2.06 – I PRIMI DISCEPOLI I/II (Giovanni 1.35-42)

2.06 – I primi discepoli  I/II (Giovanni 1.35-42)

 

35Il giorno dopo Giovanni stava ancora là con due dei suoi discepoli 36e, fissando lo sguardo su Gesù che passava, disse: «Ecco l’agnello di Dio!». 37E i suoi due discepoli, sentendolo parlare così, seguirono Gesù. 38Gesù allora si voltò e, osservando che essi lo seguivano, disse loro: «Che cosa cercate?». Gli risposero: «Rabbì – che, tradotto, significa Maestro -, dove dimori?». 39Disse loro: «Venite e vedrete». Andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui; erano circa le quattro del pomeriggio. 40Uno dei due che avevano udito le parole di Giovanni e lo avevano seguito, era Andrea, fratello di Simon Pietro. 41Egli incontrò per primo suo fratello Simone e gli disse: «Abbiamo trovato il Messia» – che si traduce Cristo – 42e lo condusse da Gesù. Fissando lo sguardo su di lui, Gesù disse: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa» – che significa Pietro.

 

Dopo la tentazione nel deserto vista nel capitolo scorso, riannodare le file della cronologia non è facile. Un punto fermo è che solo superando le tentazioni nel deserto Gesù avrebbe potuto iniziare ad organizzarsi chiamando attorno a sé dei discepoli. Poiché a Matteo premono i contenuti, presenta un racconto essenziale collocando la chiamata dei primi discepoli dopo l’arresto di Giovanni, il suo abbandono di Nazareth con relativo trasferimento a Capernaum. Quasi lo stesso fa Marco, Luca parla del suo ritorno in Galilea e del fatto che insegnava nelle sinagoghe. L’apostolo Giovanni però era presente fin dall’inizio, essendo già discepolo del Battista e ci scrive dati più particolari senza però riferire il momento preciso in cui avvenne il battesimo di Gesù. In compenso è molto attento a contare i giorni. Leggiamo il racconto, su cui ci siamo già soffermati, delle sue risposte ai sacerdoti e ai leviti, poi quelle che diede ai farisei fino a quando non scrive “Il giorno dopo”: al capitolo 1 leggiamo “29Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: «Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me». 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». 32Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio»”. Viene quindi da pensare che Giovanni inizi a parlare del Battista dopo il battesimo di Gesù e che il racconto delle sue risposte alle domande prima agli inviati dei sacerdoti e loro associati e poi a loro stessi, sia stato scritto per dare una sorta di contemporaneità al racconto della tentazione nel deserto di Gesù. In 1.19 Giovanni scrive “Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo”, poi abbiamo una delegazione non più di inviati, ma di farisei che gli chiedevano ragione del suo battezzare, segno che tra un incontro e l’altro dovette passare del tempo: tempo per gli inviati di tornare a Gerusalemme, tempo per i farisei e loro simili di riflettere, decidere di recarsi là di persona, tempo per recarsi sulle rive del giordano: uno spazio che può essere ragionevolmente compreso nei quaranta giorni delle tentazioni. Gesù allora ritorna da Giovanni, o meglio passa nei pressi dove stava con due dei suoi discepoli, “il giorno dopo” che il Battista aveva risposto alle domande che gli furono rivolti dalle autorità religiose di allora.

Iniziano qui i primi incontri con quegli uomini, ma nel corso della vita terrena di Gesù anche donne, determinanti nella storia della salvezza in base alle loro caratteristiche interiori. I primi, futuri discepoli di Gesù lo erano di Giovanni Battista, segno che avevano creduto al suo messaggio, avevano ricevuto il segno esteriore del ravvedimento, del volersi predisporre a ricevere il Cristo che sarebbe venuto di lì a poco, quindi che aspettavano la sua manifestazione. Erano Andrea, fratello di Pietro, e Giovanni autore del Vangelo che, secondo la sua abitudine, preferisce parlare di sé in terza persona, senza nominarsi direttamente. A questi, ebrei osservanti che ben sapevano la funzione dell’agnello come animale sacrificale, il Battista indicò Gesù che passava: “Ecco l’Agnello di Dio”, che loro potevano intravedere come Colui che li avrebbe liberati dal peccato e che per noi è immagine della trasformazione secondo 1 Pietro 1.18,19: “Voi sapete che non a prezzo di cose effimere, come argento e oro, foste liberati dalla vostra vuota condotta ereditata dai padri, ma con il sangue prezioso di Cristo, agnello senza difetti e senza macchia. Egli fu predestinato prima della fondazione del mondo, ma negli ultimi tempi si è manifestato per voi”.

Ecco un nuovo elemento che in quel momento Andrea e Giovanni non potevano sapere: Gesù venne nel tempo opportuno, ma prima che l’universo fosse creato aveva già accettato il suo compito, in previsione della rovina portata da Satana in Eden. “Negli ultimi tempi”, cioè in quello spazio breve della storia in rapporto all’eternità, si è manifestato per noi, cioè per ogni individuo che crede. E vengono in mente le parole di Maria, “Ha guardato alla bassezza della sua serva”.

 

Preso atto delle parole del Battista, ad Andrea e Giovanni non rimaneva altro che cercare di capire chi fosse quell’uomo che stava passando nei pressi: va bene, era l’Agnello di Dio, ma cosa pensava, dove viveva, cosa avrebbe fatto? Per loro nulla era più importante dell’attesa di qualcosa che non conoscevano nei dettagli, ma che prima o poi si sarebbe verificata. “Lo seguirono” indica una reazione immediata, dettata dall’interesse, di conoscere. Gesù, voltandosi, li vede e si rivolge a loro con una semplice domanda, non “chi”, ma “Cosa cercate”, un distinguo fondamentale: è molto facile sapere chi si cerca. Quando cerchiamo una persona, c’è sempre un motivo. Ma la domanda “cosa cerchi”, a meno che non si tratti di un oggetto, un utensile, richiede una risposta molto più impegnativa, obbliga a guardarsi dentro. Se uno chiede al suo prossimo cosa cerca, lo mette solitamente in imbarazzo perché lo obbliga a rivelare i suoi pensieri, ammesso che intenda rispondere. Forse, cosa cerca non lo sa nemmeno. Allora, se la risposta giunge, il risultato è sempre riferito al benessere della persona: sto male e vorrei stare bene, sto bene ma vorrei stare meglio; pochi sono coloro che si accontentano del proprio stato, quando non intervengono patologie gravi che portano l’essere umano ad una smodata ricerca di denaro, averi e potere.

Andrea e Giovanni gli chiedono dove abitasse. Non fu una risposta dettata dall’imbarazzo o perché, colti alla sprovvista, gli chiesero la prima cosa che venne loro in mente: lo avevano appena chiamato “Rabbi”, cioè Maestro, e il chiedergli dove abitasse implicava che lo volevano ascoltare così come la risposta che ebbero, “Venite e vedete”, era spesso data dai rabbini ai loro discepoli quando dovevano affrontare delle importanti questioni dottrinali. “Venite e vedete” nel senso di considerare, di ascoltare e fare le relative, autonome valutazioni. Gesù non impone loro nulla, non li chiama per primo, ma sono Andrea e Giovanni a farsi notare seguendolo e da lì poi si instaurerà una profonda relazione, dopo che saranno andati e lo avranno ascoltato.

Andarono dunque e videro dove egli dimorava”, non in una casa perché non si era ancora trasferito, ma era solo giunto lì per farsi battezzare. È molto probabile che Gesù abitasse in una specie di capanna, di quelle usate allora dai guardiani dei campi. Era quello un periodo particolare: abitava a Nazareth, ma aveva trascorso i quaranta giorni nel deserto, si sarebbe trasferito dalla sua città a Capernaum, Giovanni Battista stava per essere arrestato da Erode Antipa e c’era l’imminente viaggio a Cana con sua madre e i parenti, per cui un’abitazione nel senso vero e proprio del termine non sarebbe servita a nulla.

C’è però un particolare che Giovanni inserisce nel suo racconto ed è, oltre che “quel giorno rimasero con lui”, l’orario, che la nostra traduzione italiana riporta ne “le quattro del pomeriggio” dall’originale “era intorno le dieci ore”; si tratta dei diverso modo di contare le ore del giorno secondo i romani, che come ancora oggi si calcolano dalla mezzanotte, e gli ebrei, che iniziano a partire dalle nostre sei del mattino.

Ritengo che Giovanni annota l’orario per un motivo preciso, far sapere che lui e Andrea si intrattennero con Gesù per circa due ore poiché alle sei del pomeriggio si chiudeva la giornata secondo il giudaismo. Tale chiusura non va intesa come se da quell’ora esistesse un coprifuoco e nessuno potesse uscire di casa per cui l’ipotesi che si può fare è che, prima che arrivasse un nuovo giorno, Andrea e Giovanni restassero con Gesù a parlare, Andrea trovasse Pietro e lo conducesse al suo nuovo Maestro.

Giovanni, che allora doveva avere tra i 19 e i 20 anni, che sarà il più giovane dei gruppo dei dodici, non scrive il contenuto dei dialoghi intercorsi quel giorno, ma furono intensi ed esaustivi a tal punto da riferire di Andrea che, non appena incontrato Simone, gli disse entusiasta “Noi abbiamo incontrato il Messia”: non un Rabbi qualunque, ma quello che tutto Israele attendeva da tempo. La presentazione che Andrea fece a Simone, forse anche lui discepolo del Battista, fu presa sul serio visto che entrambi sapevano molto bene che Giovanni Battista annunciava l’arrivo di qualcuno molto più grande di lui, uno a cui lui non era degno di sciogliere il laccio dei sandali e neppure di portarli.

A differenza di quanto avvenuto precedentemente, Giovanni riporta un particolare dell’incontro di Gesù con Pietro: lo guarda in volto e gli dice “Tu sei Simone, figlio di Giona; tu sarai chiamato Cefa (che vuol dire Pietra)”. Qui possiamo fare qualche osservazione, la prima tecnica: come abbiamo avuto modo di leggere precedentemente, Giovanni inserisce delle brevi note: spiega che Cefa vuol dire Pietra – alcuni traducono “Pietro” –, prima informa i lettori che il termine Messia “interpretato vuol dire il Cristo”, prima ancora che Rabbi “tradotto, significa Maestro”, segno che scrive per lettori non ebrei. Cefa, per inciso, può essere tradotto anche con “roccia”.

La seconda osservazione è che lo chiama per nome e gli ricorda il padre, come farà spesso nelle occasioni importanti, come ad esempio dopo l’averlo riconosciuto come “il Cristo, il Figlio dell’Iddio vivente”: “Tu sei beato Simone, figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli” (Matteo 16.17); ancora ritroviamo questo ricordo nelle tre domande dopo la resurrezione, per riabilitarlo dei suoi tre rinnegamenti: “Simone, figlio di Giona, mi ami tu?” (Giovanni 21.15,16,17). Simone era il primogenito e non possiamo escludere che avesse ereditato il carattere del padre o che comunque fosse per lui importante per ragioni a noi ignote. Può anche essere più semplicemente che, chiamandolo “figlio di Giona”, Gesù volesse ulteriormente personalizzare il suo messaggio alludendo al fatto che, se di “Simone” potevano essercene tanti, solo lui era “figlio di Giona”.

Simone, figlio di Giona, sarebbe stato chiamato Cefa, così come Saulo di Tarso sarebbe stato chiamato Paolo. Cefa è una parola aramaica che significa pietra, o roccia e che ha connessione al carattere di quest’uomo che, da impulsivo, sanguigno, tendente a fare affermazioni avventate o a contare troppo sulle sue forze salvo poi pentirsene, fu trasformato dalla Grazia in un personaggio determinante e dominante nel libro degli Atti. Primo a riconoscere Gesù come Figlio di Dio, ma anche unico a rinnegarlo perché terrorizzato; pronto a difendere il suo maestro anche con le armi, diventerà un Suo potente testimone e il personaggio più importante della Chiesa di Gerusalemme.

Cefa fu così indicato dal suo futuro Maestro e sarà oggetto di numerosi suoi interventi che gli anticiperanno il suo destino: sulla sua affermazione che vede in lui “il figlio dell’Iddio vivente” edificherà la Sua Chiesa (Matteo 16.18), di fronte alla dichiarazione in base alla quale si credeva pronto a seguire Gesù fino alla morte, gli viene ricordato che lo avrebbe rinnegato tre volte prima del canto di un gallo. Poi abbiamo la frase che allude al martirio che avrebbe subìto: “In verità, in verità io ti dico che quando tu eri giovane, ti cingevi e andavi dove volevi, ma quando sarai vecchio stenderai le tue mani e un altro ti cingerà e ti condurrà là dove tu non vorrai” (Giovanni 21.18). Secondo la tradizione il martirio di Pietro avvenne a Roma sotto Nerone tramite crocifissione, a testa in giù per richiesta di Pietro. Così tramandano Girolamo, Tertulliano, Eusebio e Origene vissuti attorno all’anno 200. Di certo c’è una lettera di Clemente di Roma, datata tra il 95 e il 97 in cui si legge “Per invidia e per gelosia i più validi e i più importanti pilastri della Chiesa hanno sofferto la persecuzione e sono stati sfidati fino alla morte. Volgiamo il nostro sguardo ai santi Apostoli. San Pietro, che a causa di un‘ingiusta invidia, soffrì non una o due, ma numerose sofferenze, e, dopo aver testimoniato con il martirio, assunse alla gloria che aveva meritato”.

Si conclude così quello che per Giovanni è il terzo giorno. Nel primo abbiamo avuto le risposte del battista agli Scribi, Farisei e Sadducei. Il secondo ha visto la testimonianza che indicò in Gesù “L’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo”. Quella fu l’occasione per testimoniare di ciò che aveva visto quando lo aveva battezzato, quaranta giorni prima. Nel terzo abbiamo avuto i colloqui che abbiamo esaminato e nel quarto, che vedremo, ci saranno altri due incontri, con dinamiche simili eppur diverse, con Filippo e Natanaele, chiamato anche Bartolomeo.

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02.05 – LA TENTAZIONE NEL DESERTO II/II (Matteo 4.1-11)

La tentazione nel deserto II/II (Matteo 4.1-11)

1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». 5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». 7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». 8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». 11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

 

Matteo scrive per gli ebrei ed è forse per questo che pone le altre due tentazioni in modo diverso da Luca. Entrambi non spiegano come avvenne lo spostamento dal deserto alla città santa, se corporalmente o in spirito. Matteo, in una traduzione più corretta, collega il secondo episodio con l’avverbio “allora”: “Allora il diavolo lo portò con sé nella santa città e lo pose sul pinnacolo del tempio”; “Allora” che sta a indicare una conseguenza, “a quel punto”, “stando così le cose”.

Il pinnacolo del tempio era un punto particolare: il “portico di Salomone” si congiungeva al “portico regio” di Erode: lì c’era una grande torre che si innalzava di circa 213 metri sulla valle del torrente Kedron più in basso. Giuseppe Flavio narra nelle sue Antichità Giudaiche che era impossibile affacciarsi da essa senza provare un violento senso di vertigine.

Ancora una volta abbiamo il “Se tu sei Figlio di Dio” questa volta accompagnato da una citazione scritturale dal Salmo 91: “1Chi dimora nel riparo dell’Altissimo, riposa all’ombra dell’Onnipotente. 2Io dico all’Eterno: «Tu sei il mio rifugio e la mia fortezza, il mio Dio, in cui confido». 3Certo egli ti libererà dal laccio dell’uccellatore e dalla peste mortifera. 4Egli ti coprirà con le sue penne e sotto le sue ali troverai rifugio; la sua fedeltà ti sarà scudo e corazza. 5Tu non temerai lo spavento notturno, né la freccia che vola di giorno, 6né la peste che vaga nelle tenebre, né lo sterminio che imperversa a mezzodì. 7Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma a te non si accosterà. 8Basta che tu osservi con gli occhi e vedrai la retribuzione degli empi. 9Poiché tu hai detto: «O Eterno, tu sei il mio rifugio», e hai fatto dell’Altissimo il tuo riparo, 10non ti accadrà alcun male, né piaga alcuna si accosterà alla tua tenda. 11Poiché egli comanderà ai suoi Angeli di custodirti in tutte le tue vie. 12Essi ti porteranno nelle loro mani, perché il tuo piede non inciampi in alcuna pietra. 13Tu camminerai sul leone e sull’aspide, calpesterai il leoncello e il dragone. 14Poiché egli ha riposto in me il suo amore, io lo libererò e lo leverò in alto al sicuro, perché conosce il mio nome. 15Egli mi invocherà e io gli risponderò; sarò con lui nell’avversità; lo libererò e lo glorificherò. 16Lo sazierò di lunga vita e gli farò vedere la mia salvezza”.

Qui Satana, che conosce quindi la Scrittura e la distorce a suo favore. cambia strategia: non più una tentazione diretta, ma un discorso scritturale: alla luce del testo che abbiamo letto, Gesù viene invitato a gettarsi da quella torre solo apparentemente perché tanto la custodia garantita dagli Angeli ne avrebbe impedito la morte; in realtà con quelle parole invita il Salvatore a compiere un miracolo eclatante perché il popolo potesse credere in lui. Il testo non dice se la tentazione sia avvenuta di notte o di giorno, ma siccome Satana non aveva bisogno di credere in Gesù perché già lo conosceva, mette in opera una strategia volta a fare sì che il suo bersaglio, indebolito dalla fame e quindi nella mente, scegliesse un’alternativa più comoda al dover predicare, guarire individualmente infermi e indemoniati: buttarsi giù dal pinnacolo e atterrare senza danno. Tutto questo anche perché la tradizione religiosa ebraica sosteneva che il Messia si sarebbe manifestato proprio sul pinnacolo. Qui, allora, la tentazione è quella di mettere Gesù nelle condizioni di compiere un miracolo che non convertisse nessuno, ma fosse spettacolare, grandioso, che mettesse il popolo nelle condizioni di credere a quel condottiero vittorioso e invincibile che aspettavano.

Tutti i miracoli compiuti da Gesù, invece, avvennero sempre e solo perché l’uomo capisse e lo riconoscesse. Anche quello della moltiplicazione dei pani e dei pesci, fatto per sfamare 5.000 persone (Matteo 15.32-39), fu la dimostrazione tanto della Sua compassione quanto della totalità dell’amore di Dio che non abbandona alla fame né terrena, né spirituale, la propria creatura.

Proprio riguardando ai miracoli compiuti va osservato che, se Gesù non ne fece mai uno per sé, non ne fece mai neppure per dimostrare con manifestazioni inutili di essere quello che era. L’essenzialità di Dio è tale per cui va creduto per quello che è e soprattutto per tutto quello che ha fatto più che per miracoli che può sempre fare ancora. Del resto, un miracolo come la creazione di qualsiasi forma di vita e l’equilibrio del sistema è già di per sé molto eloquente. Infatti l’apostolo Paolo scrive che “le sue perfezioni invisibili, ossia la sua eterna potenza e divinità, vengono contemplate e comprese dalla creazione del mondo attraverso le opere da Lui compiute” (Romani 1.20).

Un miracolo deve avere un perché, un’origine e un fine spirituale e non è, né può essere, una manifestazione di forza o potenza fine a se stessa. Ricordiamo le parole conclusive della parabola del ricco e Lazzaro in Luca 16.19-31: alla richiesta di una manifestazione miracolosa ai suoi fratelli ancora in vita “affinché non vengano in questo luogo di tormenti”, Abramo risponde “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino quelli”.

Ecco perché la richiesta di Satana era assurda e soprattutto fuorviante ed ottenne la risposta “Non tentare il Signore Iddio tuo”, oppure come nella nostra traduzione “Non metterai alla prova”, cioè non chiedergli di agire senza un motivo valido, che poi è il “pregherò con intelligenza” dell’apostolo Paolo, visto che Dio non tenta, né può essere tentato da alcuno. Tentare nel senso di provocarlo, come in questo caso, sì. Man mano che si procede nella lettura dei vangeli, come stiamo facendo, scopro tutta la mia ignoranza e impotenza perché i temi che si possono affrontare e studiare sono innumerevoli: si tenta il Signore parlando di lui senza riflettere ed esaminare noi stessi per primi come fecero ad esempio gli amici di Giobbe. Si tenta il Signore riducendolo a persona che ci debba ascoltare a tutti i costi. Si tenta il Signore non procedendo nelle vie della carità pur nominandolo e confessandolo davanti agli altri percorrendo così la stessa via di Israele che, convinto di camminare sui sentieri di giustizia si sentì dire “Voglio misericordia e non sacrificio” perché credevano, coi loro sacrifici formali per i peccati commessi, di poter regolare i debiti che avevano con Lui.

 

L’ultima tentazione è interessante perché pone un dubbio: a che scopo mostrare tutti i regni della terra ad uno che re lo era già? Lo era, ma “non di questo mondo”. Gesù era prima di tutto un uomo stremato. La forza della terza tentazione, seconda secondo Luca, stava tutta nell’apparenza perché Satana gli mostra dei regni umani, temporanei, pieni di una gloria e una ricchezza che non avevano nulla a che vedere con quella che aveva e avrebbe avuto dopo la Sua resurrezione. Sono indicative le parole dell’Avversario che riferisce Luca in proposito: “Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai davanti a me, tutto sarà tuo” (4,6).

A Satana è stato dato tutto il potere e la gloria dei regni della terra. Inutile aspettarsi giustizia da loro, solidarietà, comprensione, leggi che difendano i deboli. Sono regni che raggiungeranno il loro apice con quella “Babilonia la grande” che cadrà inevitabilmente, ma che produrrà ogni sofferenza ed empietà a danno di coloro che vorranno salvarsi da essa. Babilonia sarà il trionfo temporaneo di Satana, che la dominerà utilizzando dei suoi ministri come ha fatto da sempre. Fin’ora nella nostra lettura cronologica abbiamo incontrato Erode il Grande, prima di lui nell’Antico Testamento ve ne furono tanti altri e altri ancora ne verranno tanto nell’epoca della Scrittura quanto in quelli successivi. Satana, definito “Il principe” o “L’Iddio di questo mondo”, con questa tentazione, vorrebbe fare di Gesù un suo collaboratore.

Dio di questo mondo” è un’espressione terribile perché rivela che gli uomini che non appartengono al Dio Vero ed Eterno appartengono di fatto all’altro che li porta alla rovina. Rare sono le persone che si dichiarano satanisti, ricorrendo a rituali specifici di adorazione a lui, ma molti sono quelli che si comportano come se il Dio vero non esistesse, convinti di essere liberi pensatori e padroni del loro arbitrio e destino, ma che in realtà appartengono al “Dio di questo mondo” e, comportandosi così, lo servono. Servono e inconsapevolmente omaggiano un dio illusionista che fa loro credere che la vita che vivono sulla terra sia l’unica e che li illude su una morte che si sa esista, ma si crede che venga il più tardi possibile: c’è tempo.

Mentre il Dio Creatore si rivela e si vuol rivelare, quello di questo mondo spesso si mimetizza. Mentre il Dio Creatore offre a chi crede in lui la vita eterna, quello di questo mondo propone miraggi visti in attese che, si realizzino o meno, sono destinate a frantumarsi per poi sfociare nella distruzione dell’anima vista nell’espressione “pianto e stridore di denti” usata spesso da Nostro Signore. Un caro fratello diceva che chi vuol vivere la propria vita come se Dio non esistesse, in realtà la imposta sul modello di una favola.

La lettura del Salmo 2, allo stesso tempo profetico e attuale, può aiutare a riassumere quanto detto:

 

1Perché le genti sono in tumulto e i popoli cospirano invano 2 Insorgono i re della terra e i prìncipi congiurano insieme contro il Signore e il suo consacrato: 3 »Spezziamo le loro catene, gettiamo via da noi il loro giogo!».4 Ride colui che sta nei cieli, il Signore si fa beffe di loro. 5 Egli parla nella sua ira, li spaventa con la sua collera: 6 »Io stesso ho stabilito il mio sovrano sul Sion, mia santa montagna». 7 Voglio annunciare il decreto del Signore. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio,
io oggi ti ho generato. 8 Chiedimi e ti darò in eredità le genti e in tuo dominio le terre più lontane. 9 Le spezzerai con scettro di ferro, come vaso di argilla le frantumerai». 10 E ora siate saggi, o sovrani; lasciatevi correggere, o giudici della terra; 11 servite il Signore con timore e rallegratevi con tremore. 12 Imparate la disciplina, perché non si adiri e voi perdiate la via: in un attimo divampa la sua ira. Beato chi in lui si rifugia”.

 

            Satana chiede a Gesù un segno esteriore di adorazione, il prostrarsi: un modo per dichiararsi vinto, inferiore. Possiamo pensare che questa sia l’ultima delle tre tentazioni perché è solo in questa che l’avversario si rivela pienamente come antagonista di Dio senza dire “Se tu sei il Figlio di Dio”. Chiede di essere adorato con la prostrazione, atto mediante il quale la persona esprime tutta la propria inferiorità ponendosi in una posizione di assoluta subordinazione.

La risposta fu “Vattene, Satana. Sta scritto infatti «Adora il Signore Iddio tuo, e a Lui solo rendi il culto»”. Fu a quel punto che il diavolo lo lasciò. Fu questo episodio che mise Gesù nella condizione di dire un giorno, a ragion veduta, “Fuggite il diavolo, ed egli fuggirà da voi”.

Giuseppe Ricciotti fa un’interessante osservazione sulle tre tentazioni scrivendo che tutte mostrano una chiara relazione con l’ufficio messianico di Gesù, al quale contrastano. La prima lo vorrebbe indurre ad un messianismo comodo ed agiato; la seconda, ad un messianismo raccomandato a vuote esibizioni taumaturgiche; la terza, ad un messianismo che si esaurisca nella gloria politica. Se ci pensiamo, sono le stesse richieste di quella parte del popolo ebraico che si pose in contrasto con Lui.

All’allontanamento dell’Avversario fa immediato seguito “Ed ecco, degli angeli vennero a lui e lo servivano”, cioè gli portarono del nutrimento, lo stesso verbo usato in Marco 1.31 quando parla della suocera di Pietro che Gesù guarì dalla febbre.

Con l’episodio della tentazione fu fatto un grande passo in avanti nel cammino verso la salvezza dell’uomo: Gesù aveva vinto sul peccato e poteva iniziare da lì a pochissimo tempo il Suo Ministero. Lo farà andando ad abitare in Capernaum, o Cafarnao, e scegliendo i primi discepoli. E Marco? Abbiamo letto che riporta un dato singolare cioè, oltre che parlare degli angeli che lo servivano, “stava con le bestie selvatiche”, sintomo dell’assenza di Satana e figura di quel periodo in cui sarà legato per mille anni e sulla terra non ci sarà nessuna forma di violenza neppure nel regno animale, quello in cui, in Isaia 11, viene detto 6Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. 7La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. 8Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso. 9Non agiranno più iniquamente né saccheggeranno in tutto il mio santo monte, perché la conoscenza del Signore riempirà la terra come le acque ricoprono il mare.”

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02.04 – LA TENTAZIONE NEL DESERTO I/II (Matteo 4.1-11)

La tentazione nel deserto I/II (Matteo 4.1-11)

1 Allora Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto, per essere tentato dal diavolo. 2Dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. 3Il tentatore gli si avvicinò e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pane». 4Ma egli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio». 5Allora il diavolo lo portò nella città santa, lo pose sul punto più alto del tempio 6e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù; sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo ed essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra». 7Gesù gli rispose: «Sta scritto anche: Non metterai alla prova il Signore Dio tuo». 8Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria 9e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai». 10Allora Gesù gli rispose: «Vattene, Satana! Sta scritto infatti: Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto». 11Allora il diavolo lo lasciò, ed ecco, degli angeli gli si avvicinarono e lo servivano.

 

Questo episodio è narrato dai soli sinottici. Giovanni, dopo il battesimo di Gesù, passa a raccontare l’incontro con Filippo, fratello di Andrea, che diventerà suo discepolo. Marco accenna solamente a quanto abbiamo letto usando le parole “E subito lo Spirito lo sospinse nel deserto e nel deserto rimase quaranta giorni, tentato da Satana. Stava con le bestie selvatiche e gli angeli lo servivano” (1.12.13. Luca, salvo un piccolo ma non trascurabile particolare che vedremo alla fine, è simile al racconto che abbiamo letto.

Riflessione preliminare: Satana è un nome a lui attribuito che ne designa la qualifica, il compito, e significa “l’avversario”. Di lui parlano il profeta Ezechiele (che ci racconta le sue origini e del ruolo che rivestiva fino a quando non si ribellò a Dio) e il libro di Giobbe nei cui primi due capitoli di Giobbe sono narrati i dialoghi tra Dio e il Tentatore tesi a provare questa persona che, per giustizia e riguardo al suo Creatore, aveva un comportamento irreprensibile. Dio disse di lui all’Avversario “Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra, timorato di Dio e lontano dal male” (1.8).

Giobbe, per quei tempi e a differenza di Gesù, testimoniava con la sua ricchezza che le benedizioni di Dio erano sopra di lui stante il modo con cui si comportava rendendo grazie per ogni cosa, pregando continuamente per i suoi figli perché forse con il loro comportamento potevano avere fatto qualcosa di sgradito a Dio ed usava pietà verso il suo prossimo. Gesù, figlio di Dio e Dio stesso, venuto con una missione precisa, aveva fino ad allora esercitato la propria sottomissione alla Legge, fatto il suo primo atto pubblico ricevendo il battesimo di Giovanni ed era stato annunciato agli uomini con la discesa dello Spirito Santo sotto forma di colomba. Era figlio di Dio, ma anche uomo. E per questo Satana aveva chiesto che fosse provato (più avanti Gesù dirà ai suoi discepoli “Satana ha chiesto di vagliarvi come si vaglia il grano”).

L’avversario, dal latino adversus, è colui che si oppone a qualcuno o a un progetto, e fa tutto ciò che è in suo potere per conseguire una vittoria su di lei. In questo caso Gesù si trovò di fronte alla stessa persona che, profondo conoscitore dell’animo umano e delle sue debolezze, fu in grado di porre le strategie più opportune per rovinare irrimediabilmente, anche se fino a un tempo stabilito, il progetto che Dio aveva in origine per l’umanità di cui Adamo ed Eva erano i capostipiti. Così farà anche dopo, contrapponendo costantemente all’uomo desideroso di percorrere i sentieri del Bene, persone intente a seguire quelli del Male o comunque alternativi a quelli di Dio, come da Caino in poi. Nel nostro caso si tratta di un personaggio, l’Avversario, che aveva tutto l’interesse al fatto che anche solo una delle tentazioni da lui ordite avesse successo perché, in qual caso, la “progenie della donna” non gli avrebbe potuto schiacciare il capo. In pratica, se una sola delle tentazioni fosse andata in porto, Gesù non avrebbe più potuto essere l’Agnello di Dio, perché non innocente e senza difetto né macchia, e neppure avrebbe potuto togliere il peccato del mondo perché avrebbe perso, esattamente come il capostipite della razza umana, l’innocenza. E non a caso Gesù è definito “l’ultimo Adamo”. Infatti: “45il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita. 46Non vi fu prima il corpo spirituale, ma quello animale, e poi lo spirituale. 47Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. 48Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. 49E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. 50Vi dico questo, o fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità” (1 Corinti 15.45-50). La traduzione corretta del verso 1 è “Allora Gesù fu condotto nel deserto dallo Spirito per essere tentato dal diavolo (lett. Avversario/ingannatore)”, che pone l’accento su uno scopo preciso: venire provato prima di iniziare il suo ministero. Il tempo che Gesù passò nel deserto viene contato in quaranta giorni, numero che indica un periodo e non necessariamente una quantità precisa: ricordiamo il diluvio, in cui piovve per 40 giorni e altrettante notti (Genesi 7.4), Noè che aprì la finestra dell’arca dopo 40 giorni (Genesi 8.6), i giorni in cui Mosè rimase sul monte (Esodo 24.18), Elia, che camminò per lo stesso tempo (1 Re 19.8), i 40anni nel deserto del popolo di Israele, condannato a non trovare la strada per l’idolatria commessa e la fede, praticamente nulla, dimostrata.

Il tempo di Gesù nel deserto non fu facile, tormentato dalla compagnia del tentatore che, se leggiamo i particolari del testo, non rimase lì ad aspettare che il suo bersaglio avesse fame: ci fu tutta una serie ininterrotta di tentazioni di cui sono citate solo le più rappresentative; il numero tre sta ad indicare “tutto il possibile” e solo alla fine Luca scrive “Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da lui fino al momento fissato”. Dopo aver esaurito ogni tentazione, cioè dopo avere fatto tutto ciò che era in suo potere per farlo cadere. E “Fino al momento fissato”, cioè alla croce, quando potrà ferire la progenie della donna al calcagno con la morte.

Il racconto di Matteo differisce da quello di Luca per la cronologia delle tentazioni, che sono però le stesse: Matteo mette nell’ordine (1) le pietre che avrebbero potuto diventare del pani, (2) il gettarsi giù dal pinnacolo del tempio e (3) i regni della terra, Luca inverte la 2 e la 3, ma ciò non cambia il senso delle iniziative portate avanti da Satana che, conoscendo l’umanità di Gesù, lo tenta nel modo più naturale, cioè lo prende per fame. C’è un particolare molto interessante visto nel modo con cui inizia il suo discorso: “Se tu sei Figlio di Dio”, cioè lo definisce allo stesso modo con cui il Padre lo presentò al battesimo di Giovanni, “Questi è il mio Figlio, l’amato, in lui ho posto il mio compiacimento” (Matteo 3.17), segno che, tra i tanti presenti, c’era anche lui. Ricordiamo ancora una volta il libro di Giobbe quando, alla domanda “Da dove vieni?”, Satana rispose “Da un giro sulla terra che ho percorso”. La terra, corrotta dal peccato, non può che essere il luogo ideale per questo essere che sta scritto “Si aggira come un leone che ruggisce cercando chi poter divorare”.

La prima tentazione fu quella per fame, cioè quella che coinvolgeva l’immediatezza umana di Gesù: fisiologicamente non gli era possibile sottrarsi alla necessità di mangiare e non aveva modo di soddisfarla. Dopo un lungo periodo senza alimentazione, la sensazione di fame si trasforma in uno stato progressivamente più grave, fino a diventare acutamente dolorosa. Satana non gli andò incontro, non comparve davanti a lui all’improvviso, ma gli si accostò, cioè gli andò vicino gradualmente quasi a non volerlo apparentemente disturbare per porsi nel modo più naturale possibile: “Se tu sei Figlio di Dio, dì che queste pietre diventino pani”, cioè in altri termini: “Visto che sei stato presentato come l’amato Figlio, puoi benissimo saziarti compiendo un miracolo”.

L’Avversario sapeva benissimo chi era Gesù e non chiede un miracolo per credere in Lui, ma cerca di sfruttare la Sua fame per indurlo a volgere a suo vantaggio il Suo essere Figlio di Dio compiendo un miracolo per sé, cosa che non fece mai. Vero è che nel testo evangelico leggiamo episodi apparentemente inspiegabili, come ad esempio quando a Gerusalemme volevano prenderlo per lapidarlo in cui è scritto “…ma egli sfuggì dalle loro mani” (Giovanni 10.39) oppure quando, prima di catturarlo, “indietreggiarono e caddero a terra” (Giovanni 18.16), ma questo è da attribuire al fatto che era stabilito un solo momento perché fosse dato “in mano agli uomini” e non altri.

Se Gesù avesse compiuto il miracolo del mutare le pietre in pani, avrebbe perso la sua identificazione con l’uomo che certamente non avrebbe potuto fare una cosa simile. Sappiamo infatti che Nostro Signore non fece mai un miracolo per sé stesso, come vediamo dalle parole di quelli che, di passaggio, lo insultavano quando era già sulla croce: “Tu che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, se sei Figlio di Dio, scendi dalla croce”; ricordiamo le parole degli scribi, degli anziani e dei capi sacerdoti: “Ha salvato gli altri e non può salvare se stesso. È il re d’Israele, scenda dalla croce, e crederemo in lui” (Matteo 27.39-42).

Tornando alla prima tentazione, Gesù risponde citando Deuteronomio 8.3: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio”. C’è nutrimento e nutrimento, per la vita dell’uomo: quella materiale ha bisogno del pane, ma per vivere degnamente e in prospettiva, per ricuperare il proprio essere, l’uomo non può fare a meno della Parola di Dio, anzi, di “ogni parola”. L’uomo che vive di solo pane basa la propria vita su una realtà che crede sia l’unica, non avendo il coraggio di ammettere che questa è temporanea, illusoria, la stessa che videro i nostri progenitori provandone un’immensa vergogna.

Ecco allora che aggrapparsi a quell’”Ogni parola che esce dalla bocca di Dio” equivale a riappropriarsi di quell’eredità perduta che in realtà abbiamo parzialmente recuperato quando siamo divenuti figli di Dio avendo accolto Gesù nella nostra vita, ciascuno secondo le capacità e i talenti ricevuti. Spesso si pensa che, per ottenere la vita eterna, si debbano fare chissà quali opere perfette e grandi e ci si dimentica che il miracolo primario è già avvenuto: da peccatori, siamo stati fatti figli di Dio e siamo chiamati a gestire la vita terrena prendendola come un cammino illuminato dalla Parola che deve avere la precedenza sul quotidiano.

Andiamo ad esaminare il contesto del verso citato da Gesù leggendo Deuteronomio 8,1-5: 1 Abbiate cura di mettere in pratica tutti i comandi che oggi vi do, perché viviate, diveniate numerosi ed entriate in possesso della terra che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri. 2Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. 3Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. 4Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. 5Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te.” Per approfondire il discorso sulla manna, Esodo 16

La citazione del verso che Gesù cita a Satana, allora, a parte le osservazioni fatte, aveva un significato ancora più chiaro: sfamandosi con quel pane che gli veniva suggerito di procurarsi trasformando le pietre, Gesù avrebbe commesso un’azione autonoma, slegata dal Padre, il solo che avrebbe potuto provvedere a Lui: se ci fosse stata la trasformazione delle pietre in pani, Satana avrebbe vinto.

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02.03 – IL BATTESIMO DI GESÙ (Matteo 3.13-17)

Il battesimo di Gesù (Matteo 3.13-17)

13Allora Gesù dalla Galilea venne al Giordano da Giovanni, per farsi battezzare da lui. 14Giovanni però voleva impedirglielo, dicendo: «Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni da me?». 15Ma Gesù gli rispose: «Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia». Allora egli lo lasciò fare. 16Appena battezzato, Gesù uscì dall’acqua: ed ecco, si aprirono per lui i cieli ed egli vide lo Spirito di Dio discendere come una colomba e venire sopra di lui. 17Ed ecco una voce dal cielo che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento».

Tutti i Vangeli sottolineano che la predicazione del Battista aveva raggiunto il suo punto culminante e per questo Gesù, “dalla Galilea” e quindi da Nazareth, venne in Betania, quella al di là del Giordano. Del suo battesimo ne parlano tutti e quattro gli Evangelisti, ciascuno con un particolare proprio, utile a contestualizzarlo anche se cronologizzare gli avvenimenti di quel giorno non è così immediato.

Giovanni Battista e Gesù erano parenti e, se non sappiano se si conoscessero di persona come avviene per gli esseri umani, indubbiamente la conoscenza spirituale era molto forte. Di certo, ricordando l’episodio in cui, concepito da sei mesi, ebbe un sobbalzo nel ventre di sua madre quando Maria andò in visita da lei, lo riconobbe. Giovanni sapeva che Gesù non aveva certo bisogno di pentimento, di confessare dei peccati e del battesimo e per questo non si riteneva degno di amministrarglielo: “Sono io che ho bisogno di essere battezzato da te, e tu vieni a me?”. La risposta è illuminante: “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia” ed è proprio quell’ “ogni”, che si riferisce al non trascurare nulla, che ci spiega il perché Gesù voleva e doveva farsi battezzare pur non attendendo nessun salvatore essendolo lui stesso, pur non avendo peccati da confessare né essendo peccatore come tutti gli altri uomini, tali per natura a causa dell’eredità in Adamo a prescindere dai peccati specifici commessi.

Essere dei “peccatori” non indica un gruppo di persone dedite a crimini particolari contemplati da un codice penale, ma tutti coloro che, nati di donna, conducono o hanno condotto la propria vita senza avere beneficiato del perdono di Dio tramite la fede in Gesù Cristo. Il periodo in cui avvenne il battesimo di Gesù e intermedio, a cavallo tra la Dispensazione della Legge e quella della Grazia, “Legge” di cui dà un accenno Paolo in Romani 3.20-26: “20…in base alle opere della Legge nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio, perché per mezzo della Legge si ha conoscenza del peccato. 21Ora invece, indipendentemente dalla Legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla Legge e dai Profeti: 22giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. Infatti non c’è differenza, 23perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, 24ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù. 25È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati 26mediante la clemenza di Dio, al fine di manifestare la sua giustizia nel tempo presente, così da risultare lui giusto e rendere giusto colui che si basa sulla fede in Gesù”.       Abbiamo letto “remissione dei peccati passati”: per quelli che il credente, come essere umano, può sempre commettere, c’è la confessione e il loro abbandono.

Torniamo al battesimo di Gesù: quando disse a Giovanni Battista “Lascia fare per ora, perché conviene che adempiamo ogni giustizia”, è scritto che “lo lasciò fare”, segno che comprese che il Cristo doveva condividere in tutto e per tutto la vita dell’uomo: fino ad ora sappiamo che fu circonciso, lui che non aveva bisogno di avere un segno esteriore della propria appartenenza al popolo di Dio. Sappiamo che fu osservante in tutto, restando sottomesso ai genitori per non incorrere neppure per un attimo nell’identificazione col “figlio ribelle” riportata in Deuteronomio 21.18 e segg., che la sua fu una crescita in sapienza e in grazia presso Dio e gli uomini: ricevendo il battesimo da Giovanni, iniziava il suo primo distinguersi tra coloro che, sensibili all’insegnamento ricevuto dalla Legge e dai Profeti, confessavano di avere bisogno del Messia promesso e accettavano di convertirsi, e coloro che lo rifiutavano. Battezzandosi, Gesù volle unirsi a quello che poi sarebbe diventato il Suo popolo, coloro che avrebbero creduto in lui riconoscendolo per le parole che avrebbe detto e i miracoli che avrebbe compiuto.

Chi infatti si estraniava dal battesimo di Giovanni, interrogandolo senza capire e restando in quella categorie di persone che lui stesso aveva definito “Razza – inteso come appartenenza ad esse, o “progenie” come altri traducono – di vipere”, ne rigetterà tanto gli insegnamenti che i miracoli, trovando ogni giustificazione e pretesa pur di negarli.

Gesù fu così battezzato pubblicamente. Quello che avvenne dopo lo riportano anche gli altri tre Vangeli, ma con piccole differenze: per Marco “Subito, uscendo dall’acqua, vide squarciarsi i cieli e lo Spirito discendere verso di lui come una colomba” (1.10), l’apostolo Giovanni fa dire al Battista, anche se in un momento successivo, “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (1.12); Luca invece, in 3.21-22 21Ed ecco, mentre tutto il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì 22e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento»”.

Gesù dunque, ricevuto il battesimo, si mise a pregare, ponendosi poco distante. Non ci è detto quanto, ma di certo era ben consapevole che da quel momento sarebbe iniziato per lui quel cammino di sofferenza e rinuncia che non aveva fatto prima: in Nazareth era cresciuto, spostandosi per i pellegrinaggi a Gerusalemme, aveva condiviso la vita di famiglia con i suoi fratelli e le sue sorelle, si era caratterizzato come una persona diversa crescendo come sappiamo, ma dal battesimo in poi sarebbe diventato un personaggio pubblico, avrebbe avuto davanti un’esistenza fatta di predicazione, miracoli e guarigioni, spostamenti da una città ad un’altra, si sarebbe scontrato con l’ottusità delle persone, avrebbe subìto una morte considerata ignominiosa e tutto questo lo sapeva. Così come sapeva la quantità enorme di anime che avrebbe salvato col suo sacrificio.

La preghiera al Padre era inevitabile e necessaria perché da Lui poteva ottenere la sola assistenza e approvazione di cui aveva bisogno. La risposta del Padre fu duplice: scese lo Spirito Santo su di lui sotto forma di colomba dopo che i cieli furono aperti. Giovanni Battista dirà “Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui” (Giovanni 1.32). Colomba, non le “lingue di fuoco” con cui si manifestò sui credenti della Chiesa di Gerusalemme: la colomba, lo stesso animale che Noè aveva mandato fuori dall’arca e che era tornata con un ramoscello di ulivo. La colomba che è collegata all’oppresso e all’indifeso: “Timore e spavento mi invadono e lo sgomento mi opprime. Chi mi darà ali come di colomba per volare e trovare riposo?” (Salmo 55.6-7). Colomba che si collega al ritorno degli esuli: “Accorreranno come uccelli dall’Egitto, come colombe dell’Assiria e li farò abitare nelle loro case” (Osea 7.11). Soprattutto, qui la colomba ha riferimento all’episodio di Noè: l’ulivo che gli portò era il segno ufficiale che l’ira di Dio, che aveva risparmiato lui e la sua famiglia ma aveva inesorabilmente condannato gli altri uomini che popolavano la terra, era finita ed era imminente la sua uscita dall’arca.

Allo stesso modo lo Spirito Santo, sceso “in forma di colomba” dal cielo e non da altre direzioni, stava a significare la benevolenza di Dio sull’uomo e che di lì a poco sarebbe giunta la salvezza per tutti coloro che l’avrebbero accolta: “…e a tutti coloro che l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio”.

Giunse una voce dal cielo: chi l’avrà sentita? I presenti o solo Giovanni? Non ci è detto, manca la frase “E tutti si meravigliarono” alla quale chi ha letto i Vangeli fin qui è abituato, ma è probabile che, a un atto pubblico e ufficiale di Gesù, abbia fatto seguito un’altrettanto pubblica e ufficiale manifestazione del Padre e dello Spirito Santo.

Un particolare essenziale, a questo punto, lo riporta l’apostolo Giovanni in 1.29-34:

29Il giorno dopo, vedendo Gesù venire verso di lui, disse: «Ecco l’agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! 30Egli è colui del quale ho detto: «Dopo di me viene un uomo che è avanti a me, perché era prima di me». 31Io non lo conoscevo, ma sono venuto a battezzare nell’acqua, perché egli fosse manifestato a Israele». 32Giovanni testimoniò dicendo: «Ho contemplato lo Spirito discendere come una colomba dal cielo e rimanere su di lui. 33Io non lo conoscevo, ma proprio colui che mi ha inviato a battezzare nell’acqua mi disse: «Colui sul quale vedrai discendere e rimanere lo Spirito, è lui che battezza nello Spirito Santo». 34E io ho visto e ho testimoniato che questi è il Figlio di Dio».

 

L’agnello di Dio. Così diverso da quello che veniva sacrificato per la Pasqua. Un uomo innocente a tal punto da essere paragonato a un agnello che, a differenza degli altri, toglie il peccato del – e non “dal” – mondo. Sono parole che ogni israelita avrebbe dovuto comprendere, poiché non solo avevano riferimento all’agnello che si sacrificava per la Pasqua, ma a quello che ogni sabato veniva offerto nel Santuario alla mattina e alla sera come sacrificio per il peccato (Esodo 29.38; Numeri 28.3-10). Se andiamo poi a prendere il verbo usato per “togliere”, vediamo che ha come significato anche quello di “prendere su di sé” e di “portare”. Pietro scrive nella sua seconda lettera “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce perché, non vivendo più per il peccato, vivessimo per la giustizia; dalle sue piaghe siete stati guariti. Eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (2.24,25). Sempre Giovanni nella sua prima lettera dice “Voi sapete che egli si manifestò per togliere i peccati e che in lui non vi è peccato” (3.5).

Nella lettera ai Galati 1.3 Paolo scrive “Grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati al fine di strapparci da questo mondo malvagio”, bellissimo ritratto che racchiude lo scopo del sacrificio dell’Agnello di Dio: per strapparci, cioè togliere, portare via con un movimento violento e rapido. Lo strappo si rende necessario quando occorre togliere in fretta qualcosa di ancorato ad una struttura. Chi quindi crede è strappato dal mondo, da tutte quelle cose alle quali dava un valore e che lo condizionavano. Strappato da una falsa morale, rispettabilità, tendenze, trapiantato in realtà nuove. Strappato al campo del mondo dominato da Satana, per essere impiantato nel campo di Dio. Nato di nuovo, d’acqua e di spirito.

Ma ancora di più, lo strappo si riferisce al destino che ha “questo mondo malvagio”, destinato a perire e ad essere distrutto assieme a tutti coloro che, a quell’Agnello di Dio, non avranno voluto guardare.

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