02.11 – HA TANTO AMATO IL MONDO (Giovanni 3.16-21)

02.11 – Ha tanto amato il mondo (Giovanni 3.16-21)

 

16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. 19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».”.

Attorno a questi versi esistono due possibilità “tecniche” da parte degli studiosi del Nuovo testamento: la prima tende a leggerli come un commento di Giovanni alle parole di Gesù a Nicodemo, che avrebbe finito il suo discorso mettendo a confronto il serpente di rame con la croce, e la seconda li considera come il suo naturale proseguimento. A favore della prima ipotesi, in effetti, c’è una notevole somiglianza con il modo che ha Giovanni di introdurre il suo Vangelo presentando la persona e l’opera di Gesù e la funzione del “Figlio” qui descritta. Se questo appare plausibile, il fatto che la definizione di “vita eterna” venga data a Nicodemo al verso 15 e sia ribadita al 16 con relativa spiegazione, rende valida anche la seconda, facendo parlare Gesù in terza persona. Nostro Signore dà di sé due definizioni: prima “Figlio dell’uomo”, con cui presenta la propria umanità, poi “Figlio di Dio unigenito” a sottolineare la Sua regalità ed unicità quale via per la vita. Dobbiamo poi notare il paragone col serpente di rame: se l’ebreo che veniva morso – da sottolineare mortalmente – guardava l’effigie del serpente di rame posta in alto e guariva, oggi l’uomo, incompatibile con Dio a causa del peccato, se allo stesso modo guarda con fede al Figlio, trova con Lui compatibilità, perdono e assume la dignità di figlio di Dio. Qui si aprirebbero una quantità davvero grande di applicazioni, ma per questioni di ordine atteniamoci al testo: “Dio ha tanto amato il mondo”. Quale? Quello che ha creato alle origini in cui la parola “buono” ricorre per sei volte più una, quando troviamo scritto, a commento del sesto giorno, “Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona”. L’universo ed il mondo creato, però, erano stati fatti in funzione della sua creatura per eccellenza, fatta – allora – davvero a Sua immagine e somiglianza, per cui ha continuato ad amarla nonostante il peccato. E il vestito fatto ai nostri progenitori al posto delle foglie di fico lo conferma.

Anche lì l’essere umano lasciò trasparire la sua profonda inettitudine e inadeguatezza a sapersi gestire da solo e il vestito di Dio, fatto con pelli di animali, manifestava anche la Sua assistenza nonostante l’offesa data dal peccato consistente, al di là della disubbidienza all’unico comandamento ricevuto, nel voler essere come lui. Dio quindi, pur imponendo all’uomo un’esistenza che poteva essere solo quella che sarebbe stata dalla sua estromissione da Eden in poi, essendo diventato incompatibile con quell’ambiente santo, aveva un piano di riscatto che avrebbe potuto essere molto più breve se solo la sua creatura avesse voluto comprenderlo. Basti pensare al vagabondare per il deserto a causa della poca fede, ma soprattutto alla mancanza di amore nei confronti del loro Dio che aveva dato innumerevoli volte prova del Suo voler assistere in ogni modo il popolo che aveva eletto.

Dio ha amato il mondo a tal punto da dare il proprio figlio unigenito. Non è cosa da poco e non è facile da capire, ma parafrasando, visto che Gesù ebbe a dire “Io e il Padre siamo uno”, possiamo dire “A tal punto da rinunciare ad una parte di sé”. E il sacrificio attraverso la morte del Figlio, nonostante gli ebrei dicano che Dio non può morire – e infatti risorse – è vista con queste parole: “Ora, a stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. A maggior ragione ora, giustificati nel suo sangue, saremo salvati dall’ira per mezzo di lui.” (Romani 5.7-9).

Morto per noi, per tutti quelli che sarebbero venuti dopo di lui, ma anche per quelli che avevano vissuto prima, addirittura ai tempi del diluvio perché nei tre giorni in cui fu sepolto, secondo le parole dell’apostolo Pietro, “…Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nel corpo, ma vivo nello spirito; e nello spirito andò a predicare l’annuncio anche agli spiriti che erano in carcere. Che furono ribelli, quando la pazienza di Dio aspettava ai giorni di Noè mentre si fabbricava l’arca nella quale poche persone, otto in tutto, furono salvate attraverso l’acqua” (1 Pietro 3. 18-20). “Carcere” inteso come la parola ebraica “Sheol”, cioè “soggiorno – o “regno” – dei morti”, corrispondente dell’ “Ades” pagano, luogo invisibile in cui le anime dei morti restavano, entrambi posti di cui Gesù ha le chiavi: “Ero morto, ma ora vivo per sempre, e ho le chiavi della morte e degli inferi” (Apocalisse 1.18).

Anche questo rientra nella settima e ultima frase detta da Gesù sulla croce, “Tutto è compiuto”, che ci parla di un “tutto” di perfezione, di un’opera compiuta nella sua interezza: il sacrificio dell’Agnello di Dio era avvenuto, le porte del perdono si erano aperte non solo per quelli che avrebbero creduto da lì in poi, ma anche per tutti coloro che del Vangelo non avevano potuto sentire parlare nei tempi antichi. L’apostolo Pietro scrive così, ma per non lasciare l’impressione che la predicazione dell’annuncio del Vangelo si sia rivolto solo agli spiriti vissuti al tempo di Noè, scrive sempre nella stessa lettera in 4.6 “Anche ai morti è stata annunciata la buona novella affinché siano condannati come tutti gli uomini nel corpo, ma vivano secondo Dio nello Spirito”.

Quindi l’uomo, che ha un appuntamento con la morte del proprio involucro esterno, può avere un appuntamento con la Vita conservando quella parte di lui che ha una particolarissima caratteristica: quando il Creatore rese Adamo “anima vivente”, gli soffiò nelle nari “un alito di vita”, il solo a poterlo rendere come poi è stato descritto. È questo alito che rende ciascun essere umano unico perché portatore sia di quell’alito sia della propria volontà, il proprio essere.

L’amore di Dio non parla di condanna: il Figlio è stato mandato perché “Il mondo sia salvato per mezzo di lui”. Qui c’è un particolare a favore dell’ipotesi in base alla quale le parole fossero indirizzate a Nicodemo, perché era opinione presso gli ebrei che il Messia, oltre a rendere vittorioso Israele su tutti gli altri popoli, li avesse giudicati e condannati. Questa è una visione futura che ha attinenza al ritorno di Cristo sulla terra, ma non alla sua prima venuta perché l’uomo potesse essere salvato attraverso di Lui. Non era però quello il tempo e la parola “mondo”, che compare per tre volte nei versi in esame, conferma l’universalità del messaggio dell’amore di Dio che, se nei tempi antichi aveva già provveduto a dividere quanti osservavano la Sua Legge da quanti la disprezzavano, adesso fa la stessa cosa tra quanti credono nel figlio e quanti lo respingono: rifiutando la croce, si condannano da soli. Ecco perché “Chi crede in lui non è condannato, ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’Unigenito Figlio di Dio”. “Credere” è un atto di comprensione. È la confessione della propria inferiorità, dell’appartenere al nulla senza Cristo, dell’aspirare a cose diverse da quelle che il mondo, su cui Satana ha potestà, offre. Credendo, alla fine dei conti, l’uomo pone fine al proprio orgoglio e pone in atto una profonda revisione di tutta la propria vita. Gli esempi sono davvero tanti, ma credo che più di tutti valga l’episodio dei due ladri crocifissi assieme al Signore che troviamo in Luca 23.39-43. Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». E disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». 43Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso». Sono due modi di intendere la propria vita: uno non ha ancora accettato la morte, accomuna Gesù alla sua categoria e vorrebbe farne un complice, l’altro invece trova nelle sofferenze il modo per confessare una vita fondata su valori errati. Entrambi, per come parlano, dimostrano di avere sentito parlare di Lui e di avere anche riflettuto, ma solo uno parla del “regno”, dimostrando di credergli. La risposta: “Amen ti dico: oggi sarai con me nel paradiso”.

Che Nostro Signore a Nicodemo, o Giovanni ai suoi lettori, si rivolge agli uomini di allora come di oggi, parla di salvezza o giudizio e, nei versi dal 19 al 21 che abbiamo letto, ne spiega il significato. “La luce è venuta nel mondo”. impossibile non vederla, non riconoscerla, esserne attratti. Se questo non avviene, significa che questa dà fastidio, essendo il contrario dell’oscurità. Non si tratta di amare la notte più del giorno come accade per le persone, ma di una scelta di metodo: “hanno amato le tenebre più che la luce, perché le loro opere erano malvagie”. “Tenebre” e ”Luce” sono due opposti, due mondi distinti in cui non esiste un punto neutro di passaggio. Un’alba o un tramonto: “Chi non è con me, è contro di me e chi non raccoglie con me, disperde” (Luca 11.23). Questo interessante passo propone una verità collegata alla divisione, all’appartenenza a due mondi, e una conseguenza vista nel “disperdere” il proprio raccogliere. Non esiste essere umano che non abbia un progetto, una meta e che non viva in funzione di quello. La mancanza di uno scopo porta – o è sintomo – di una forte depressione ma, a parte questa eccezione sulla quale bisognerebbe aprire un capitolo a parte, è il progetto che fa vivere l’uomo, la prospettiva di un raccolto. E la sua dispersione, il ritrovarsi con un nulla in mano più che al fallimento, sarà il crollo di tutte quelle sicurezze presunte conquistate a fatica, se non avranno avuto Cristo come motore.

Solo la consapevolezza acquisita del vivere nel buio può spingere la persona a cercare la luce, ma non è facile perché si tratta di un’oscurità metaforica in quanto il mondo può offrire una quantità enorme di attrattive e possibilità tangibili e reali se uno non si domanda quale effettivamente sia la destinazione a cui portano.

Tornando alle parole per Nicodemo, o di Giovanni ai suoi lettori, viene ampliato il discorso sulla differenza tra Luce, Tenebre e i loro relativi appartenenti: “chi fa cose malvagie odia la luce e non viene alla luce affinché le sue opere non vengano riprovate”, cioè si nasconde per non venire scoperto, ed ecco perché, con la confessione dei propri peccati al loro battesimo, chi andava dal Battista intendeva dare un taglio netto al proprio passato. Il lato tragico della scelta di appartenere a un mondo di tenebre è che non serve a nulla, perché “Non vi è nulla di nascosto che non sarà manifestato, né di segreto che non debba essere conosciuto e portato alla luce. Fate dunque attenzione a come ascoltate, perché a chi ha sarà dato, ma a chi non ha sarà tolto anche quello che pensa avere” (Luca 8.17,18).

Gesù poi passa a descrivere la categoria di persone opposte, “Chi fa la verità”, che viene verso la luce, o “alla” luce. Non è detto che vive nella luce, ma che va verso di essa: è un cammino, una ricerca destinata a conoscere tanto successi quanto fallimenti che ci ricordano la nostra natura di terra, il nostro corpo fragile. Ma Dio “…renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che cercano gloria, onore e immortalità, perseverando nelle opere buone” (Romani 2.7).

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02.10 – NICODEMO (Giovanni 3.1-21)

Nicodemo (Giovanni 3.1-21)

 

1Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodèmo, uno dei capi dei Giudei. 2Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui». 3Gli rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio». 4Gli disse Nicodèmo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?». 5Rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. 6Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. 7Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. 8Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito». 9Gli replicò Nicodèmo: «Come può accadere questo?». 10Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose? 11In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. 12Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? 13Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo. 14E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, 15perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna.16Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. 17Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. 18Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. 19E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. 20Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. 21Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio»”.

Prima di affrontare l’episodio è necessaria una premessa su una questione narrativa. Dalla nascita della Sacra Scrittura ai giorni nostri due sono i personaggi importanti, a parte i traduttori, che intervennero su di essa per agevolarne lo studio: Stephen Langton e Robert Estienne. Langton (1150 – 1228), arcivescovo cattolico di Canterbury, suddivise la Bibbia in capitoli. Estienne invece, (1503 – 1559), editore e grammatico francese, protestante, ripartì i capitoli in versetti. Prima di loro tutto era un corpus unico e, a meno di non avere una conoscenza pressoché perfetta del testo di un libro, o rotolo, la ricerca di passi e citazioni era molto ardua.

Immaginando ora di avere tra le mani il libro di Giovanni senza capitoli e versetti, il raccordo tra il “conosceva quello che c’era nell’uomo” di 2.24 e “Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodemo” è particolare perché il testo originale greco antepone un “Ma”, che alcuni traducono con “Ora”. Si tratta di un particolare da non trascurare perché quel “Ma vi era…” si contrappone fortemente alla massa delle persone a Gesù favorevoli e no. Quel “Ma” rende Nicodemo lontano “parente” di Simeone, quel personaggio particolare che prese in braccio Gesù da bambino che abbiamo incontrato nelle nostre prime riflessioni sui Vangeli. Di Simeone è detto “uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione di Israele” ma Nicodemo, a differenza dei suoi correligionari, metteva a confronto la sua conoscenza di dottore della Legge con le parole di Gesù e le voleva capire, pur con tutta la titubanza – e la cautela – del caso. Se così non fosse stato, Gesù non avrebbe accettato di parlare con lui, per quanto dal dialogo emerge tutta la distanza fra la sola conoscenza delle Scritture e la sapienza di Dio, che gli propone realtà a lui sconosciute.

Nicodemo era uno dei “capi dei giudei”, quindi un fariseo anziano che si definisce “vecchio” cresciuto nello studio della Torah, depositario non solo della conoscenza relativa agli scritti di Mosè, ma soprattutto di quella tradizione e insegnamenti sulla sua pratica e significato che tanto inorgoglivano i suoi simili. L’episodio della cacciata dei mercanti dal Tempio, oltre che i “segni” che Gesù aveva operato, lo avevano posto nella condizione di dubitare di essere nel giusto: posto di fronte a quei miracoli, che nessuno degli appartenenti alla sua corrente aveva mai operato nonostante la purezza che pretendeva di avere – “fariseo” significa “separato” –, non sapeva cosa fare perché “nessuno può compiere i segni che tu compi, se Dio non è con lui”. Nicodemo riteneva Gesù un Maestro di rango più elevato del suo, un “Dottore venuto da Dio” e lo interpella non senza timore per la propria sicurezza visto che sceglie di recarsi da lui di notte.

Apparentemente Nicodemo potrebbe rientrare nella categoria di quanti “credettero in lui”, ma di cui non si fidava; però Gesù lo ritenne degno di un insegnamento particolare, illuminandolo su una convinzione che aveva come fariseo, cioè che l’appartenenza al popolo di Israele comportasse di per sé il far parte di un popolo santo e perciò meritevole delle esclusive attenzioni del Messia. Era un concetto giusto solo in parte: certo Gesù era stato mandato “per le pecore perdute della casa di Israele”, ma ricordando la versione di Marco della cacciata dei mercanti dal Tempio, leggiamo “non permetteva che si trasportassero cose attraverso il Tempio e insegnava loro dicendo «Non sta forse scritto: La casa mia sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni?» voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri” (Marco 11.16-17).

Se Gesù, a quel tempo, ricordò una prospettiva futura e parlò in modo tale da non farsi capire, con Nicodemo ha un tono diverso e gli insegna parlandogli di una nuova nascita. Quel fariseo, fedele alla sua tradizione e mentalità abituata alla cavillosità, gli chiede come possa una persona anziana tornare nel grembo di sua madre e rinascere, viene ammaestrato con le parole “Se uno non è nato di acqua e di spirito, non può entrare nel regno di Dio”.

Gesù qui parla di una nascita spirituale, quella che fa di chi ha creduto una nuova creatura: Paolo scriverà ai Galati “Non è l’essere circoncisi o meno, ma l’essere nuova creatura” (6.13) oppure a Tito 3.5-7 “Egli ci ha salvati non per le opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, con un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna”. Giacomo, fratello di Gesù, scrive “Egli ci ha generati di sua volontà mediante la parola di verità, affinché siamo in un certo modo le primizie delle sue creature” (1.18).

Senza questa possibilità, questa rivoluzione interiore in cui si cambia la propria appartenenza da un mondo estraneo all’amore e alla volontà di Dio in uno spirituale pur rimanendo nella carne, l’appartenenza ed il conseguente, futuro ingresso nel regno di Dio è impossibile.

Sulla “nascita d’acqua” i Padri della Chiesa, quella di Roma, la Luterana con le sue diramazioni oltre che la maggioranza dell’Anglicana concordano nel riferirla al battesimo cristiano che sancisce la volontà di aderire alla comunità di tutti i credenti. Penso che il battesimo però testimoni una nascita nuova già avvenuta e che qui Gesù parli piuttosto di qualcosa venutasi a creare, o a formare, attraverso una purificazione: è un’acqua che Dio solo può dare, quella di cui Gesù parlerà alla Samaritana che vedremo tra breve quando le disse “Chiunque beva di quest’acqua – quella del pozzo – avrà di nuovo sete, ma chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Giovanni 4.14).

È infatti solo Dio che può lavare la persona dai peccati commessi: “Venite quindi e discutiamo assieme, dice l’Eterno: anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Anche se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana” (Isaia 1.18). Il perdono di Dio implica quindi la cancellazione del peccato. Il perdono di Dio implica quindi l’ammissione alla Sua presenza vista nel far parte del Suo Popolo. Se è Dio a lavare l’uomo, ecco, nasce di spirito, ha accesso a Lui, è rinnovato, diverso, non è più quello di prima, per lui sono pronti percorsi, sentieri e strade nuove. È nato, per usare le parole di Gesù a Nicodemo, “dall’alto”. E il battesimo è l’unico modo che ha una persona per dichiarare la propria appartenenza a Cristo: facendo un parallelo con quello di Giovanni, si può dire che là c’era una persona che si immergeva nell’acqua per poi riemergerne. Questo simboleggiava l’intenzione di rifiutare la propria esistenza di peccato – che molti confessavano pubblicamente – e, usciti fuori, di accettare il Salvatore che sarebbe venuto. Il battesimo cristiano invece, svolto allo stesso modo, ne differisce perché la persona, immergendosi e uscendo dall’acqua, conferma la sua salvezza, la sua nuova nascita, esprime tanto la sua appartenenza alla Chiesa quanto la propria volontà di appartenere a Cristo, come possiamo leggere dalla bellissima esperienza dell’eunuco etiope battezzato da Filippo sulla strada di Gaza in Atti 8.26-40. Il battesimo simboleggia un contratto stipulato tra l’uomo e Dio: il primo conferma di appartenergli e volergli appartenere, il secondo garantisce che non lo abbandonerà mai, accetta di esserne il proprietario: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che mele ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mia mano.” (Giovanni 10.27-30). Ecco perché pare una colossale forzatura amministrare il battesimo a un essere nato da pochi giorni, non avendo il battesimo attinenza alcuna alla circoncisione giudaica alla quale nessuno in Israele poteva sottrarsi, pena la morte. Il battesimo non rigenera nessuno, non fa “nascere di nuovo” nessuno, ma è fondamentale per chi ha creduto ed è nato di nuovo e ha fatto esperienza di questa realtà. La nuova nascita implica il battesimo, non viceversa.

La distinzione che Gesù fa a Nicodemo è eloquente: “Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito”. Si nasce senza che nessuno ci chieda il permesso, si rinasce se lo si desidera, rispondendo a un invito di Dio. Di fronte alle parole di Gesù, Nicodemo rimane perplesso, nessuno gli aveva mai parlato in quel modo, nemmeno i suoi maestri o i suoi colleghi più stimati, erano parole nuove.

A quel punto Gesù inizia a parlare del vento, termine che Nicodemo non poteva non collegare o comprendere. Lo Spirito non può essere costretto, non può essere gestito, non può essere compreso: “Come tu non conosci la via del vento, né come si formino le ossa nel grembo della donna incinta, così non conosci l’opera di Dio che fa tutto” (Ecclesiaste 11.5). “Opera di Dio” che si è rivelata sulla creazione che l’uomo cerca di investigare con la propria scienza, ma che oggi si rivela con la trasformazione in “nuova creatura” talché “Interrogato dai farisei su quando arriva il regno di Dio, rispose loro e disse «Il regno di Dio viene non in modo che si possa osservare. Né diranno eccolo qui, o eccolo là: ecco, il regno di Dio è dentro di voi” (Luca 17,21

Lo Spirito è pienamente libero, non legato a nulla e da nulla o da qualcuno, non ha nulla a che vedere con l’insegnamento legale che Nicodemo e i suoi simili davano al popolo, escludendo a priori qualsiasi elemento nuovo se non un’interpretazione che fosse in linea con quelle precedenti. Nicodemo era un uomo in crisi profonda perché non capiva come Gesù potesse compiere quei segni, che riconosceva provenienti da Dio, senza essere allineato alla sua categoria. Se ciò non era, Nicodemo si trovava in errore e ciò lo intimoriva. Con la frase “Tu sei dottore in Israele e non sai queste cose?” il Maestro gli ricorda che lo Spirito che aveva parlato attraverso i profeti era lo stesso: parole di rimprovero ed esortazione al ravvedimento consistente prima di tutto da un radicale mutamento nel modo di pensare e poi nell’osservanza della Legge. Perché il profeta non è un uomo puro, ma una persona che Dio sceglie: “il vento soffia dove vuole. “Così è di chiunque è nato da Dio” si riferisce proprio all’elezione a nuova creatura, voluta in parte dall’uomo ma soprattutto da una scelta di Dio che chiama. C’è chi chiama e c’è chi risponde.

Gesù prosegue aprendo una nuova frase per la seconda volta con “In verità, in verità ti dico”, cioè con un “Amen” che certifica appunto un’affermazione come vera, rafforzandola. “Noi – io e il Padre che parla attraverso di me – parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo visto, ma voi non ricevete la nostra testimonianza”. È una constatazione molto amara e Giovanni, nell’inno che fa da prologo al suo Vangelo dice “Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del padre, è lui che lo ha rivelato” (1.18): rivelare significa rendere note cose sconosciute, segrete fino al momento in cui vengono dichiarate, fare emergere qualcosa in modo evidente. La constatazione “Ma voi non accogliete la nostra testimonianza” è poi una condanna. “Accogliere”, tradotto anche con “ricevere” implica una scelta: c’è qualcosa che viene porto spontaneamente, ma che qui viene respinto. Per respingere qualcosa o qualcuno bisogna avere sempre delle ragioni, ma in questo caso sono da ricercarsi in una difesa di ciò che si ha: meglio la presunzione, l’arroccarsi sulle proprie posizioni di fronte all’evidenza, la stessa che portò i giudei a dire di Gesù “Scaccia i demòni per opera del principe dei demòni” (Matteo 9.34).

Tornando all’episodio, Gesù pone davanti al suo uditore una domanda: come farà, lui e i suoi, a recepire le “cose celesti” se non è stato in grado di capire i paragoni tratti da esempi terreni come il discorso del vento ed altri che sicuramente gli avrà fatto? A questo punto Gesù parla a Nicodemo di un episodio che certamente doveva conoscere e avere studiato molte volte, quello del serpente di rame, non senza premettere di avere l’autorità per rivelare le cose di Dio. Si tratta di un episodio narrato in Numeri 21.4-9: 4Gli Israeliti si mossero dal monte Or per la via del Mar Rosso, per aggirare il territorio di Edom. Ma il popolo non sopportò il viaggio. 5Il popolo disse contro Dio e contro Mosè: «Perché ci avete fatto salire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero». 6Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti brucianti i quali mordevano la gente, e un gran numero d’Israeliti morì. 7Il popolo venne da Mosè e disse: «Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; supplica il Signore che allontani da noi questi serpenti». Mosè pregò per il popolo. 8Il Signore disse a Mosè: «Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque sarà stato morso e lo guarderà, resterà in vita». 9Mosè allora fece un serpente di bronzo e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di bronzo, restava in vita.”

Alcuni ebrei si trovano in difficoltà su questo passo, ponendolo in contrasto con la Torah che proibiva l’idolatria. Ma riflettendo, qui non si tratta di adorazione, ma di “guardare”, che nel linguaggio biblico può significare anche “fare riferimento a”. Il serpente, di rame, materiale che è sempre figura di giudizio sui peccati dell’uomo, stava su un’asta, quindi in alto e poteva essere visto da chiunque. Gli israeliti di allora, informati su cosa fosse quel serpente, facevano riferimento a lui per salvare la propria vita, rivolgevano a lui lo sguardo. Gli effetti del morso di quei serpenti, inviati da Dio per punire un peccato, venivano così annullati guardando quell’immagine che ricordava tanto il giudizio quanto la misericordia del Signore che per questo ne annullava gli effetti. Il serpente terreno cagionava la morte, quello che li raffigurava ne annullava gli effetti.

Allo stesso modo Gesù parla di se stesso: “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque creda in lui abbia vita eterna” (v.15). Il serpente di rame su un’asta, il Figlio di Dio su una croce. Il primo non ebbe più ragione di essere quando i serpenti velenosi morirono, il secondo è lì ancora oggi, nel Vangelo o come simbolo nelle chiese. Gli ebrei di allora facevano riferimento al serpente quando venivano morsi e sapevano di morire, gli uomini vissuti dalla risurrezione in poi fanno riferimento al crocifisso nel momento in cui comprendono che la loro vita, così com’è, può portare solo alla morte. E la salvano.

Ancora una volta abbiamo un aggiornamento tra antico e nuovo patto, tra cose che un tempo erano velate e che oggi non lo sono più.

Nicodemo è un uomo che cerca, ha un percorso tutto suo preciso e lungo. Non è una persona dalle reazioni immediate e spontanee, è prigioniero di una storia e un modo di pensare razionalissimo e complicato che lo penalizza nella comprensione. È un uomo di dubbi, ha bisogno di tempo per aggiornare le sue conoscenze, partendo da quelle religiose nelle quali è cresciuto, con quelle dottrinali dello Spirito. È un uomo autorevole che tuttavia non si arrocca sulle sue posizioni come tanti dei suoi simili, ma viene messo da parte con uno scopo: comparirà in questo Vangelopiù avanti, quando parlerà a una riunione dei capi farisei e sacerdoti che volevano arrestare Gesù (7.45-51) e una terza con Giuseppe d’Arimatea, che depositerà il suo corpo nella tomba (19.39-42). Teme di esporsi perché, dichiarandosi apertamente a favore di Gesù, non solo perderebbe il suo stato, ma verrebbe dichiarato estraneo alla congregazione di Israele ed esiliato. Non sappiamo cosa farà dopo perché non viene più nominato. A lui è attribuito un vangelo apocrifo.

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02.09 – I MERCANTI DEL TEMPIO (Giovanni 2.13-24)

I mercanti del tempio (Giovanni 2.13-24)

 

Giunti al primo miracolo di Gesù avvenuto in Cana, Giovanni scrive un raccordo temporale:

 

12Dopo questo fatto scese a Capernaum insieme a sua madre, ai suoi fratelli e ai suoi discepoli. Là rimasero pochi giorni”.

 

Il fatto che non sia menzionato Giuseppe ha spinto i commentatori a ritenere che a quell’epoca fosse già deceduto e infatti a Cana non è menzionato come presente. Sorge qui il problema di cosa avesse fatto a Capernaum, paese sulle rive del lago di Galilea in quei “pochi giorni”. Matteo e Marco dicono che Gesù andò ad abitare là una volta saputo dell’arresto di Giovanni Battista, cosa che non era ancora avvenuta ai tempi del miracolo in Cana; Luca, dopo aver parlato di un breve ritorno a Nazareth e citato l’episodio in cui gli abitanti del paese volevano gettarlo giù da un burrone, scrive in due versetti (4.14.15)

 

14Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito e la sua fama si diffuse in tutta la regione. 15Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti gli rendevano lode”.

 

A questo punto pare legittimo pensare che nessun evangelista parli di cosa fece Nostro Signore a Capernaum in quei giorni. Vero è che là, sulle rive del lago, ci fu la chiamata ai quattro che già lo seguivano (Pietro, Andrea, Giovanni e Giacomo) e in quella cittadina avvennero molti episodi edificanti, ma avvennero in seguito; prima di quegli avvenimenti, vi fu il primo viaggio a Gerusalemme di Gesù da adulto che consideriamo ora.

Veniamo ora al passo in esame:

 

13Si avvicinava intanto la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. 14Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. 15Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori dal tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, 16e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». 17I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: Lo zelo per la tua casa mi divorerà. 18Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». 19Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». 20Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». 21Ma egli parlava del tempio del suo corpo. 22Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi <, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. 23Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa, molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome. 24Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti 25e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo.

 

L’episodio è riportato anche dai sinottici che, pur collocandolo a Gerusalemme come Giovanni, lo inseriscono alla fine della vita pubblica di Gesù. Ciò ha dato adito a due ipotesi: la prima, non trovando possibile un accordo tra le versioni, si è ritenuto trattarsi di due fatti diversi; la seconda è che si tratti di un unico avvenimento che però avvenne al principio del ministero di Gesù, poiché tra gli evangelisti è Giovanni ad essere più accurato cronologicamente. Se i Sinottici lo pongono verso la fine, è perché vi sono indotti da motivi di analogia d’argomento e soprattutto perché, nella loro esposizione molto spesso non cronologica, narrano esplicitamente di una sola permanenza di Gesù a Gerusalemme in luogo delle quattro narrate da Giovanni.

Abbiamo già sottolineato che la Pasqua fosse la festa più importante dell’ebraismo perché ricordava l’avvenuta liberazione del popolo dalla schiavitù d’Egitto. Sappiamo che a Gerusalemme, quindi al Tempio, confluivano tutti gli israeliti che provenivano dalle regioni più remote dell’impero (ecco il perché dei cambiavalute) e, nel cortile dei gentili, vi era tutta un’organizzazione studiata per ridurre al minimo le difficoltà del trovare gli animali necessari da offrire in sacrificio. I sacerdoti, o perché da quel commercio avevano una loro percentuale sulle vendite, o perché affittavano il posto ai mercanti, trovavano probabilmente una giustificazione per quella mescolanza di sacro e profano nel fatto che tutto era fatto a fin di bene: poiché i sacrifici dovevano avere luogo, le monete di chi veniva da lontano cambiate e, senza quel commercio, la gente avrebbe dovuto fare le stesse cose andandole a cercare in città o negli immediati dintorni, si riteneva giusto approfittare di quello spazio.

Esisteva però una differenza sostanziale: se il voler agevolare gli israeliti fornendo loro un servizio che risparmiava loro molte fatiche viste nel cercare il necessario per i sacrifici, quello che indignò profondamente Nostro Signore fu il fatto che in tutta quella confusione era venuto totalmente a mancare il significato del sacrificio e della Pasqua stessa. Il tutto si svolgeva nella formalità e soprattutto nella soddisfazione, da parte dei commercianti, per i guadagni enormi che questi potevano realizzare traendo vantaggio da una festa sacra. In quel cortile nulla poteva far pensare a qualcosa di diverso da un normale mercato in cui la gente vende e compra senza pensare ad altro che ai propri interessi.

Chi ancora oggi visita Roma e in particolare la zona di San Pietro, non può non rimanere profondamente colpito dalla presenza di un commercio profondamente invasivo di oggettistica di vario genere: immagini di ogni dimensione, materiale mediatico stampato in ogni lingua, personale apparentemente religioso che fa da guida a un popolo disinformato nel profondo. Tutto è rito e svuotato con cura quasi programmata da qualsiasi pietà, esempio, insegnamento, distinguo tra ciò che è effettivamente vero ed importante da ciò che non lo è, in una mescolanza totale tra “sacro” e profano o, meglio, in cui il profano è legittimato. Personalmente mi ha molto disturbato la visita al cosiddetto “tesoro di San Pietro”, di inestimabile valore, detenuto e conservato da una organizzazione che, se davvero fosse fedele agli intenti e alla professione che fa, non avrebbe alcuna difficoltà a liberarsene come fece la Chiesa primitiva in Gerusalemme dove leggiamo che 44Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; 45vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. 46Ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, 47lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati” (Atti 2.44-47).

Possiamo ricordare anche le parole di Gesù quando mandò i dodici apostoli in missione: “Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date” (Matteo 10.8). Gli apostoli, umanamente, avrebbero potuto benissimo chiedere un contributo o un’offerta libera ai parenti di quegli afflitti, ma così facendo avrebbero snaturato totalmente la loro missione. Il “dare gratuitamente”, gesto assolutamente inconcepibile per il mondo salvo che non sia per sfruttare i deboli, rappresenta la contrapposizione tra il possibile e l’impossibile perché la liberazione di un’anima dal peccato non ha prezzo.

Torniamo all’episodio: Gesù è scritto che fa “una frusta di cordicelle”, greco originale “giunchi”, cioè quei fili lunghi e semirigidi che si utilizzano come paglia per il bestiame, e se ne serve per spingerlo fuori dal cortile. Diverso fu per i colombi, contenuti in gabbie, che non potevano scappare e per questo viene ordinato ai loro proprietari di portarle via.

La rappresentazione di Gesù che frusta adirato i presenti che fuggono spaventati quasi ad avere a che fare con un pazzo, non ha fondamento: la Sua autorità bastava e credo che la frase “Non fate la casa del Padre mio una spelonca di ladroni” abbia parlato a qualche coscienza tra i presenti, che non reagirono contro di lui nonostante vedessero svanire il loro guadagno, per non parlare degli addetti al cambio di valuta che videro il loro denaro per terra.

I discepoli che lo avevano accompagnato, non sappiamo quanti perché Giovanni non lo dice, è scritto che “Si ricordarono che sta scritto «Lo zelo per la tua casa mi divora»”, passo tratto dal Salmo 69.10, di Davide. Lo zelo divora, cioè arriva a corrodere il profondo dell’essere che rinuncia a se stesso pur di servire. I discepoli, nonostante non fossero dottori della Legge, si ricordarono spontaneamente di questo passo e lo applicarono al loro Maestro. E il verso del Salmo prosegue dicendo “gli insulti di chi ti insulta ricadono su di me”: quel mercato, allora, era un insulto a Dio così come lo è qualsiasi ritualità svuotata di contenuto. Questi furono i motivi che suscitarono le reazioni di Gesù di fronte allo scempio che si produceva nel cortile, in uno spazio ritenuto di poco conto perché dei gentili, cioè dei pagani che per Israele non contavano nulla, che potevano solo stare in un luogo in cui Dio, nonostante il recinto che lo circondava, si riteneva fosse distante e che le Sue attenzioni fossero esclusivamente per il Suo popolo.

Il passo del Salmo citato, in cui i discepoli riconobbero parlasse del loro Maestro, si raccorda con le parole dell’apostolo Paolo in Ebrei 4.12-13 che parla degli effetti della Parola di Dio sull’uomo che la lascia agire: “12Infatti la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla, e discerne i sentimenti e i pensieri del cuore. 13Non vi è creatura che possa nascondersi davanti a Dio, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi di colui al quale noi dobbiamo rendere conto”.

Sono parole assolute: le sue cinque caratteristiche e azioni, – viva, efficace, più tagliente, penetra, discerne – non lasciano scampo e indicano gli elementi che producono una reazione in ciascun uomo. La Parola di Dio è viva, quindi non è qualcosa che può scadere finendo per diventare inutile come un romanzo che passa da uno scaffale a una cantina per poi venire corroso dall’umidità e mangiato dai topi. È efficace, aggettivo che viene dal latino efficere, “portare a compimento” ed infatti è l’unica che può salvare, risolvere il vero problema della destinazione finale dell’uomo. Più tagliente di ogni spada a doppio taglio, poi, è una definizione che illustra la capacità del discernimento: il bene dal male e tutto il sistema che ruota attorno ad essi. Quell’”ogni”, poi, esclude che ve ne possano essere altre in grado di compiere la sua stessa azione. Sul perché di questo abbiamo le parole successive: “Penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, fino alle giunture e alle midolla” quindi svolge quell’azione che porta al discernimento e alla vagliatura di ciò che sono i sentimenti e i pensieri del cuore. È un’azione inevitabile di cui parlò Pietro quando scrisse “Siete stati rigenerati non da un seme corruttibile, ma incorruttibile, per mezzo della Parola di Dio viva e che dura in eterno” (1 Pietro 1,23). Queste parole saranno utili per comprendere ciò che Gesù dirà a Nicodemo poco tempo dopo quest’episodio quando, venuto da Lui di notte, si sentirà spiegare la nuova nascita.

Nella lettera agli Ebrei, però, Paolo parla di un finale visto nel “rendere conto” perché non vi è possibilità alcuna di nascondersi di fronte a Colui che, presto o tardi, chiederà conto a tutti, credenti compresi, di come avranno gestito loro vita. Infatti: “Anche se come l’aquila ponessi in alto il tuo nido, anche se lo collocassi sulle stelle, di lassù ti farò precipitare” (Abdeo 1.4). Per contrapposizione all’orgoglio descritto dal profeta, abbiamo la visione di Giovanni in Apocalisse 6.15-17 all’apertura (futura) del sesto sigillo: 15Allora i re della terra e i grandi, i comandanti, i ricchi e i potenti, e infine ogni uomo, schiavo o libero, si nascosero tutti nelle caverne e fra le rupi dei monti; 16e dicevano ai monti e alle rupi: «Cadete sopra di noi e nascondeteci dalla faccia di Colui che siede sul trono e dall’ira dell’Agnello, 17perché è venuto il grande giorno della loro ira, e chi può resistervi?»”, descrizione dell’inutilità della tecnologia umana.

Torniamo al nostro episodio: in tutto il trambusto conseguente all’azione di Gesù, ecco l’intervento dei Giudei, non uomini del popolo, ma dell’autorità religiosa: costoro volevano da lui delle credenziali, sapere chi fosse, quale autorità avesse per poter fare una cosa simile. Ebbero in risposta un riferimento non al Tempio come edificio, ma al Suo corpo, profetizzando così sulla Sua risurrezione senza che i presenti, compresi i discepoli, lo capissero anche se se ne ricordarono dopo, quando la loro mente fu aperta dallo Spirito Santo.

A questo punto abbiamo una grande lezione: alla domanda “Quale segno ci mostri per fare queste cose?”, che sottintendeva la richiesta di un segno di autorità, un miracolo, Gesù risponde in modo tale da non essere capito, pur esprimendo una verità. Infatti le parole “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere” non solo furono equivocate perché prese alla lettera stante il luogo in cui furono pronunciate, ma riemergeranno in modo beffardo alla croce con la stessa mancanza di comprensione: “Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!” (Marco 15.29-30).

Quei “Giudei”, cioè gli autorevoli tra il popolo, non potevano certo ignorare che, secoli prima, il profeta Geremia aveva detto le stesse parole: “Forse è per voi un covo di ladri questo Tempio sul quale è invocato il mio nome?” (Geremia 7.11) ma, invece di chiedersi se le parole di Gesù fossero vere o meno, spostano il ragionamento su chi fosse per dire certe cose. Se ciò che stavano tollerando fosse cosa legittima o meno, fu una questione che non li sfiorò neppure lontanamente, così come nessun dottore della Legge si era mai sognato di intervenire per fare cessare quel commercio.

L’episodio si conclude così, ma non la permanenza di Gesù in Gerusalemme di cui Giovanni ci dà un cenno riassuntivo, che leggiamo al verso 23, a parte il colloquio avuto con Nicodemo che esamineremo nel capitolo successivo. Scrive Giovanni che il Maestro fece dei segni, dei miracoli di cui non sappiamo, ma che produssero una fede erronea. Leggiamo infatti “Ma lui non si fidava di loro”.

La perfetta conoscenza dell’essere umano che aveva Gesù gli consentiva di sapere che quel “credere in lui” era un’azione dettata dalla ragione e non dal cuore, perché a nulla serve ai fini della salvezza credere che ci sia un Essere superiore, o accettare Gesù come personaggio storico autore di miracoli, se non si è disposti a cedere se stessi, se non lo si vuole realmente trovare per venire rinnovati.

“Conosceva quello che c’è”, non quello che c’era, a conferma delle tante volte in cui i verbi sono utilizzati per esprimere un concetto che oltrepassa le regole della grammatica. Allora come oggi, Lui conosce quello che c’è nell’uomo, cioè il suo tutto, lo spirito che lo muove. Probabilmente è proprio questa fede temporanea e subito soffocata dalle spine che impedirà a Giovanni di parlare dei “segni” fatti in Gerusalemme, soffermandosi subito dopo nel dettaglio su Nicodemo, figura caratteristica di persona tormentata dai dubbi, timoroso dei suoi correligionari ma attratto dalla figura di Gesù: fariseo di alto rango, andò da Lui di notte per non farsi vedere dagli altri. Quell’uomo, a differenza dei molti che avevano creduto, era sincero, voleva sapere, capire, anche se gli ci vorrà molto tempo per compiere una scelta che lo avrebbe estromesso dalla congregazione di Israele: gli disse “Rabbi, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu fai, se Dio non è con lui” (Giovanni 3.2). Da questa frase, come vedremo, Gesù partirà per l’esposizione del concetto e della realtà che implica la nuova nascita.

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02.08 – LE NOZZE DI CANA (Giovanni 2.1-11)

Le nozze di Cana (Giovanni 2.1-11)

 

1 Il terzo giorno vi fu una festa di nozze a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. 2Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. 3Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno vino». 4E Gesù le rispose: «Donna, che vuoi da me? Non è ancora giunta la mia ora». 5Sua madre disse ai servitori: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela». 6Vi erano là sei anfore di pietra per la purificazione rituale dei Giudei, contenenti ciascuna da ottanta a centoventi litri. 7E Gesù disse loro: «Riempite d’acqua le anfore»; e le riempirono fino all’orlo. 8Disse loro di nuovo: «Ora prendetene e portatene a colui che dirige il banchetto». Ed essi gliene portarono. 9Come ebbe assaggiato l’acqua diventata vino, colui che dirigeva il banchetto – il quale non sapeva da dove venisse, ma lo sapevano i servitori che avevano preso l’acqua – chiamò lo sposo 10e gli disse: «Tutti mettono in tavola il vino buono all’inizio e, quando si è già bevuto molto, quello meno buono. Tu invece hai tenuto da parte il vino buono finora». .11Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.

 

“Il terzo giorno”, stando alla cronologia di Giovanni, è da intendersi come terzo dopo il colloquio avuto con Natanaele-Bartolomeo e Andrea ed infatti sono diverse le traduzioni che riportano “Tre giorni dopo”. Il miracolo della trasformazione dell’acqua in vino è il primo di Gesù in Galilea ed è quello che costituisce l’apertura ufficiale del Suo ministero. È anche quello che ha visto il maggior numero di interpretazioni dottrinali a seconda della provenienza tradizionale dei vari commentatori antichi e moderni. I particolari che però l’apostolo Giovanni inserisce nel racconto aiutano molto la sua comprensione e significato. Prima di esaminare l’episodio è bene dare un accenno su cosa significasse la festa di nozze per il popolo ebraico e dare qualche particolare che verrà utile per comprendere anche la parabola delle dieci vergini che Matteo racconta in 25.1-13.

A prescindere dal rango sociale degli sposi, che caratterizzavano la festa di nozze in modo proporzionale alle loro possibilità, il pranzo nuziale era il momento più solenne della vita della persona e si concludeva un anno dopo il fidanzamento che, a differenza di quello occidentale che manifesta e sottintende solo un’intenzione di sposare una persona e può vedere le parti recedere in qualunque momento, equivaleva al matrimonio per quanto il futuro marito e la futura moglie non vivessero ancora assieme. La festa di nozze poteva durare anche più giorni: la sposa attendeva lo sposo sul far della sera, con le amiche, truccata e agghindata con vari monili e una corona sul capo come lo sposo che la andava a prendere a casa sua per condurla nella loro. Si formava così un corteo che raggiungeva la nuova casa, al quale partecipava quasi tutto il paese, con gli amici degli sposi che portavano lampade con suoni e canti. Non era infrequente che le scuole rabbiniche interrompessero le lezioni per partecipare almeno al corteo che si concludeva nella nuova casa nel quale era offerto il pranzo con canti e discorsi augurali.

In quella casa si beveva e si mangiava copiosamente anche perché l’occasione di partecipare a una festa di nozze, per chi abitava in quei territori dove conduceva una vita solitamente povera e parsimoniosa, significava interrompere anche per poco, ore o giorni poco importava, un’esistenza spesso condotta negli stenti, scandita dal lavoro e dal sole. In quella festa un ruolo fondamentale lo aveva il vino non perché la gente se ne approfittava per ubriacarsi, ma perché, messo in serbo da tempo apposta per l’occasione, era molto buono. Il vino delle nozze era conservato in giare e tenuto nell’angolo più buio delle case fino a quando non arrivava il giorno della festa. Il vino era visto come una benedizione assieme al frumento e all’olio – 14io darò alla vostra terra la pioggia al suo tempo: la pioggia d’autunno e la pioggia di primavera, perché tu possa raccogliere il tuo frumento, il tuo vino e il tuo olio” (Deuteronomio 11.14) -, una bevanda che “rallegra il cuore dell’uomo” (Salmo 104.15). Ricordiamo che, in antitesi, la Scrittura lo indica come sostanza che può fare compiere azioni sconsiderate come nel caso di Noè che si ubriacò denudandosi (Genesi 9.21 e segg.) e ancora di più il caso delle figlie di Lot, che si unirono al loro padre facendolo bere al fine di avere una discendenza (Genesi 19.32 e segg.). Salomone in Proverbi 10.1 scrive che “il vino è beffardo, il liquore è tumultuoso; chiunque si perde dietro ad esso non è saggio” e in 4.17, parlando degli uomini malvagi, dice che “mangiano il pane dell’empietà e bevono il vino della violenza”, a sottintendere la sua pericolosità e non per niente il Nazireo doveva astenersi da esso.

Gesù fu invitato alle nozze a Cana, dove già si trovava sua madre, coi suoi discepoli probabilmente perché Natanaele era di quelle parti: ci volle andare perché nella Sua onniscienza sapeva che lì avrebbe potuto compiere il suo primo miracolo, denso di significati. Abbiamo letto al verso 11 “Questo, a Cana di Galilea, fu l’inizio dei segni compiuti da Gesù; egli manifestò la sua gloria e i discepoli credettero in lui”. “Manifestò la sua gloria” nel senso che si rivelò come Signore (anche) degli elementi mutandone radicalmente le proprietà e non col fine di risolvere un problema contingente che sua madre, conscia tanto dell’imbarazzo che aveva creato la mancanza di vino quanto che il Figlio era l’unico che avrebbe potuto intervenire, gli aveva posto. Sono da notare infatti tre frasi: la prima “non hanno più vino” in cui Maria pone al Figlio il problema che si era venuto a creare. Non chiede un miracolo, ma certamente un intervento senza sapere cosa Gesù avrebbe fatto. La sua risposta, “che vi è fra te e me, donna”, è stata sicuramente strumentalizzata nel corso del tempo dalla cristianità, cattolica romana ed evangelica in particolare: i primi vedono in Maria l’inizio della sua opera mediatoria e di intercessione presso il Figlio, i secondi pongono l’accento quel “Che vi è tra te e me” facendo osservare che la stessa espressione si trova usata nell’episodio dell’indemoniato nella sinagoga di Capernaum quando i demoni che possedevano quell’uomo dicono “Che vi è tra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto a tormentarci prima del tempo?” (Marco 1.24).

La realtà è molto più semplice e credo vada oltre il parteggiare per qualcuno: Maria era la sola in quel luogo a conoscere bene il Gesù e sapeva, per tutti gli avvenimenti di cui era stata testimone, che se avesse voluto avrebbe potuto intervenire per togliere i presenti dall’imbarazzo e soprattutto la famiglia degli sposi dal disonore. La reazione immediata di Gesù è quella di mettere un confine tra quelle che sono le aspettative umane, viste nella richiesta della propria madre, e la Sua totale autonomia operativa. Quel “Che vi è tra me è te, o donna” richiama proprio due realtà, quella divina di Gesù e quella umana di sua madre, essendo strettamente collegata alle parole successive che spiegano il motivo di quella reazione, cioè “Non è ancora giunta la mia ora”, quel momento in cui sarebbe stato dato in mano agli uomini che avrebbero fatto di Lui ciò che avrebbero voluto.

La terza frase riporta il secondo intervento di Maria, non più rivolta al Figlio, ma ai servi presenti, “Qualunque cosa vi dica, fatela”, o “Fate quello che vi dice” secondo la traduzione letterale, in cui rimette al figlio ogni cosa, ogni potere decisionale e pone i servi addetti alla mescita del vino, o della distribuzione dell’acqua, in uno stato di attesa. Era un’acqua serviva alla pulizia delle mani e delle stoviglie (ecco perché Giovanni aggiunge “per la purificazione dei Giudei”).

L’acqua non era contenuta in anfore, ma in recipienti, in pietra e non in cotto perché secondo i rabbini la pietra non conteneva impurità. Notiamo le misure: “da ottanta a centoventi litri”, traduzione che evita di fare i calcoli del testo letterale, “capaci da due o tre metrete”, o “misure”, ciascuna delle quali si aggirava attorno ai 39 litri.

Gesù ordina di riempire i contenitori e i servi lo fecero fino a quando non furono colmi, il che escludeva la possibilità sia di versarvi una sostanza che potesse ingannare il palato facendo scambiare l’acqua con vino, ma che ci parla della perfetta capacità che ha lo Spirito di coinvolgere tutta la persona dell’uomo. Quanto successe dopo è ben spiegato dalle parole del direttore di mensa, un amico dello sposo, che si accorge della differenza tra il vino di prima e quello che gli viene appena portato. Dobbiamo pensare che quello che era stato distribuito dall’inizio della festa, come abbiamo visto, non era un vino ordinario, ma già pregiato e messo da parte da tempo per l’occasione: il vino di Gesù, però, era tale da fare classificare il precedente come “meno buono”. Questo ci parla del fatto che tutto ciò che Dio trasforma non può competere con nient’altro e io penso che, al di là di tutti gli innumerevoli significati che acqua e vino hanno nella Scrittura e sui quali sarebbero possibili molti studi, nel nostro caso specifico è sulla trasformazione che si devono basare le riflessioni: Dio non crea, né ha creato, né muta, ha mai mutato nulla dal nulla, ma è sempre intervenuto dagli elementi: l’universo stesso è stato costruito su materiali preesistenti. Ricordiamo le parole di apertura del libro del Principio: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano la faccia dell’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque”. La terra era “informe”, non troviamo scritto che c’era solo il vuoto.

Allo stesso modo a Cana c’era dell’acqua, attinta da un pozzo, in contenitori di pietra. Il significato del miracolo risiede allora in cosa può diventare un elemento là dove Dio opera: in quel l’acqua, destinata “alla purificazione dei giudei”, diventa vino, migliore di quello servito fino ad allora, mutando radicalmente scopo e destinazione, rimanendo comunque un liquido.

Se dunque il Signore interviene nella vita dell’uomo che si affida in lui, lo trasforma radicalmente e si aprono per lui una vita e uno scopo totalmente differenti, pur mantenendo la stessa fisionomia: a Cana mutò il contenuto, non i contenitori, che rimasero gli stessi. Quindi il miracolo ci parla, anche, di una vita nuova. Scrivendo ai Corinzi Paolo scrive “Se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove” (2 Corinzi 5.17), di modo che: “Se” – la condizione, perché uno può pensare di essere quello che non è – “uno è in Cristo” – cioè ha posto la sua fede con una vita in Lui e in Lui vuole viverla – “è una nuova creatura”. Nuova nel senso di diversa perché “le cose vecchie sono passate” cioè tutto quello che è stato non gli appartiene più, non lo interessa a prescindere, non ha senso che si guardi indietro come fece la moglie di Lot che, rimpiangendo il suo passato, si voltò a guardare Sodoma per l’ultima volta.

Nelle “cose vecchie” che sono passate Paolo include tutto: non solo qualunque peccato commesso, ma l’essenza profonda di un essere incompatibile con Dio, ora trasformato e in grado di esserGli accetto. Resta il problema del contenitore, che rimane lo stesso: questo ci parla della responsabilità che ogni credente – ricordiamo “Se uno è in Cristo” – ha e con la quale si ritrova a fare i conti quotidianamente. Molti credono, secondo la filosofia di numerosi appartenenti alla Chiesa di Corinto, che, se sono stati liberati dal peccato, non abbiano senso degli sforzi per liberarsene ancora, ma l’essere delle creature nuove comporta il ritrovarsi a vivere in un mondo che non solo non ci appartiene più, ma che soprattutto non cambia, non è nuovo, è incapace a rinnovarsi salvo nella tecnologia o esasperando sempre di più i suoi contrassegni negativi.

La vita cristiana è basata anche su questo continuo fare i conti con una duplice realtà tra la natura umana e quella spirituale, con un involucro esterno suscettibile a sofferenze morali, spirituali e fisiche perché non siamo, per la nuova nascita e lo stato di “nuova creatura” acquisita, trasportati automaticamente in un Eden in cui possiamo vivere liberi dal dolore e dipendenti, per mantenere quello stato, da un solo comandamento. L’essere “Nuove creature”, implica l’essere detentori di una promessa, di un futuro che chi non ha il nostro stato non può avere, ma anche di sofferenze e scelte che gli altri non hanno. Non si deve sottovalutare l’acqua, figura di qualcosa di presente, né il vino, figura della trasformazione che Cristo opera in ciascuno che lo ha cercato e trovato, né il contenitore, figura di ciò che non cambia, il nostro corpo che, in quanto di carne e non di pietra, tenderà a volere il sopravvento sfruttando quei sentimenti e reazioni che, di base e per natura, non possiamo non avere. In questo, nell’uomo naturale, siamo come tutti gli altri e commette un grave errore chi sottovaluta questo dato ritenendo che, una volta salvato e nuova creatura, non debba fare altro.

Gesù, il solo a poterlo fare, tramutò l’acqua in vino e “i suoi discepoli credettero in lui”, frase che indica un primo rafforzamento nella fede in lui ed è che troveremo altre volte. L’uomo che oggi crede in Lui può farlo perché ha accettato il contenuto della Scrittura, ma personalmente ritengo che le ragioni della fede risiedano nel fatto che, una volta conosciuta la nostra natura e inferiorità davanti a Dio, non si abbia un’alternativa: siamo acqua in un recipiente di pietra. Acqua non da bere, ma per un uso secondario.

Il vino di Gesù è stato ritenuto dal direttore del banchetto, che si occupava della direzione dei servi alla mensa e di tutto quanto la concerneva, come “buono” a tal punto da mettere quello precedente in subordine. Il direttore di mensa era una persona autorevole e il fatto che fossero presenti molti servi lascia intendere che l’ambiente fosse composto da persone altolocate nella società di allora. Era però necessario il suo giudizio, un’autenticazione ufficiale, e questo fu il motivo per cui Gesù disse di portarlo a lui per primo e non di servirlo come se niente fosse: la Sua opera andava certificata, quel vino andava classificato come migliore di qualunque altro e il mastro non sapeva del miracolo che, come leggiamo, fu abbondante, andando oltre le aspettative, di qualità eccellente e gratuito.

Ultima osservazione può essere fatta col numero delle “anfore”, sei, figura dell’imperfezione e dell’incompletezza sulla quale Gesù intervenne ordinando prima di riempirle fino all’orlo e poi mutandone il contenuto. Il Maestro, quindi, ha guardato in basso, all’imperfezione. “Ha guardato alla bassezza della sua serva”, come disse Maria nel suo cantico e guarda ad ogni essere umano che lo cerca, trasformandone aspettative, scopo ed esistenza.

C’è chi ha fatto osservare che, per far scaturire il vino della gioia, bisogna riempire abbondantemente il vuoto che si sente e si vive, con l’acqua della vita: è la vita del cristiano che va riempita con la luce e i progetti di Dio. Altri hanno notato che il primo miracolo di Mosè fu quello di cambiare l’acqua in sangue: esso portava giudizio e distruzione. Il primo miracolo di Gesù fu cambiare l’acqua in vino, figura di conforto e consolazione.

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02.07 – I PRIMI DISCEPOLI II/II (Giovanni 1.45-31)

I primi discepoli II/II (Giovanni 1.43-51)

 

43Il giorno dopo Gesù volle partire per la Galilea; trovò Filippo e gli disse: «Seguimi!». 44Filippo era di Betsàida, la città di Andrea e di Pietro. 45Filippo trovò Natanaele e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret». 46Natanaele gli disse: «Da Nàzaret può venire qualcosa di buono?». Filippo gli rispose: «Vieni e vedi». 47Gesù intanto, visto Natanaele che gli veniva incontro, disse di lui: «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità». 48Natanaele gli domandò: «Come mi conosci?». Gli rispose Gesù: «Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto l’albero di fichi». 49Gli replicò Natanaele: «Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!». 50Gli rispose Gesù: «Perché ti ho detto che ti avevo visto sotto l’albero di fichi, tu credi? Vedrai cose più grandi di queste!». 51Poi gli disse: «In verità, in verità io vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo».

 

Giunti al quarto giorno dopo la fine della tentazione di Nostro Signore nel deserto, va fatta una precisazione importante: dopo l’episodio dei quaranta giorni nel deserto, i sinottici scrivono che Gesù, una volta saputo che il Battista era stato arrestato da Erode, si ritirò nella Galilea, lasciò Nazareth e andò ad abitare a Cafarnao (Matteo 4.12,13) e che la sua fama si diffuse in tutta la regione, insegnava nelle sinagoghe tutti gli rendevano lode (Luca 4.14-15). A questo episodio Matteo e Marco fanno seguire la chiamata dei discepoli, Simon Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni mentre erano sulla riva del Mare di Galilea. Bisogna sapere che Matteo, Marco e Luca parlano del secondo viaggio in quella regione, mentre Giovanni del primo, che gli altri tre non raccontano, cioè quando il Battista stava ancora predicando.

Per inquadrare ciò che avvenne nel quarto giorno occorre tenere presente quanto avvenne in precedenza, quando Andrea, Giovanni e Simone fecero il loro primo incontro con Gesù: tutti e tre abitavano a Betsaida, erano discepoli di Giovanni Battista – probabilmente anche Pietro, anche se non è espressamente citato come tale – ed è naturale che Andrea e Giovanni parlassero di Lui, prima che ad estranei, a quelli che o erano della cerchia del loro maestro. Possiamo dire che, fino ad allora, la predicazione del Battista aveva prodotto tre risultati: prima venero i suoi discepoli, che erano stati convinti dalla sua predicazione, si erano battezzati e lo assistevano. Poi ci furono quelli che ne condivisero il messaggio, capendo che il regno di Dio era effettivamente vicino, convinti della necessità che il Messia che stava per arrivare andava accolto previo un cambiamento interiore visto in una revisione della loro vita e in un cambiamento di mentalità e azioni, e infine quelli che provavano sentimenti ostili perché sapevano che il sistema religioso sul quale avevano basato la loro esistenza e falsa rispettabilità poteva essere sconvolto.

Certo che Andrea e Giovanni, che avevano incontrato Gesù, (“venite e vedete”) ed aveva parlato loro brevemente tanto quanto bastava per convincerli e suscitare in loro la gioia vista nella frase “Noi abbiamo trovato il Messia”, non potevano fare altro che informare quanti avevano condiviso con loro i momenti del discepolato con Giovanni Battista. Fu così che Gesù, volendo partire per la Galilea perché si era compiuto l’incontro con il suo precursore e intendeva recarsi a Nazareth, oppure perché sapeva di doversi recare a Cana dove ci era stato invitato alle nozze, incontrò una persona, Filippo, cui gli disse “Seguimi”. È la prima chiamata diretta di Gesù a un uomo a cui non si rivolse a caso, ma sapendo che uno dei tre, o tutti, lo avevano informato.

Quel “Seguimi” da parte di Gesù indica la conoscenza che aveva non solo di Filippo, ma dell’uomo in genere: così come sapeva delle domande e delle aspettative di Filippo, conosce ciò che anima tutto l’essere di ciascuno anche oggi e interviene nel momento esatto in cui una persona lo cerca. Va rifiutata l’idea che vorrebbe i futuri apostoli seguire Cristo in base a una forza misteriosa che li spinse a farlo: questo può emergere se si legge superficialmente la cronaca dei sinottici, che ci parlano di un immediato abbandono delle “proprie reti” e del seguirlo immediatamente; Pietro e gli altri, in realtà, lo seguirono per delle ragioni che trovavano la loro radice nell’aver compreso che Lui era quello di cui parlavano la Legge e i profeti, dopo averlo ascoltato in privato e avere visto i miracoli che faceva: avevano individualmente sperimentato quel “Preparate le sue vie, raddrizzate i suoi sentieri” di cui abbiamo letto.

Così Filippo, che rientrerà nel numero dei dodici, seguì Gesù al suo solo invito, fondandosi sulla testimonianza che gli era stata riferita, riversando su di Lui la certezza che Lui solo era quello che era stato annunziato e che ora gli si rivelava. Andrea, Pietro e Giovanni dovettero aver parlato a Filippo con termini illuminanti, senza dubbi sul suo ruolo; dubbi che, se presenti, erano stati dissipati sia attraverso la visione dello Spirito sceso sotto forma di colomba, ma anche dai dialoghi che avevano avuto nel luogo in cui Gesù abitava temporaneamente. Eppure, nonostante tutto il loro impegno e fervore nel descrivere ciò che da Lui avevano sentito, a niente sarebbero approdate le loro parole se anche Filippo non fosse stato nelle loro condizioni, quelle di riconoscersi nell’attesa e di credere che questa stava per finire perché i tempi erano giunti.

Il testo evangelico ci propone due verbi con tempi diversi, “seguimi” e “Filippo trovò Natanaele”, il che ci parla di un intervallo di tempo: “Seguimi” allora si riferisce a un invito con uno scopo preciso, perché Gesù chiede a Filippo di condividere parte della sua vita terrena con uno scopo che dichiarerà più avanti proprio sulle rive del Mare di Galilea, “Vi farò pescatori di uomini”, intendendo un guadagno spirituale e non economico.

Giovanni, tornando all’incontro con Filippo, non riferisce il dialogo tra i due, ma ne riassume il senso: lo invita a seguirlo, ma gli lascia del tempo per riflettere; altrimenti quell’uomo non avrebbe mai potuto cercare e trovare Natanaele, o incontrarlo non per caso, e portarlo da lui.

C’è dunque un tempo che Dio dà all’uomo per considerare le sue proposte. Un tempo costruttivo in cui la mente ragiona, valuta le Sue proposte e decide di conseguenza. Così, a prescindere di quello che Gesù e Filippo si siano detti, l’importante è il risultato: Filippo dopo quell’incontro trovò – quindi lo andò a cercare – Natanaele e gli disse «Noi abbiamo trovato colui del quale Mosè nella Legge, e i profeti, hanno scritto: Gesù, figlio di Giuseppe, che è da Nazareth»”. Sono parole identiche, nel loro entusiasmo, a quelle che aveva detto Andrea a suo fratello Simone, ma più dettagliate, che rivelano il desiderio di Filippo di essere esauriente con l’amico. Sono parole che indicano anche una liberazione dall’attesa e al tempo stesso la gioia dell’aver trovato senza sapere cosa questo avrebbe implicato nel tempo. Non importava il futuro non perché poteva essere affrontato a caso sperando in qualcosa, ma l’aver trovato.

A questo punto emerge la persona di Natanaele, chiamato nell’elenco dei dodici Bartolomeo, cioè “Figlio di Tolomeo” che nell’elenco apostolico è nominato sempre accanto a Filippo. Bartolomeo-Natanaele era nato e vissuto a Cana di Galilea, lo stesso paese in cui Gesù andrà alle nozze che verranno celebrate da lì a tre giorni e in cui farà il suo primo miracolo. Cana era vicina a Nazareth e Natanaele conosceva bene il carattere primitivo e rozzo degli abitanti di Nazareth a tal punto da replicare “Da Nazareth può venire qualcosa di buono?”. Tradotto letteralmente si legge “Da Nazareth può esservi qualcosa di buono?”. Forse Natanaele, uomo istruito, alludeva anche al fatto che nessuna profezia menzionava mai quel paese, anche se sappiamo la sua etimologia, Nezer, “Germoglio”, riferito a Gesù, che sarebbe stato chiamato Nazareno.

La risposta di Filippo, “Vieni e vedi” è illuminante perché, di fronte all’amico che partiva già prevenuto a quell’annuncio, non cerca di convincerlo facendo di lui un proselito, ma gli lascia la libertà di restare nella sua convinzione o di modificarla.

Come Gesù aveva dimostrato ore prima di conoscere profondamente Simone a tal punto da dirgli come sarebbe stato chiamato alludendo alla posizione che avrebbe occupato, parla a Natanaele prima al presente e poi al passato; infatti “Ecco un israelita in cui non vi è inganno” (termine preferibile al tradotto “falsità”) è l’analisi del suo carattere di base e la frase “Prima che Filippo ti chiamasse, ti ho visto quando eri sotto il fico” ci parla dei suoi pensieri ed è quella che lo convinse.

Riflettendo sui due periodi che abbiamo letto, possiamo dire che il primo avrebbe potuto essere letto anche come una specie di saluto o il tentativo di un imbonitore di far presa su uno sprovveduto perché a tutti, anche a quelli che onesti non sono, fa piacere ricevere un complimento, per quanto immeritato. Ma se Gesù fosse appartenuto alla categoria degli impostori, non avrebbe mai potuto rispondere al “Come mi conosci?” di Natanaele rispondendogli di averlo visto, ancora prima di quell’incontro, quando era sotto il fico.

Cosa voleva dire? In questa frase di Gesù c’è la descrizione di due luoghi, uno fisico e uno spirituale. Non erano pochi gli ebrei che, per riposare, meditare o pregare, si recavano sotto un albero di fico, pianta che si trovava molto frequentemente da quelle parti o che avevano nel recinto che circondava la loro casa. Sotto il fico spesso si pregava anche ed è a questa azione che Gesù fa riferimento parlando con Natanaele, dimostrandogli di conoscere il contenuto delle preghiere che rivolgeva a Dio e che contemplavano soprattutto, alla luce della predicazione di Giovanni Battista, la rivelazione al popolo di Colui che sarebbe venuto dopo Giovanni. Credo che sia stato quell’ “Io ti ho visto” a colpire Natanaele: “visto” non perché di passaggio, ma perché era lì, presente in spirito. E qui il vedere di Gesù implica l’ascoltare. Se Natanaele sotto il fico non avesse pregato specificamente per la venuta del Cristo, non sarebbe stato così colpito dalle parole di Gesù.

Allo stesso modo Nostro Signore vede quelli che pregano oggi, allo stesso modo è presente, secondo la Sua promessa, nella Chiesa: “Dove due o tre sono radunati nel mio nome, io sono in mezzo a loro” (Matteo 18.20). Vedere implica quindi l’ascolto e soprattutto, come nel caso di Natanaele, la conoscenza perfetta che Gesù ha dell’essere umano, la stessa che incontreremo nell’episodio in cui, trovandosi a Gerusalemme, leggeremo che “Molti, vedendo i segni che compiva, credettero nel suo nome. Ma lui, Gesù, non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno delle testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo” (Giovanni 2.23-25). Notiamo i verbi, che potrebbero sembrare grammaticamente scorretti, ma che in realtà sono riportati in un’ottica spirituale: “conosceva quello che c’è – non “c’era” –: allora come oggi, niente è cambiato. Per questa Sua conoscenza, anche quindi anche di Natanaele e di tutti, sappiamo che è impossibile che non ci sia un piano per tutti coloro che sono chiamati da Dio.

Natanaele capì di essere conosciuto e gli rispose “Maestro, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il Re di Israele”, riconoscendogli in tal modo tanto la dignità personale – Figlio di Dio –, quanto quella ufficiale – Re di Israele – per la quale era atteso e per la quale non fu creduto dalla maggioranza del popolo, autorità religiose in primis.

A questo punto, negli ultimi due versetti, Gesù rispose al nuovo discepolo che avrebbe visto cose ben maggiori e, rivolto anche a Filippo, una frase che ha riferimento al sogno di Giacobbe che troviamo descritto in Genesi 28.12: “Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa”. Quello, assieme ad altri che ebbero a tanti uomini nell’Antico Testamento, fu un sogno profetico contemporaneo e futuro al tempo stesso: gli angeli, fedeli messaggeri di Dio, vengono descritti come portatori di messaggi dalla terra al cielo e viceversa. La storia letta nel libro della Genesi fino a quel punto, aveva mostrato episodi di quel tipo: pensiamo agli interventi su Agar, schiava di Sarai quando le predisse la nascita di Ismaele (Genesi 16), alla distruzione di Sodoma e Gomorra (19) o all’angelo che fermò Abrahamo poco prima che sacrificasse Isacco (22).

Nel sogno di Giacobbe gli angeli salivano e scendevano dal cielo, figura di un luogo inaccessibile all’uomo, mentre qui “D’ora innanzi vedrete il cielo aperto”, cioè la benevolenza di Dio rivelata, se non addirittura la rivelazione di Dio stesso. Presi in disparte i Suoi, disse loro “Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono” (Luca 10.24). Andrea e Filippo, certo con tutti gli altri e tutti gli uomini, peccatori salvati, avrebbero visto, letteralmente o figurativamente, il cielo aperto perché l’identità di Dio non sarebbe più stata vista attraverso un velo, ma per testimonianza diretta del Figlio di Dio, “Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, ma la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo. Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Giovanni 1.17,18). Legge da una parte, Grazia e Verità dall’altra. Legge come figura del cielo chiuso, Grazia e Verità come figura del cielo aperto.

Dalle parole di Gesù, i discepoli avrebbero visto gli angeli di Dio salire e scendere sopra il Figlio dell’uomo: pensiamo all’episodio della tentazione nel deserto o all’angelo venuto per confortarlo al Getsemani (Luca 22.42), e quel “sopra” indica l’oggetto delle loro attenzioni: Lui, annunciato a Maria e ai pastori. Ci sono anche le parole di Gesù che, testimoniando davanti ai farisei, dirà “…allora conoscerete che Io Sono e che non faccio nulla da me stesso, ma parlo come il Padre mi ha insegnato. Colui che mi ha mandato non mi ha lasciato solo, perché faccio sempre le cose che gli sono gradite” (Giovanni 8.28,299.

Ecco il cielo aperto: il profeta dell’Antico Patto aveva il compito, più che predire il futuro secondo la nostra parziale concezione occidentale, di trasmettere quanto Dio voleva rivelare: rimproveri, eventi, giudizi e soprattutto la venuta del Cristo; ora che questi era giunto, altro non restava che rivelare il piano individuale che Dio aveva ed ha per ciascun essere che il Lui crede. La via del cielo, della dimensione nuova ed eterna, non è più chiusa: “Nessuno può venire al Padre se non per mezzo di me”.

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