dalla Giudea in Galilea, si recò da lui e gli chiedeva di scendere a guarire suo figlio, perché stava per morire. 48Gesù gli disse: «Se non vedete segni e prodigi, voi non credete». 49Il funzionario del re gli disse: «Signore, scendi prima che il mio bambino muoia». 50Gesù gli rispose: «Va’, tuo figlio vive». Quell’uomo credette alla parola che Gesù gli aveva detto e si mise in cammino. 51Proprio mentre scendeva, gli vennero incontro i suoi servi a dirgli: «Tuo figlio vive!». 52Volle sapere da loro a che ora avesse cominciato a star meglio. Gli dissero: «Ieri, un’ora dopo mezzogiorno, la febbre lo ha lasciato». 53Il padre riconobbe che proprio a quell’ora Gesù gli aveva detto: «Tuo figlio vive», e credette lui con tutta la sua famiglia. 54Questo fu il secondo segno, che Gesù fece quando tornò dalla Giudea in Galilea”.    

La collocazione di questo episodio pone problemi cronologici più apparenti che reali ed è riportato da Giovanni che, come abbiamo letto al verso 44, cita le parole di Gesù a proposito del profeta che non riceve onore nella propria patria, detta quando si troverà a Nazareth in un contesto particolare, cioè quando i suoi concittadini lo disprezzeranno dopo il suo discorso nella locale sinagoga. Ricordiamo Luca 4.23-24 “Certamente voi mi citerete questo proverbio: «Medico, cura te stesso, tutto ciò che abbiamo udito essere avvenuto in Capernaum, fallo anche qui nella tua patria». Ma egli disse «In verità vi dico che nessun profeta è bene accetto nella sua patria»”.

In realtà, guardando la cartina della Giudea, Samaria e Galilea, possiamo vedere che l’itinerario del Signore, quando dopo due giorni lasciò la regione di Samaria, toccò proprio Cana (dopo Nain) per prima; Capernaum e Nazareth erano più distanti e non potevano essere raggiunte se non passando per questa cittadina in cui Gesù era conosciuto per il miracolo alle nozze, ma anche perché molti galilei che avevano compiuto il pellegrinaggio a Gerusalemme erano presenti sia quando erano stati cacciati i mercanti dal tempio ed erano avvenuti dei miracoli. Ricordiamo infatti le parole lette in Giovanni 2.23 “Ora, mentre Egli si trovava in Gerusalemme per la festa della Pasqua, molti credettero nel suo nome vedendo i segni che faceva”.

Così come l’itinerario di Gesù per raggiungere la Galilea avrebbe potuto essere diverso (ma così non fu perché doveva incontrare la donna samaritana e i suoi conterranei), raggiungendo Cana sapeva che in quella regione c’era un padre, a Cafàrnao o Capèrnaum, distante 40 km circa, in angoscia per il proprio figlio, gravemente ammalato. Il termine greco utilizzato per descrivere la qualifica di quell’uomo è basilikòs che nelle opere di Giuseppe Flavio indica un funzionario civile o militare così come un dignitario di qualche casa reale come ad esempio Cuza, la cui moglie Giovanna farà parte delle donne al seguito di Gesù, o Manaen, importante membro della chiesa di Antiochia compagno d’infanzia di Erode il Tetrarca (cioè Antipa, Atti 13.1). Tutto quindi lascia supporre che il figlio di quell’uomo, probabilmente l’unico, nonostante le cure dei migliori medici della regione, non guarisse, anzi si fosse aggravato: “gli chiedeva di scendere perché suo figlio stava per morire”. Quel giovane aveva la febbre, che a quel tempo stante le poche possibilità di cura destava molta preoccupazione: nell’uomo la temperatura normale è mediamente di 37°C, quando va oltre i 41 può condizionare un danno cerebrale e a 43 si registra l’exitus, la morte: possiamo pensare che la febbre che colpì quel ragazzo, così come la suocera di Pietro di lì a poco tempo, fosse attorno a quei valori.

La febbre negli scritti dell’Antico Patto compare poche volte ed è sempre legata alle conseguenze del peccato. Del resto, è un’anomalia anche oggi per un corpo progettato teoricamente per stare bene ma che in realtà, per il peccato entrato nel mondo, è soggetto ad ammalarsi in modo più o meno grave. Per la dispensazione della Legge la febbre rientrava nelle conseguenze e punizioni per la disubbidienza: “L’Eterno ti colpirà con la consunzione, con la febbre, con l’infiammazione, con il caldo bruciante, con la spada, con il carbonchio e con la ruggine, che ti perseguiteranno fino alla tua distruzione” (Deuteronomio 28.22). Altre conseguenze erano le emorroidi, la scabbia, la tigna, la pazzia, la cecità e la depressione ansiosa oltre al fallimento in qualsiasi attività intrapresa (in proposito tutti i versi dal 15 alla fine del capitolo 28 del Deuteronomio illustrano la maledizione per la disubbidienza del popolo.

Va però aperto un distinguo importante, al fine di evitare la domanda spontanea su cosa potesse avere fatto nella sua vita quel bambino, o i suoi genitori, per meritare una febbre che, senza l’intervento di Gesù, lo avrebbe portato alla morte. Una simile domanda la rivolsero a Gesù i suoi discepoli di fronte ad un uomo cieco dalla nascita: “«Maestro, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» Gesù rispose «Né lui, nè i suoi genitori hanno peccato, ma ciò è accaduto affinché siano manifestate in lui le opere di Dio»” (Giovanni 9.2,3). Ecco allora che con questa frase viene corretto un metodo di ragionamento popolare e superstizioso che, fondato sull’ignoranza, tendeva a generalizzare una situazione che solo l’individuo può conoscere. Ancora oggi credo vi siano malattie che siano la conseguenza di un peccato specifico e non di un naturale processo dovuto a una mancata cura della propria persona o alla prevenzione, ma questa è una realtà che solo l’individuo colpito da essa (o esse) può conoscere.

La febbre che aveva colpito il giovane figlio del funzionario di Erode Antipa, era quindi perché fosse manifestata in lui l’opera di Dio. Quel padre, saputo che Gesù era giunto a Cana, non esitò a partire da Capernaum facendo un viaggio di 40 km sulle dissestate strade del tempo, con la sua scorta, per raggiungerlo: dovette partire, fare la strada e, una volta giunto là, cercarlo. Ci domandiamo: era questa la sua “ultima spiaggia” nel senso che sapeva di recarsi da un generico guaritore, o piuttosto sapeva che, se avesse voluto, Gesù, sarebbe stato in grado di guarirlo? Quell’uomo si era messo in cammino perché sapeva ciò che Nostro Signore aveva fatto a Gerusalemme e, se mai, la sua fede era legata al fatto che fosse la presenza di Gesù accanto al figlio a guarirlo e che non potesse farlo a distanza: “gli chiedeva di scendere, e guarire suo figlio, perché stava per morire”.

Fu in quel momento che Gesù mise a confronto, probabilmente, la differenza fra i giudei e i samaritani: qui aveva persone che gli chiedevano degli interventi miracolosi, là c’erano stati individui che lo avevano ascoltato e avevano concluso che era Lui il “Salvatore del mondo”. “Se non vedete segni e prodigi (miracoli) voi non credete” è un rimprovero perché da un lato Gesù leggeva in quell’uomo la fede in Lui, ma dall’altro prendeva atto che, se suo figlio non fosse stato malato, difficilmente sarebbe venuto da Capernaum per ascoltarlo. Le parole di Gesù non costituiscono una sorta di gesto di stizza, ma di lettura della realtà umana specifica di quel popolo per il quale era venuto. Leggendo il cuore di quel funzionario, Gesù si immedesimò in lui facendo proprio il suo caso anche se l’ansia che aveva per il figlio gli impedirono di cogliere il senso di quelle parole: “Signore, scendi prima che il mio bambino muoia”.

Fu a quel punto che Gesù gli rispose “Va’, tuo figlio vive”: Cirillo d’Alessandria, vescovo e teologo greco vissuto tra il 300 e il 400, osservò che “…con queste parole il Signore guarì due persone al tempo stesso: condusse alla vera fede l’ufficiale reale e liberò il corpo di suo figlio dalla malattia”; possiamo aggiungere su queste parole che ne beneficiarono più persone perché è scritto “…e credette lui, con tutta la sua famiglia”, moglie e probabilmente tutti i suoi sottoposti che avevano conosciuto la gravità della malattia di quel giovane.

Al di là del miracolo, che per la sua potenza possiamo tranquillamente accomunare ai molti che seguiranno, quello che importa è rilevare che costituisce la storia della conversione di un uomo già predisposto e che in poco tempo acquisisce dei dati fondamentali: conosceva Gesù per sentito dire e aveva creduto in lui, certo in modo imperfetto, ma quanto bastava per sapere che poteva guarire suo figlio. Va da Gesù perché non ha alternative in quanto quelle umanamente possibili, medici e cure, le aveva già provate. L’insistenza con cui chiede al Signore di recarsi dal figlio malato esclude una speranza generica in Lui, ma una certezza, pur se limitata al fatto che, per guarirlo, avrebbe dovuto essere fisicamente presente. Il fatto che, rassicurato sul fatto che la febbre aveva abbandonato suo figlio, se ne fosse andato, ci dice che quelle parole gli bastarono per cui abbiamo una certezza acquisita esclusivamente sulla parola.

Poi abbiamo l’incontro coi servi, che gli erano andati incontro lungo la strada per informarlo dell’avvenuta guarigione: è in quel momento che la sua fede divenne piena, totale, perché chiede a che ora suo figlio non avesse più avuto la febbre: aveva bisogno di un riscontro per credere una volta per sempre.

C’è un particolare che ci rivela che il funzionario reale aveva già creduto alle parole di Gesù “Va’, tuo figlio vive” e lo rileviamo nella risposta dei suoi servi che gli dicono che la febbre aveva abbandonato suo figlio “Ieri, all’ora settima” (versione letterale, cioè all’una del pomeriggio): quell’uomo era rimasto allora a Cana per la notte, avendo già creduto che il proprio figlio era guarito.

Abbiamo così il credere, azione che fino ad ora, nella nostra lettura cronologica dei Vangeli, è stata raggiunta da dei pescatori (professione dei discepoli o di gran parte di essi), un Fariseo importante (Nicodemo), la donna Samaritana e i suoi conterranei e per finire questo funzionario reale: condizioni sociali diverse, ma tutte creature di Dio ciascuna con la necessità di un percorso e reazioni diverse che concretano il credere. Nel caso del funzionario del re, che credette con tutta la sua famiglia e che il sapere dell’ora in cui la febbre aveva abbandonato il figlio contribuì a rafforzare la sua fede dandogli una prova inequivocabile, abbiamo probabilmente la stessa dinamica del carceriere di Filippi che, dopo essere stato evangelizzato dall’apostolo Paolo, è scritto che “Condottili quindi in casa sua, apparecchiò loro la tavola e si rallegrava con tutta la sua famiglia di aver creduto in Dio” (Atti 16.28).

Credere trova tra le sue conseguenze l’acquisizione del senso della liberazione dal quotidiano che obbliga e umilia, “Perché il Figlio dell’uomo è venuto a salvare ciò che era perduto” (Luca 19.9). La guarigione dalla febbre importante, che causa sudore e brividi di freddo, che tiene la persona a letto non in grado di fare nulla, ha riferimento con il peccato, che fa la stessa cosa sotto l’ottica spirituale.

* * * * *