01.20 – GESÙ A DODICI ANNI (Luca 2.41.52)

01.20 – Gesù a dodici anni (Luca 2.41-52)

 

41I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. 51Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.”.

 

Torniamo da Luca, che omette gli episodi visti in precedenza, riassume il periodo di silenzio dei Vangeli sull’infanzia di Gesù con il verso 40: “Intanto il bambino cresceva e si fortificava nello Spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”. Il silenzio su ciò che fece Nostro Signore dal ritorno dall’Egitto a quando iniziò il Suo Ministero pubblico è interrotto solo da questo evangelista.

Cerchiamo ora di collocare l’episodio dal punto di vista delle usanze del popolo di Israele: la Pasqua che troviamo citata al verso 41 era la prima delle cosiddette “feste del pellegrinaggio”, cui seguivano quella della Pentecoste e dei Tabernacoli. Erano chiamate “del pellegrinaggio” perché, in occasione di quelle, ogni maschio era obbligato a recarsi al Gerusalemme al Tempio. In occasione della Pasqua l’affluenza era tale che, per evitare un ammasso incontrollato di persone in quel luogo, si stabilivano tre turni a partire dalle ore 14 e, tra l’uno e l’altro, si chiudevano le porte.

Arrivare alla Città Santa per la Pasqua, per chi veniva da lontano come Giuseppe, Maria e Gesù (120 km circa partendo da Nazareth), significava aggregarsi a una carovana che non aveva una disciplina rigida nel senso che poteva benissimo essere composta da numerosi gruppi indipendenti l’uno dall’altro che si ritrovavano poi assieme la sera per il pernottamento. L’età di Gesù è poi importante perché raggiunti i 12 anni era considerato maggiorenne: i bambini maschi iniziavano ad essere istruiti nella Legge dall’età di cinque, a 10 studiavano la Mishnà (ripetizione, insegnamento), la Torah orale e, una volta raggiunti i 12, si raggiungeva l’età in base alla quale dopo un altro anno il ragazzo veniva dichiarato “Bar Atorah”, cioè “Figlio della Legge”, o “Bar Mitzwah”, “Figlio del comandamento”. Si trattava di una cerimonia in cui il padre del giovane dichiarava pubblicamente che suo figlio aveva piena conoscenza della Legge e quindi, da quel momento, sarebbe divenuto responsabile dei suoi peccati. Da quel momento, inoltre, il giovane avrebbe iniziato ad apprendere un mestiere, solitamente quello del padre. I dodici anni, allora, sono da intendersi come il compimento, la presenza di basi solide su cui costruire la persona dell’israelita che avrebbe conosciuto al compimento del tredicesimo anno la sua piena personalità di essere responsabile davanti a Dio e agli uomini.

Gesù quindi, tornando a quanto scritto sulla carovana, al pari di un adulto poteva aggregarsi all’uno o all’altro gruppo senza problemi. Ecco perché i suoi genitori non si preoccuparono subito del fatto che non fosse con loro.

Era anche consuetudine che ragazzi della sua età fossero guardati con attenzione dai dottori della Legge, dai rabbini e in qualche caso dai sommi sacerdoti che conversavano con loro per valutarli; dove esistevano le scuole, erano proprio i Maestri a scegliere i bambini che avrebbero studiato con loro dall’età di sei anni. La scuola antica, così diversa dalle nostre, prevedeva discussioni e insegnamenti col metodo maieutico oltre che approfondimenti sui testi delle Scritture (la Legge e i Profeti). Gesù stava là, in mezzo a loro, e siccome la dinamica della scuola si manifestava non attraverso banali interrogazioni, ma piuttosto sull’esposizione di pensieri e domande che maestri e discepoli si ponevano vicendevolmente, ecco emergere la conoscenza di Nostro Signore che parlava, discuteva in modo tale da meravigliare coloro che lo ascoltavano: quelli che Gesù stupiva “per la sua intelligenza e le sue risposte” non erano persone ordinarie, ma dottori della Legge che sedevano su sgabelli mentre i discepoli sedevano a terra (ecco perché l’espressione “seduto ai piedi di” per indicare l’appartenenza a una determinata scuola).

I verbi usati dalla traduzione italiana del verso 46, “ascoltare” e “interrogare”, sottintendono un chiedere rispettosamente e seriamente spiegazioni, cosa che esclude la docenza: in pratica Gesù, per il quale non era ancora giunto il momento in cui avrebbe dovuto manifestarsi al mondo, si distingueva dagli altri ragazzi della sua età confermando le parole che già abbiamo letto nel Vangelo di Luca quando descrive i Suoi anni giovanili: “si fortificava in Spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”. Sicuramente questa era la Sua priorità espressa con la replica al rimprovero di sua madre: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.

Ecco, Luca ci riporta questa frase che, stante il suo metodo di ricerca, fu Maria stessa a riferirgli, che sottintende il verso di Davide in Salmo 40.8,9 “Dio mio, io prendo piacere nel fare la tua volontà, e la tua legge è dentro il mio cuore – quindi non una formalità da adempiere per essere in pace con la propria coscienza –. Ho proclamato la tua giustizia nella grande assemblea: ecco, io non tengo chiuse le mie labbra. O Eterno, tu lo sai”.

Gesù dodicenne disse “devo occuparmi delle cose del Padre mio”, parole che tradotte letteralmente suonano “essere nelle cose di mio Padre”, quindi uniscono in una cosa sola la Sua vita terrena e tutto il Suo esistere, la Sua missione. Mentre Giovanni Battista cresceva e si fortificava, preparandosi ad affrontare il deserto per poter ascoltare un’unica voce, Gesù cresceva in mezzo agli uomini rimanendo nelle cose di Suo Padre, cioè senza distaccarsene mai. Un esempio per noi, per i cristiani tenuti non tanto ad “occuparsi” del Vangelo, ma di “essere”, di “vivere” in Lui.

Al verso 49 troviamo due domande: la prima (“Perché mi cercate?”) esprime solo apparentemente stupore. In realtà Gesù vuol far riflettere sua madre sul fatto che, se avesse davvero assimilato le parole dell’Angelo sulla Sua missione, non avrebbe dovuto preoccuparsi di lui trattandolo come un figlio qualunque. Come scrive Robert Stewart, “Se si fosse rammentata delle parole di Gabriele, di Simeone e di Anna, Maria avrebbe subito capito che il Tempio era il luogo che maggiormente si addiceva a lui”. Al rimprovero “Tuo padre ed io ti cercavamo”, Gesù fa notare alla madre che il Suo vero Padre era un altro e che il fatto che vivesse ancora con loro non poteva intralciare l’opera che avrebbe dovuto compiere un giorno e che lì si poteva intravedere per la prima volta, per lo meno per quanto Luca ci racconta.

Le Sue sono parole importanti, dividono il ragionare umano da quello spirituale e vengono pronunciate in un momento rappresentativo della Sua vita: se possiamo ragionevolmente supporre che Gesù per la Pasqua fosse andato al Tempio anche l’anno prima e il successivo, quei suoi dodici anni erano importanti quale spartiacque tra l’età dell’innocenza e quella responsabile senza contare che solo a Gerusalemme il dodicenne ebreo si sarebbe potuto confrontare coi dottori della Legge, le maggiori autorità religiose del tempo. Lì c’era il centro della scienza religiosa, le scuole migliori, i Rabbi più conosciuti.

Il rimanere là nel Tempio ad ascoltare e porre domande non fu quindi una “disubbidienza” di Gesù ai suoi genitori e il fatto che troviamo scritto che tornato a Nazareth, “stava loro sottomesso” non va inteso come una sorta di pentimento di fronte ad uno sbaglio e di un modo per farsi perdonare, ma ha attinenza con lo scopo della sua venuta in quanto fu con noi non per abolire, ma per adempiere. Gesù si identificò sempre con l’uomo, mai con il peccato. La Sua doveva essere una vita che trascorresse in perfetta santità e l’unico modo che aveva per essere veramente “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, come lo presentò Giovanni Battista, era venire sacrificato innocente al momento stabilito. Un’innocenza che non ebbe mai bisogno di rinnovarsi con pentimentoe/o la confessione perché altrimenti non avrebbe potuto essere quel “Cristo nostra Pasqua che è stato immolato” (1 Corinti 5.7).

Il comportamento di Gesù che “stava loro sottomesso” è poi l’antitesi di Deuteronomio 21.18-21: “Se uno avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre, né di sua madre, e benché l’abbiano castigato non darà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita e diranno agli anziani della città «Questo nostro figlio è testardo e ribelle, non vuole ubbidire alla nostra voce, è uno sfrenato e un bevitore». Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà, così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore”.

La Pasqua in Gerusalemme, tornando all’episodio, era terminata da pochissimo. Penso alla quantità enorme di agnelli offerti in occasione di quella festa il cui numero, nell’anno 65 stando a un calcolo fatto per Nerone, furono 255.600, come scrive Giuseppe Flavio. La vita di Gesù, che come sappiamo ebbe una durata di circa 33 anni, fu una testimonianza continua fatta di scelte sempre e solo indirizzate al compiacere il Padre, cosa che nessun uomo era mai riuscito a fare: “Non sapete voi che devo essere nelle cose del Padre mio?”.

Essere, risiedere, crescere nella grazia, conoscenza e autorità: se non fosse stato perché occorreva salvare l’uomo, certo non ne aveva alcun bisogno, Lui presente alla creazione, Lui che era là, che come “Parola” diede il primo ordine, “Sia la luce”, perché la creazione avesse inizio: “Prima che Abramo fosse, io sono” (Giovanni 8.58).

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