02.02 – UNA PAROLA PER OGNUNO (Giovanni 1.19-28)

02.02 – Una parola per ognuno (Giovanni 1.19-28)

19Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e leviti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». 20Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». 21Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elia?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. 22Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». 23Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto:
Rendete diritta la via del Signore
, come disse il profeta Isaia». 24Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. 25Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elia, né il profeta?». 26Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, 27colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». 28Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.

Dopo Marco che ci ha presentato un quadro generale, veniamo a Giovanni, discepolo di Giovanni Battista prima e di Nostro Signore poi, che per lui ebbe una predilezione particolare. Ho scelto come titolo di questa riflessione “Una parola per ognuno” perché, dopo l’appello generale al ravvedimento visto nel capitolo precedente, è Giovanni a porre i primi discorsi specifici ai suoi uditori. Il Battista aveva iniziato la sua predicazione e a lui accorrevano in molti da Gerusalemme e zone limitrofe, come già sappiamo. Lo storico Giuseppe Flavio ne dà testimonianza nelle sue Antichità Giudaiche (18.116-119) con parole che anticipano anche fatti che dobbiamo ancora esaminare: “…ma ad alcuni dei giudei parve che la rovina dell’esercito di Erode – in una battaglia per il possesso del distretto di Gabala – fosse una vendetta divina, e di certo una vendetta giusta per la maniera in cui si era comportato verso Giovanni soprannominato Battista. Erode infatti aveva ucciso quest’uomo buono che esortava i giudei ad una vita corretta, alla pratica della giustizia reciproca, alla pietà verso Dio, e così facendo si disponessero al battesimo; a suo modo di vedere questo rappresentava un preliminare necessario se il battesimo doveva essere gradito a Dio. Essi non dovevano servirsene per guadagnare il perdono di qualsiasi peccato commesso, ma come di una consacrazione del corpo insinuando che l’anima fosse già purificata da una condotta corretta. Quando gli altri si affollavano intorno a lui perché con i suoi sermoni erano giunti al più alto grado, Erode si allarmò. Una eloquenza che sugli uomini aveva effetti così grandi, poteva portare a qualche forma di sedizione, poiché pareva che volessero essere guidati da Giovanni in qualunque cosa facessero. Erode perciò decise che sarebbe stato meglio colpire in anticipo e liberarsi di lui prima che la sua attività portasse a una sollevazione, piuttosto che aspettare uno sconvolgimento e trovarsi in una situazione così difficile da pentirsene. A motivo dei sospetti di Erode, (Giovanni) fu portato in catene nel Macheronte, la fortezza che abbiamo menzionato precedentemente, e quivi fu messo a morte: Ma il verdetto dei giudei fu che la rovina dell’esercito di Erode fu una vendetta di Giovanni, nel senso che Dio giudicò bene infliggere un tal rovescio ad Erode”.

Marco dice di Erode che “temeva Giovanni sapendolo uomo giusto e santo, e vigilava su di lui; nell’ascoltarlo restava molto perplesso, tuttavia lo ascoltava volentieri” (6.20). Giovanni Battista, quindi, inizia a predicare dapprima a poche persone, poi la sua fama si sparge. L’indicazione del luogo è generica nei sinottici, ma “il discepolo che Gesù amava” precisa “In Betania, al di là del Giordano”: così come c’erano due Betlehem, quella di Giuda e quella di Efrata, c’erano due Betania, la prima molto vicina a Gerusalemme (3km), la seconda, quella appunto al di là del Giordano, una quarantina di km. Fu quando la sua persona ed opera furono note che iniziarono ad interessarsi a lui, forse ancora prima di Erode, le autorità religiose che, prima di andare da lui personalmente, gli inviarono dei sacerdoti e dei leviti, vale a dire coloro che fungevano da mediatori tra Dio e gli uomini con l’offerta dei sacrifici e la presentazione delle offerte nel tempio. I leviti poi avevano il compito di sorvegliare il tabernacolo e il tempio, ma anche di cantare, suonare e assistere le varie celebrazioni, a parte che molti di loro erano anche sacerdoti. In pratica, quelli che si presentarono a Giovanni Battista, erano inviati dal Sinedrio, che si attribuiva l’ufficio di custode della religione e dei buoni costumi: di fronte alla crescente popolarità di Giovanni, della sua predicazione e del suo battesimo, volle fare un’inchiesta sulla sua persona e su ciò che diceva di essere, al fine di accertarsi se egli non fosse il Messia atteso. Nella Misha è scritto che appartiene al consiglio dei 71 – il Sinedrio appunto – il giudicare i falsi profeti.

Questi si chiedevano chi fosse: “Tu, chi sei?” era una domanda apparentemente legittima, ma in realtà subdola perché sperava in una risposta tale da permettere ai loro mandanti di accusarlo di bestemmia e lapidarlo, come più volte cercarono di fare con Gesù. Alle loro domande successive risponde solo con un’identificazione con la “voce di uno che grida nel deserto”, affermando di non essere il Cristo, né Elia, né “il profeta”. Giovanni nega di essere Elia, ma ricorda il suo ufficio citando Isaia, mentre quel “il profeta”, di difficile spiegazione, riassume probabilmente l’insieme delle opinioni confuse che la gente aveva su di lui, le stesse che poi avevano di Gesù. Ricordiamo il dialogo tra lui e Pietro in Matteo 16.13-14: “Gesù, giunto nella regione di Cesarea di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni Battista, altri Elia, altri Geremia o qualcuno dei profeti»”.

Giovanni era la voce di uno che gridava nel deserto, tanto avrebbe dovuto bastare a persone che dello studio dei libri avevano fatto una ragione di vita, con tutta una tradizione che potremmo chiamare di “scienza biblica” che, ricordiamo, aveva comunicato ad Erode che il Re dei giudei sarebbe nato a Betlehem.

Giovanni Battista, conoscendo lo spirito che animava gli inviati dal Sinedrio, i Farisei e Sadducei che più avanti arriveranno in quei luoghi di persona, si sentirono pronunciare parole di giudizio che riporta Matteo 7.12:

 

7Vedendo molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? 8Fate dunque un frutto degno della conversione, 9e non crediate di poter dire dentro di voi: «Abbiamo Abramo per padre!». Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo. 10Già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. 11Io vi battezzo nell’acqua per la conversione; ma colui che viene dopo di me è più forte di me e io non sono degno di portargli i sandali; egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. 12Tiene in mano la pala e pulirà la sua aia e raccoglierà il suo frumento nel granaio, ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile».

 

Prima di invitarli alla conversione, li chiama “razza di vipere” facendo riferimento alla Daboia Palaestinae, una specie molto velenosa che si trova tuttora in Siria, Giordania, Israele e Libano, letale a differenza di quella europea che lo è raramente, mordendo l’uomo solo in caso di effettivo pericolo. La vipera citata da Giovanni Battista, quindi, uccide sempre. Farisei e Sadducei presenti, che con le loro dottrine non facevano altro che allontanare gli uomini dalla fede riducendola a religione come altre, furono giudicati da Gesù con queste parole (Matteo 23.2-15; 23-33): «2Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. 4Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 5Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, 7dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati «rabbì» dalla gente. 8Ma voi non fatevi chiamare «rabbì», perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. 9E non chiamate «padre» nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. 10E non fatevi chiamare «guide», perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 11Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; 12chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato”.13Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti alla gente; di fatto non entrate voi, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrare. [ 14]15Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo prosèlito e, quando lo è divenuto, lo rendete degno della Geènna due volte più di voi.(…) 23Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima sulla menta, sull’anéto e sul cumìno, e trasgredite le prescrizioni più gravi della Legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste invece erano le cose da fare, senza tralasciare quelle. 24Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!25Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto, ma all’interno sono pieni di avidità e d’intemperanza. 26Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi pulito!27Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che assomigliate a sepolcri imbiancati: all’esterno appaiono belli, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni marciume. 28Così anche voi: all’esterno apparite giusti davanti alla gente, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità.29Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che costruite le tombe dei profeti e adornate i sepolcri dei giusti, 30e dite: «Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non saremmo stati loro complici nel versare il sangue dei profeti». 31Così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli di chi uccise i profeti. 32Ebbene, voi colmate la misura dei vostri padri. 33Serpenti, razza di vipere, come potrete sfuggire alla condanna della Geènna?”

Dal ritratto che Gesù fa di questi personaggi, comprendiamo il motivo del “razza di vipere” dato loro da Giovanni, che li vide assieme ai sadducei, altro gruppo che si distingueva dai farisei perché rigettava la tradizione basando la sua fede solo sulla Legge scritta di Mosè. Se i sadducei, che negavano l’immortalità dell’anima, la resurrezione del corpo, uno stato futuro di ricompensa o di pena e l’esistenza di un mondo spirituale guadagnavano al loro partito i più facoltosi tra il popolo, i farisei erano sostenuti e riveriti. Ebbene, a entrambi è detto “Chi vi ha fatto credere di sfuggire all’ira a venire?”: quegli uomini vengono invitati a non illudersi sul loro destino a meno che non venga mutato da una conversione. Paolo ai Romani (2.3-8) scrive “Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto tu fai lo stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della Sua bontà, della Sua tolleranza e della Sua pazienza senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente, accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le loro opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore i incorruttibilità, sdegno e ira contro coloro che, per ribellione, resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia”.

Giovanni mette anche in evidenza il fatto che, di lì a poco, l’essere figli di Adamo non avrebbe più avuto alcun valore, essendo per chi lo ascoltava un vanto appartenere al popolo eletto. Il paragone con le pietre, elementi inanimati e inutili, non è escluso fosse un riferimento profetico ai pagani che, un giorno, avrebbero ricevuto il Vangelo. E qui viene spontanea la connessione con l’apostolo Giovanni quando, nell’inno di apertura su cui ci siamo soffermati all’inizio di queste meditazioni, scrive che i suoi non lo hanno ricevuto, “ma a tutti quanti l’hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio”. Le parole che seguono l’invettiva contro farisei e sadducei sono forti: già la scure è posta alla radice degli alberi e ogni albero che non avrebbe dato frutti sarebbe stato tagliato e gettato nel fuoco. Quegli uomini erano invitati a convertirsi e a fare frutti degni di essa, unico modo per non venire tagliati.

Vediamo allora che Dio non concede presunzione. Se la domanda a Giovanni era “Chi sei?”, la risposta in sintesi è “E voi, chi cercate?”. Allo stesso modo l’uomo deve chiedersi quanto in lui pesino le convinzioni che si porta con sé come bagaglio storico che influenzano le proprie scelte e il suo carattere: ti ribelli apertamente a Dio negandolo? Credi, hai un’esperienza, sai cosa sei, oppure vivi in una fede nella quale ti compiaci giudicando il prossimo e sentendoti privilegiato e superiore? Quando parli di fede, elenchi una serie di norme, riti e pratiche, oppure sei testimone di un intervento di Dio nella tua vita? Quello che farisei e sadducei dovevano sapere era che la scure era già pronta, è già pronta anche se non possiamo sapere quando si abbatterà. Di qui la necessità della conversione che, oggi, è data dallo Spirito Santo che convince l’uomo di essere un peccatore bisognoso del perdono di Dio. Chi lo rifiuta non è diverso dalle due categorie di persone che andarono a Giovanni Battista per interrogarlo: basati su una giustizia che si erano attribuiti, pronti a difendere le loro convinzioni senza però chiedersi nel profondo se queste poggiassero sulle basi di una coscienza serena e obiettiva, presuntuosi, in una parola ipocriti.

Giovanni Battista, però, offre un’altra immagine oltre a quella della scure: quella di chi sarebbe venuto dopo di lui, attinta dal mondo agricolo che il suo uditorio non poteva ignorare: “Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel suo granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”. Si tratta di una scena di futura realizzazione in cui il Gesù glorificato dal Padre separerà il grano dalla pula, cioè eliminerà i vari involucri della spiga, portati via dal vento perché leggeri, per riporre il grano, i salvati, nel suo granaio, figura del Suo Regno. Questo concetto verrà poi ampliato da Gesù con la parabola del grano e della zizzania in Matteo 13.24-30 (leggere). La “pula” non va confusa con la paglia, termine usato in alcune traduzione: la paglia i contadini la usavano e la usano tuttora e, con questo termine, il discorso di Giovanni in merito perde il suo significato.

Giovanni Battista fece questo discorso in pubblico e i presenti compresero molto bene che il discorso alla “razza di vipere” era rivolto a delle persone precise, ma le similitudini della scure posta alla radice degli alberi, che spesso la Scrittura paragona agli uomini, e della separazione della pula dal grano li fecero sentire coinvolti: per questo Luca ci parla di alcune domande che gli rivolsero altre persone in 3.10-14.

 

10Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?». 11Rispondeva: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha, e chi ha da magiare faccia altrettanto». 12Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli dissero «Maestro, che cosa dobbiamo fare?» 13ed egli disse loro «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». 14Lo interrogavano anche alcuni soldati: «e noi, che dobbiamo fare?». Rispose: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe».

 

Il Battista, grazie alle domande che i presenti gli posero, poté entrare nello specifico e per ognuno ebbe un messaggio, dando non dei precetti, ma indicando delle azioni che consistevano nella rinuncia di sé: l’atteggiamento egoista doveva finire inquadrando la loro vita verso il trattamento del superfluo a motivo della povertà esistente fra il popolo; possiedi due tuniche? Pensasse a chi non ha la possibilità di comprarsene una tunica. Lavori come esattore? Non vessare il contribuente, non aumentargli i tributi per arricchirti. Sei un militare? Fai il tuo lavoro, ma non darti al saccheggio, alle estorsioni e non fare violenza su civili inermi.

Questa è la fine del discorso di Giovanni sul comportamento che una persona in attesa del Cristo doveva avere. Era un messaggio che andava contro corrente anche allora: contro corrente perché il fine della carne è quello dello “star bene” che non è chiaro in cosa consista, che non si raggiunge mai e che spesso è fonte di preoccupazione per mantenerlo. L’uomo, la carne, non accetta la precarietà e tende a considerare gli eventuali risultati ottenuti col guadagno un gradino di una scala di cui non riesce a vedere la fine. La carne non si sazia solo col denaro, ma se abbandonata a se stessa diventa dominante e coinvolge tutti gli aspetti della persona, costruisce un sistema in cui l’individuo finisce per considerarsi al centro di esso: solo lui è importante, gli altri sono solo dei satelliti che gli ruotano attorno.

E la rinuncia a considerare se stessi un centro non poteva venire da un atteggiamento morale, ma dall’accettazione del messaggio: il regno dei cieli è vicino, “dopo di me viene uno al quale non sono degno di portare i sandali”, frase diversa rispetto a quella letta in Giovanni e Marco, che ci dà un secondo significato perché era lo schiavo che, quando il padrone tornava a casa, gli scioglieva e portava quelle calzature là dove gli veniva ordinato di deporle. In quel modo Giovanni pone un ulteriore distinguo tra il suo ruolo e quello del messia, perché leggiamo che “tutti, riguardo a Giovanni, si chiedevano in cuor loro se non fosse il Cristo” (Luca 3.15).

Sempre Luca ci informa che il Battista non parlò solo di questi argomenti, ma che “Con molte altre esortazioni evangelizzava il popolo” (3.18). Quali, non sappiamo. I quattro Evangelisti ci hanno trasmesse le parole che abbiamo affrontato, per quanto brevemente.

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02.01 – INTRODUZIONE A GIOVANNI BATTISTA (Marco 1.1-8)

Introduzione a Giovanni Battista (Marco 1.1-8)

Della persona e opera di Giovanni Battista parlano tutti e quattro gli Evangelisti che, in base base al loro carattere e agli scopi che si prefiggono, forniscono un quadro esauriente del profeta che segna lo spartiacque tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Gesù infatti disse, in Matteo 11.13, “…tutti i profeti e la legge hanno profetizzato fino a Giovanni, e se lo volete accettare, egli è l’Elia che doveva venire”. Si trattava di quell’Elia che gli israeliti attendevano quale profeta che avrebbe preceduto il Messia secondo Malachia 4.5: “Ecco, io vi mando Elia il profeta prima che venga il giorno dell’Eterno, giorno grande e spaventevole”; si tratta di un verso che riassume quel periodo iniziato con la venuta del Cristo e terminerà con il giudizio di Dio sul mondo. I riferimenti a Giovanni Battista, che secondo l’annuncio angelico avrebbe camminato “davanti a lui con lo spirito e la potenza di Elia” sono tanti; il significato del suo messaggio è semplice, ma al tempo stesso ha molte sfaccettature, difficili da affrontare esaurientemente anche in più incontri. Per presentarlo, è possibile iniziare dal racconto di Marco 1.1-8.

1 Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. 2Come sta scritto nel profeta Isaia:Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via. 3Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri.4Vi fu Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. 5Accorrevano a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme. E si facevano battezzare da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati. 6Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, e mangiava cavallette e miele selvatico. 7E proclamava: «Viene dopo di me colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. 8Io vi ho battezzato con acqua, ma egli vi battezzerà in Spirito Santo».

Marco è una persona che ebbe un’esperienza particolare: come Luca, non faceva parte dei 12 apostoli anche se, rispetto a lui, abbiamo più dati biografici. Non sappiamo se conobbe Gesù direttamente quando predicava, ma sicuramente era presente nell’orto degli ulivi quando fu arrestato ed è opinione consolidata che lui stesso si citi in un episodio che gli altri evangelisti omettono quando, 14.50-51, scrive “Allora tutti lo abbandonarono e fuggirono. Lo seguiva però un ragazzo, che aveva addosso soltanto un lenzuolo, e lo afferrarono. Ma egli, lasciato cadere il lenzuolo, fuggì via nudo”. Secondo l’uso degli ebrei che erano in contatto con romani e greci, è quel “Giovanni detto Marco” che Barnaba voleva prendere con sé prima di partire con Paolo verso la Macedonia (Atti 15.37). Sua madre Maria ospitava la Chiesa di Gerusalemme che aveva in Pietro uno degli uomini più autorevoli (leggere Atti 12.1-18).

Marco aveva già allora un rapporto molto diretto con Pietro, che lo definisce “figlio mio”, a tal punto da seguirlo a Roma, indicata dall’apostolo come “Babilonia” nella sua prima lettera in 5.13: “Vi saluta la comunità che vive in Babilonia e anche Marco, figlio mio”. Pietro, quindi, stante il rapporto con questo giovane, gli raccontò gli episodi di cui fu testimone spiegandogli i loro significati dottrinali, mettendolo in condizione di scrivere un Vangelo molto spontaneo e colorito che è il più breve dei quattro. San Girolamo, vissuto nella seconda metà del 300, padre e dottore della Chiesa che tradusse per primo la Bibbia in latino, scrive in proposito “Evangelium, Petro narrante et illo scribente, compositum est”.

Papia, vissuto tra il 70 e il 130, così scrive di Marco: “Marco, divenuto interprete di Pietro, scrisse accuratamente, ma non in ordine, tutto ciò che ricordava delle cose dette o fatte dal Signore. Non era lui, infatti, che Marco aveva visto o seguito, ma come ho già detto fu Pietro. E quest’ultimo impartiva i suoi insegnamenti secondo le necessità del momento, senza dare una raccolta ordinata dei detti del Signore, di modo che non fu Marco a sbagliare scrivendone alcuni così come li ricordava. Di una sola cosa infatti si dava pensiero nei suoi scritti: non tralasciare niente di ciò che aveva udito e non dire niente di falso”.

Marco scrive per far conoscere il Vangelo ai pagani: pochi i riferimenti profetici, poche le parabole e i discorsi, ma fatti circostanziati spesso non in ordine cronologico, con ritratti e particolari vivaci dei personaggi e degli avvenimenti in modo tale che possano essere ricordati facilmente. Marco è anche quello che più di tutti usa il termine “subito” o “prontamente” per descrivere le reazioni della gente che ebbe a che fare con Gesù. L’essenzialità dei suoi racconti, allora, appare adatta per presentare anche Giovanni Battista, introdotta con un verso che è sia di Malachia (3.1) che di Isaia (40.8).

“Ecco, dinnanzi a te mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via” è un verso che si richiama all’uso orientale di inviare dei messaggeri: quando una persona importante stava per mettersi in viaggio, li inviava ad avvisare i villaggi del suo passaggio per provvedere agli approvvigionamenti della scorta e per allestire la tenda per la sosta. La seconda parte, di Isaia, indica il luogo in cui la voce si sarebbe fatta sentire: il deserto, luogo in cui ci vuole un motivo per recarvisi e ancor più per viverci, come aveva fatto Giovanni Battista. “Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri”, è invece più particolare: lo abbiamo già incontrato tempo fa e allora lo avevamo messo in connessione col cammino del popolo che, di ritorno dall’esilio, aveva bisogno di chi spianasse la strada per rientrare nella propria terra, ma qui, per le parole di Giovanni che esamineremo, ha riferimento a un percorso interiore che ciascun uditore era chiamato a fare per ricevere Colui che stava per arrivare.

Quando si muoveva una personalità eminente, l’arrivo del messaggero in un villaggio provocava sempre scompiglio, turbava la sua quiete fatta di tutta una serie di eventi abituali: occorreva allora fare dei preparativi, cercare materiali, allestire cose. Allo stesso modo “Giovanni, che battezzava nel deserto e proclamava un battesimo di conversione per il perdono dei peccati”, provocava inevitabilmente una profonda riflessione e sconvolgimento in coloro che lo ascoltavano e sceglievano volontariamente di farsi battezzare: confessavano i loro peccati non privatamente, ma pubblicamente.

Prima di esaminare il battesimo praticato da Giovanni, bisogna analizzare alcuni elementi suoi caratteristici. Sul vestito avevamo già accennato in precedenza; in particolare va rilevato che Elia vestiva allo stesso modo: “…domandò loro: «Qual era l’aspetto dell’uomo che è salito incontro a voi e vi ha detto simili parole?» Risposero: «Era un uomo ricoperto di peli; una cintura di cuoio gli cingeva i fianchi». Egli disse «Quello è Elia, il Tisbita»” (2 Re 1.7,8).

Ricordiamo che Elia non morì come tutti gli altri uomini, ma scomparve dalla vista del profeta Eliseo nel corso di un avvenimento che troviamo in 2 Re 2.11: “Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero tra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo” (2.11). Basandosi sulla profezia di Malachia era così opinione diffusa che quel profeta, assunto in cielo, sarebbe ritornato poco prima di quel giorno “grande e spaventevole” profetizzato. In realtà, quel giorno deve ancora venire e i suoi tempi sono descritti nel libro dell’Apocalisse 11.1-13. Ecco perché Giovanni, a quanti lo interrogavano chiedendogli se fosse Elia, rispose negativamente.

Giovanni vestiva in un modo che lo qualificava quanto ad abbigliamento, ma questo non dava teoricamente alcuna garanzia che fosse un profeta, poiché prima di lui erano giunti diversi personaggi che avevano preteso di essere Elia, se non addirittura il Messia. Testimonianza di ciò la dà lo stesso Gamaliele, maestro di Paolo, quando prese la parola davanti al Sinedrio di Gerusalemme che voleva processare gli apostoli:Tempo fa sorse Tèuda, infatti, che pretendeva di essere qualcuno, e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui furono dissolti e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse molta gente a seguirlo, ma anche lui finì male, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero. Ora perciò io vi dico: non occupatevi di questi uomini e lasciateli andare. Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana, verrebbe distrutta; ma, se viene da Dio, non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!” (Atti 5.36,39).

Gamaliele in quell’occasione riassunse personaggi noti perché già falsi predicatori messianici erano sorti, sfruttando le attese del popolo per ottenerne vantaggi personali o fomentare ribellioni di cui a pagare non fossero loro, ma quelli che li seguivano. I predicatori messianici parlavano partendo dal presupposto che gli ebrei erano il primo popolo della terra, che avrebbero ottenuto la vittoria contro i romani e, raccolta gente attorno a loro, saccheggiavano quando potevano depositi di armi, si proclamavano re, si davano ai saccheggi, pretendevano di aver fatto miracoli o li promettevano, cercavano in tutti i modi di fare proseliti e tutto, presto o tardi, veniva represso nel sangue o si estingueva quando i loro seguaci capivano di trovarsi di fronte a battaglie perse in partenza.

C’è però un dato da considerare: nonostante tutti quei precedenti Elia era aspettato da tempo in Israele e, quando Giovanni iniziò a predicare, il popolo non rimase indifferente alla notizia, ma accorreva per vedere e sentire da vicino le sue parole, sperando che non fosse uno dei tanti impostori che lo avevano preceduto. Giovanni era cresciuto nel deserto rinunciando alla vita sociale, a un lavoro e quindi alla possibilità di mangiare in modo umanamente decente anziché le locuste e il miele selvatico che riusciva a recuperare, quello che le api producevano nelle cavità degli alberi o delle rocce. Era il suo uno stile di vita che manifestava l’intenzione di vivere alla completa dipendenza da Dio senza preoccuparsi di ciò che avrebbe portato il domani avendo la certezza che Lui avrebbe provveduto; atteggiamento ben diverso da quello del popolo ebraico antico che, liberato dalla schiavitù dell’Egitto, proprio nel deserto mormorava continuamente perché non riusciva a capire come avrebbe potuto trovare acqua e cibo, per non parlare di tutte le volte in cui rimpianse la vita che conduceva in quel Paese.

Giovanni inizia a predicare. Cosa? Vi è un annuncio base visto nelle parole “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 3.2) e leggiamo da Matteo “Allora Gerusalemme, tutta la Giudea e tutta la zona lungo il Giordano accorrevano a lui e si facevano battezzare nel fiume Giordano, confessando i loro peccati” (3.5). L’imperativo è “metanoièite”, cioè un invito a considerare non solo il proprio stile di vita, ma il pensiero e i sentimenti presenti nella persona di ciascuno per cambiarli. Tra i significati possiamo includere anche il “cambiare modo di pensare”. Il corrispettivo ebraico allude anche al ritornare indietro da una falsa strada per rimettersi su quella buona. La necessità del ravvedimento predicata dal Battista trovava il suo perché nella vicinanza del “regno dei cieli”, termine che usa solo Matteo (gli altri scrivono “regno di Dio”). “Regno” sta ad indicare un territorio, un insieme di cittadini che vivono tutti sotto una precisa autorità.

Giovanni Battista quindi, rinunciando a qualsiasi egocentrismo nel quale si erano crogiolati i suoi predecessori che agivano spinti dai loro interessi, predica la necessità del ravvedimento non come atteggiamento religioso, ma come esame profondo della propria vita e delle proprie opere per essere pronti, quando sarebbe venuto, ad accogliere quel “Re dei giudei che è nato” che i magi d’oriente erano venuti ad adorare. Chi fra quelli che andavano a lui erano disposti ad operare questo severo inventario della loro vita, lo facevano e “si facevano battezzare da lui nel Giordano, confessando i loro peccati” (Marco 1.5), cioè: la fede nelle parole di Giovanni, la certezza acquisita che il regno dei cieli fosse prossimo, li spingevano a dichiarare il proprio stato di peccatori attraverso una confessione pubblica e questo significava spesso rinunciare a quell’alone di rispettabilità che molti avevano costruito attorno a sé per essere considerati dal loro prossimo. I rispettabili tra il popolo, vale a dire scribi, farisei, sadducei e dottori della Legge, salvo eccezioni che non possiamo escludere, non andavano da lui, ma inviavano delle loro spie nei luoghi in cui predicava.

Alla confessione seguiva il battesimo, l’immersione nelle acque che stava a significare la purificazione del cuore, dichiarava la volontà di cambiare, di acquisire la cittadinanza di quel regno di Dio che stava per arrivare ed era così distante da quello degli uomini peccatori che appartenevano ad un regno diverso, un regno che non fa altro che opprimere e umiliare la persona da un lato e glorificare il monarca, un uomo peccatore al pari dei suoi sudditi.

“Regno dei cieli”, “Regno di Dio” in opposizione soprattutto a quello di Satana, che nel mondo domina e ha tutto l’interesse a che l’uomo si perda, illuso da quella realtà tangibile ai suoi sensi e che gli fa credere di essere immortale o comunque possessore di qualcosa. L’uomo illuso da Satana si rifugia in se stesso, nei suoi averi, nella sua “fede”, nel suo quotidiano convinto di poter disporre liberamente del proprio tempo escludendo la presenza di Dio nella sua vita né più né meno di quel ricco della parabola che Gesù espose in Luca 12.13-21.

In questa parabola, al di là di tutte le riflessioni sull’io di quell’uomo, colpisce il fatto che Dio pone chi si ritiene padrone di sé e delle sue cose di fronte a un termine: “Questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita”, il cui testo letterale dice “richiedono da te la tua anima”, temine che sta ad indicare tutto il suo essere, le sue intenzioni, i suoi progetti perché siano pesati, misurati, vagliati. Chi spiegherà molto bene con figure questo principio sarà più avanti l’apostolo Paolo in 1 Corinti 3.11-15: “Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: infatti quel giorno la farà conoscere, perché con il fuoco si manifesterà, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera, che uno costruì sul fondamento, resisterà, costui ne riceverà una ricompensa. Ma se l’opera di qualcuno finirà bruciata, quello sarà punito; tuttavia egli si salverà, però quasi passando attraverso il fuoco”. Viviamo in un periodo storico in cui, purtroppo, il cristianesimo predica un Dio amorevole, ma spesso omette di dire le Sue esigenze.

Altra parabola importante è quella della casa costruita sulla roccia (Matteo 7.24-29): tanto in questa che nella precedente è utilizzato il termine “stolto”, che indica chi ha poca intelligenza e si comporta in modo insensato.

Giovanni, con la sua predicazione, preparava il terreno con lo scopo di mettere in grado quanti lo ascoltavano di recepire il messaggio che sarebbe stato rivolto a loro da Gesù e di riconoscerlo.

Per ora abbiamo visto solo il senso generale del significato di quel “ravvedetevi”, che Marco ci ha riportato quale base di tutto un messaggio più profondo, rivolto a diverse categorie di persone, che esamineremo nel prossimo capitolo.

“Ravvedetevi perché il Regno dei cieli è vicino” va bene, ma c’è anche l’annuncio dell’imminente arrivo di una persona ben precisa:“Viene dopo di me Colui che è più forte di me: io non sono degno di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzato con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo” (v.8). È un verso che si divide in due periodi ben distinti e il primo riguarda il sciogliere e lacci dei sandali: si tratta di un’usanza molto antica che veniva praticata in pubblico quando una persona rinunciava a un proprio diritto per darlo ad un altro. È probabile che Giovanni si riferisse all’opera di Gesù, che consegnò con il suo sacrificio un popolo nuovo al Padre. Con questa espressione Giovanni spiega ai presenti che non era lui il Messia atteso, ma solo un suo messaggero, quello che l’autorità inviava nei paesi per avvisare del suo transito. Addirittura Giovanni, con l’immagine del sciogliere i lacci dei sandali, arriva quasi ad estraniarsi, annullarsi di fronte alla santità di chi sarebbe venuto dopo di lui, evidenziando la differenza dei ruoli: “Io vi ho battezzato con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo”, parole che si compirono nel giorno della Pentecoste quando lo Spirito Santo scenderà sui membri della primitiva Chiesa di Gerusalemme in Atti 2.1-13.

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01.20 – GESÙ A DODICI ANNI (Luca 2.41.52)

01.20 – Gesù a dodici anni (Luca 2.41-52)

 

41I suoi genitori si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. 42Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. 43Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. 44Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; 45non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. 46Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. 47E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. 48Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». 49Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». 50Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. 51Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. 52E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.”.

 

Torniamo da Luca, che omette gli episodi visti in precedenza, riassume il periodo di silenzio dei Vangeli sull’infanzia di Gesù con il verso 40: “Intanto il bambino cresceva e si fortificava nello Spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era su di lui”. Il silenzio su ciò che fece Nostro Signore dal ritorno dall’Egitto a quando iniziò il Suo Ministero pubblico è interrotto solo da questo evangelista.

Cerchiamo ora di collocare l’episodio dal punto di vista delle usanze del popolo di Israele: la Pasqua che troviamo citata al verso 41 era la prima delle cosiddette “feste del pellegrinaggio”, cui seguivano quella della Pentecoste e dei Tabernacoli. Erano chiamate “del pellegrinaggio” perché, in occasione di quelle, ogni maschio era obbligato a recarsi al Gerusalemme al Tempio. In occasione della Pasqua l’affluenza era tale che, per evitare un ammasso incontrollato di persone in quel luogo, si stabilivano tre turni a partire dalle ore 14 e, tra l’uno e l’altro, si chiudevano le porte.

Arrivare alla Città Santa per la Pasqua, per chi veniva da lontano come Giuseppe, Maria e Gesù (120 km circa partendo da Nazareth), significava aggregarsi a una carovana che non aveva una disciplina rigida nel senso che poteva benissimo essere composta da numerosi gruppi indipendenti l’uno dall’altro che si ritrovavano poi assieme la sera per il pernottamento. L’età di Gesù è poi importante perché raggiunti i 12 anni era considerato maggiorenne: i bambini maschi iniziavano ad essere istruiti nella Legge dall’età di cinque, a 10 studiavano la Mishnà (ripetizione, insegnamento), la Torah orale e, una volta raggiunti i 12, si raggiungeva l’età in base alla quale dopo un altro anno il ragazzo veniva dichiarato “Bar Atorah”, cioè “Figlio della Legge”, o “Bar Mitzwah”, “Figlio del comandamento”. Si trattava di una cerimonia in cui il padre del giovane dichiarava pubblicamente che suo figlio aveva piena conoscenza della Legge e quindi, da quel momento, sarebbe divenuto responsabile dei suoi peccati. Da quel momento, inoltre, il giovane avrebbe iniziato ad apprendere un mestiere, solitamente quello del padre. I dodici anni, allora, sono da intendersi come il compimento, la presenza di basi solide su cui costruire la persona dell’israelita che avrebbe conosciuto al compimento del tredicesimo anno la sua piena personalità di essere responsabile davanti a Dio e agli uomini.

Gesù quindi, tornando a quanto scritto sulla carovana, al pari di un adulto poteva aggregarsi all’uno o all’altro gruppo senza problemi. Ecco perché i suoi genitori non si preoccuparono subito del fatto che non fosse con loro.

Era anche consuetudine che ragazzi della sua età fossero guardati con attenzione dai dottori della Legge, dai rabbini e in qualche caso dai sommi sacerdoti che conversavano con loro per valutarli; dove esistevano le scuole, erano proprio i Maestri a scegliere i bambini che avrebbero studiato con loro dall’età di sei anni. La scuola antica, così diversa dalle nostre, prevedeva discussioni e insegnamenti col metodo maieutico oltre che approfondimenti sui testi delle Scritture (la Legge e i Profeti). Gesù stava là, in mezzo a loro, e siccome la dinamica della scuola si manifestava non attraverso banali interrogazioni, ma piuttosto sull’esposizione di pensieri e domande che maestri e discepoli si ponevano vicendevolmente, ecco emergere la conoscenza di Nostro Signore che parlava, discuteva in modo tale da meravigliare coloro che lo ascoltavano: quelli che Gesù stupiva “per la sua intelligenza e le sue risposte” non erano persone ordinarie, ma dottori della Legge che sedevano su sgabelli mentre i discepoli sedevano a terra (ecco perché l’espressione “seduto ai piedi di” per indicare l’appartenenza a una determinata scuola).

I verbi usati dalla traduzione italiana del verso 46, “ascoltare” e “interrogare”, sottintendono un chiedere rispettosamente e seriamente spiegazioni, cosa che esclude la docenza: in pratica Gesù, per il quale non era ancora giunto il momento in cui avrebbe dovuto manifestarsi al mondo, si distingueva dagli altri ragazzi della sua età confermando le parole che già abbiamo letto nel Vangelo di Luca quando descrive i Suoi anni giovanili: “si fortificava in Spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”. Sicuramente questa era la Sua priorità espressa con la replica al rimprovero di sua madre: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”.

Ecco, Luca ci riporta questa frase che, stante il suo metodo di ricerca, fu Maria stessa a riferirgli, che sottintende il verso di Davide in Salmo 40.8,9 “Dio mio, io prendo piacere nel fare la tua volontà, e la tua legge è dentro il mio cuore – quindi non una formalità da adempiere per essere in pace con la propria coscienza –. Ho proclamato la tua giustizia nella grande assemblea: ecco, io non tengo chiuse le mie labbra. O Eterno, tu lo sai”.

Gesù dodicenne disse “devo occuparmi delle cose del Padre mio”, parole che tradotte letteralmente suonano “essere nelle cose di mio Padre”, quindi uniscono in una cosa sola la Sua vita terrena e tutto il Suo esistere, la Sua missione. Mentre Giovanni Battista cresceva e si fortificava, preparandosi ad affrontare il deserto per poter ascoltare un’unica voce, Gesù cresceva in mezzo agli uomini rimanendo nelle cose di Suo Padre, cioè senza distaccarsene mai. Un esempio per noi, per i cristiani tenuti non tanto ad “occuparsi” del Vangelo, ma di “essere”, di “vivere” in Lui.

Al verso 49 troviamo due domande: la prima (“Perché mi cercate?”) esprime solo apparentemente stupore. In realtà Gesù vuol far riflettere sua madre sul fatto che, se avesse davvero assimilato le parole dell’Angelo sulla Sua missione, non avrebbe dovuto preoccuparsi di lui trattandolo come un figlio qualunque. Come scrive Robert Stewart, “Se si fosse rammentata delle parole di Gabriele, di Simeone e di Anna, Maria avrebbe subito capito che il Tempio era il luogo che maggiormente si addiceva a lui”. Al rimprovero “Tuo padre ed io ti cercavamo”, Gesù fa notare alla madre che il Suo vero Padre era un altro e che il fatto che vivesse ancora con loro non poteva intralciare l’opera che avrebbe dovuto compiere un giorno e che lì si poteva intravedere per la prima volta, per lo meno per quanto Luca ci racconta.

Le Sue sono parole importanti, dividono il ragionare umano da quello spirituale e vengono pronunciate in un momento rappresentativo della Sua vita: se possiamo ragionevolmente supporre che Gesù per la Pasqua fosse andato al Tempio anche l’anno prima e il successivo, quei suoi dodici anni erano importanti quale spartiacque tra l’età dell’innocenza e quella responsabile senza contare che solo a Gerusalemme il dodicenne ebreo si sarebbe potuto confrontare coi dottori della Legge, le maggiori autorità religiose del tempo. Lì c’era il centro della scienza religiosa, le scuole migliori, i Rabbi più conosciuti.

Il rimanere là nel Tempio ad ascoltare e porre domande non fu quindi una “disubbidienza” di Gesù ai suoi genitori e il fatto che troviamo scritto che tornato a Nazareth, “stava loro sottomesso” non va inteso come una sorta di pentimento di fronte ad uno sbaglio e di un modo per farsi perdonare, ma ha attinenza con lo scopo della sua venuta in quanto fu con noi non per abolire, ma per adempiere. Gesù si identificò sempre con l’uomo, mai con il peccato. La Sua doveva essere una vita che trascorresse in perfetta santità e l’unico modo che aveva per essere veramente “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, come lo presentò Giovanni Battista, era venire sacrificato innocente al momento stabilito. Un’innocenza che non ebbe mai bisogno di rinnovarsi con pentimentoe/o la confessione perché altrimenti non avrebbe potuto essere quel “Cristo nostra Pasqua che è stato immolato” (1 Corinti 5.7).

Il comportamento di Gesù che “stava loro sottomesso” è poi l’antitesi di Deuteronomio 21.18-21: “Se uno avrà un figlio testardo e ribelle che non obbedisce alla voce né di suo padre, né di sua madre, e benché l’abbiano castigato non darà loro retta, suo padre e sua madre lo prenderanno e lo condurranno dagli anziani della città, alla porta del luogo dove abita e diranno agli anziani della città «Questo nostro figlio è testardo e ribelle, non vuole ubbidire alla nostra voce, è uno sfrenato e un bevitore». Allora tutti gli uomini della sua città lo lapideranno ed egli morirà, così estirperai da te il male e tutto Israele lo saprà e avrà timore”.

La Pasqua in Gerusalemme, tornando all’episodio, era terminata da pochissimo. Penso alla quantità enorme di agnelli offerti in occasione di quella festa il cui numero, nell’anno 65 stando a un calcolo fatto per Nerone, furono 255.600, come scrive Giuseppe Flavio. La vita di Gesù, che come sappiamo ebbe una durata di circa 33 anni, fu una testimonianza continua fatta di scelte sempre e solo indirizzate al compiacere il Padre, cosa che nessun uomo era mai riuscito a fare: “Non sapete voi che devo essere nelle cose del Padre mio?”.

Essere, risiedere, crescere nella grazia, conoscenza e autorità: se non fosse stato perché occorreva salvare l’uomo, certo non ne aveva alcun bisogno, Lui presente alla creazione, Lui che era là, che come “Parola” diede il primo ordine, “Sia la luce”, perché la creazione avesse inizio: “Prima che Abramo fosse, io sono” (Giovanni 8.58).

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01.19 – LA FUGA IN EGITTO (Matteo 2.13-15)

01.19 – La fuga in Egitto (Matteo 2.13-15)

 

13Essi erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto e resta là finché non ti avvertirò: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo».14Egli si alzò, nella notte, prese il bambino e sua madre e si rifugiò in Egitto, 15dove rimase fino alla morte di Erode, perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: Dall’Egitto ho chiamato mio figlio. 16Quando Erode si accorse che i Magi si erano presi gioco di lui, si infuriò e mandò a uccidere tutti i bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni in giù, secondo il tempo che aveva appreso con esattezza dai Magi. 17Allora si compì ciò che era stato detto per mezzo del profeta Geremia: 18Un grido è stato udito in Rama, un pianto e un lamento grande: Rachele piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più.”.

 

I Magi, dopo la loro adorazione e aver lasciato i doni che consentiranno a Gesù e alla sua famiglia una vita dignitosa oltre al loro sostentamento nel periodo in Egitto, non verranno più nominati. Con la loro venuta e partenza da Betlehem si apre e si chiude una finestra su quella moltitudine di popoli che sarebbero stati chiamati e salvati in seguito. L’omaggio dei Magi, di cui non ci viene detto il nome né quanti fossero, è quello delle anime che aspettano l’adempimento del regno di Dio, di chi è conscio di un mistero che verrà rivelato un giorno. I Magi si basavano su pochi elementi, ma li seppero conservare con certezza aspettando quella stella ogni notte, in un buio solo apparente, amico. Metto sempre a confronto il mettersi in viaggio di quelle persone, che si fidarono solo della loro tradizione e fede, e il comportamento dei sapienti interpellati da Erode che, per nulla interessati dal racconto di quegli stranieri, risposero freddamente che il Messia sarebbe nato a Betlehem per poi tornarsene alle loro occupazioni, ai loro riti, alla gestione della propria ignoranza interiore, all’incapacità di distinguere, in quei testi davvero sacri orgogliosamente studiati, che era giunto il tempo in cui il regno di Dio sarebbe giunto a loro.

Il sogno dei Magi fu una rivelazione che dovette confortarli molto: tutti loro ricevettero lo stesso messaggio, ebbero la medesima visione, cosa umanamente impossibile; così, all’aver trovato la stella, al Re dei Giudei individuato e omaggiato, si aggiunse un ordine di Dio in sogno che osservarono. Considerata la continuità del triplice messaggio ricevuto – stella, Re e sogno -, alla parola data ad un re umano preferirono rispettare quella che il Re divino aveva rivolto a loro.

Subito dopo la partenza dei Magi abbiamo la quinta rivelazione dell’angelo, termine che non si riferisce ad un essere con ali e aureola, ma a un personaggio identificabile come un “messaggero”. Nessun profeta, tranne che nelle sue visioni riguardanti realtà soprannaturali che si svolgono in ambienti non umanamente raggiungibili, ha mai dato sugli angeli in terra descrizioni diverse da quelle di “uomini” talché l’autore della lettera agli Ebrei in 13.2 scrive “Non dimenticate l’ospitalità: alcuni, praticandola, hanno ospitato senza saperlo degli angeli”.

Rivelazioni angeliche precedenti al sogno di Giuseppe furono l’annunzio a Zaccaria, quello a Maria, a Giuseppe invitato a non lasciare la sua promessa sposa, quello ai pastori, e infine questo, che costituisce anche il secondo sogno di Giuseppe, che ebbe rivelata la volontà di Dio sempre in questo modo.

Va rilevato che la traduzione “sta cercando il bambino per ucciderlo” non è corretta ed è preferibile quella che recita “si accinge a cercare il bambino per eliminarlo” o, come traduce Diodati, “cercherà il bambino per farlo morire”. Anche Ricciotti scrive “sta per cercare il bambino”. La versione che ho scelto per il suo italiano più scorrevole, fa istintivamente pensare che Erode decise la “strage degli innocenti” a seguito di un attacco d’ira perché gabbato dai Magi. Dio invece, perfetto conoscitore degli eventi anche futuri, preavvisa il “padre” di Gesù quando ancora Erode progettava di eliminare il bambino e aspettava il rientro a palazzo della delegazione dei Magi.

La reazione di Giuseppe, uomo d’azione, è un esempio di fedeltà: destatosi, comprende la vitale importanza del sogno, sveglia la moglie, entrambi prendono le loro cose e partono in breve tempo affrontando una settimana circa di viaggio con un bimbo di pochi mesi raggiungendo a un certo punto l’antica strada carovaniera che costeggiava il Mediterraneo per poi raggiungere la Palestina e finalmente l’Egitto. Un viaggio duro ed estenuante caratterizzato dal caldo del deserto. È utile ricordare che lo stesso percorso, relativamente alla carovaniera, è citato da Plutarco che afferma che i soldati romani di Gabinio, una delle personalità più importanti del periodo che precedette la guerra civile tra Cesare e Pompeo, temevano quella traversata più della guerra che li aspettava in Egitto.

Giunti là, penso che la famiglia si sia stabilita vivendo dignitosamente perché aveva con sé l’oro portato in dono dai Magi venuti da oriente. Giuseppe, Maria e Gesù sarebbero rimasti in Egitto fino a quando il messaggero non fosse tornato, vale a dire alla morte di Erode il Grande, avvenuta pare per cancrena di Fournier. Scrive Giuseppe Flavio (Guerre Giudaiche 1,656) “…tutto il suo corpo fu preda della malattia, diviso tra varie forme di mali; aveva una febbre non violenta, un prurito insopportabile su tutta la pelle e continui dolori intestinali, gonfiori ai piedi come per idropisia, infiammazione all’addome e cancrena dei genitali con formazione di vermi, e inoltre difficoltà a respirare se non in posizione eretta, e spasmi di tutte le membra”.

Torniamo alla cronologia: Maria e Giuseppe erano partiti come i Magi prima di loro ed Erode attendeva, sempre più spazientito, fino a quando non comprese, di suo o perché informato dai suoi agenti sparsi ovunque – tra i quali c’erano anche persone “normali” che gli riferivano fatti e comportamenti dietro compenso – di essere stato ignorato. Credo che nulla possa fare infuriare di più un despota del non essere preso in considerazione. Credo che nulla possa preoccupare di più un simile personaggio del sapere della nascita di un rivale, a parte le considerazioni che abbiamo fatto nel precedente studio: la domanda che gli fu rivolta, “Dov’è il re dei giudei che è nato”, era un presagio nefasto che lo preoccupava e che vedeva abbattersi non solo su di sé, ma anche sulla sua discendenza, su tutto ciò che aveva fatto e costruito.

Erode, che allora non era ancora malato, è scritto che si infuriò e prese l’unica decisione per lui possibile, cioè uccidere tutti i bambini di Bethlehem dai due anni in giù e, non volendo sbagliare, abbondò nei calcoli possibili basandosi sui dati che i Magi gli avevano fornito sulla durata del loro viaggio e da quando avevano visto la stella. Ebbe così luogo quella conosciuta come “strage degli innocenti”, che è stato calcolato, in base agli abitanti di Bethlehem (un migliaio) e ai bambini maschi che potevano esservi, potesse avere fatto una ventina di vittime. Fu episodio che, per la scarsa rilevanza per la mentalità di allora e per le altre nefandezze di Erode, non fu riportato da nessuno storico, neppure da Giuseppe Flavio, nonostante gli fosse ostile.

Sicuramente possiamo dire che questa strage può costituire un primo segno di contraddizione, il primo “sasso su cui inciampare” di cui parlò Simeone: ci si può chiedere perché, se

Dio è tanto misericordioso, abbia permesso la morte di bambini innocenti trucidati, presumiamo, con la spada, causando tanto dolore in chi restava, le madri per prime. La domanda è simile a quella che molti si pongono ogni qualvolta avvengono fatti di cronaca che turbano la sensibilità e l’opinione pubblica, come i terremoti, le inondazioni, gli attentati in cui “pagano” persone innocenti. Ci si dimentica che il mondo, la vita che viviamo, da quando i nostri progenitori furono esclusi da Eden, non offre alcuna garanzia di sopravvivenza e che siamo soggetti a termine. Non abbiamo firmato, né noi, né chi per noi, un contratto che ci dice che la nostra vita sarà longeva e avrà una scadenza lontana nel tempo, che si concluderà quando saremo soddisfatti perché vedremo ogni nostro progetto realizzato, che ce ne andremo come Abrahamo, che morì “in felice canizie, vecchio e sazio di giorni” (Genesi 25.8). Al contrario, scrive Paolo ai romani, “Noi sappiamo che fino ad ora tutto il mondo creato geme insieme ed è in travaglio” (8.24). La vita che ogni essere umano vive non è esente da nessuna sofferenza: malattie più o meno gravi, progetti e intenti che naufragano, attitudini che raramente riescono ad esprimersi come vorremmo. La morte dell’innocente, che una volta ho sentito definire come “un mistero”, rientra purtroppo nei casi dell’esistenza di cui l’agente che la causa porterà la responsabilità, come in questo caso. Rientra nelle conseguenze del peccato, in quelle “spine e triboli” che avrebbe prodotto la terra ad Adamo, là dove per “terra” non si deve intendere solo il suolo, ma la vita sul pianeta in quanto tale che, dal momento in cui inizia, non può che finire. Solo in Eden, territorio che ricordiamo fu posto da Dio sulla terra e da lui stesso circondato con quattro fiumi, non vi era sofferenza né morte, così come non vi sarà nel Regno di Dio, nei “Nuovi cieli e nuova terra ove dimora stabile la giustizia”.

Quando leggo questo episodio mi viene solo in mente la speranza che chi abbia ucciso quei bambini sapesse come e dove colpire, anche se le guerre combattute da sempre conoscono orrori anche maggiori e penso che il peccato non può che produrre la morte. La morte, che non è detto sia rapida, può arrivare in qualunque momento e ad ogni età; è un aspetto di quel “giorno del Signore che arriva come un ladro di notte”: coglie di sorpresa. Così sarà il suo ritorno, così accade sempre per la sua chiamata attraverso il decesso: pochissimi sono quelli che si trovano preparati a riceverlo. Per noi quanto avvenuto in Betlehem è un fatto orribile, ma non per gli storici antichi i quali, rispetto alle nefandezze di cui si macchiò Erode, non lo riportarono neppure. C’è chi sostiene che l’episodio non sia avvenuto e che Matteo abbia voluto colorire il suo Vangelo con un racconto teso a dimostrare due profezie adducendo il pretesto che il re non avrebbe potuto emettere una condanna a morte senza l’approvazione del Sinedrio: di fatto, Giuseppe Flavio riferisce che, pochi istanti prima di morire, Erode fece uccidere molti insigni giudei nell’ippodromo di Gerico perché ci fosse chi piangesse nell’occasione della sua dipartita. E non chiese il permesso a nessuno.

La strage degli innocenti, a conferma della prudenza che il re ebbe nell’ordinarla, non avvenne solo a Betlemme, ma nel territorio circostante e Rama era nei pressi. Ecco perché il pianto di Rachele, moglie di Giacobbe e madre di Giuseppe e Beniamino che morì di parto e venne sepolta là, “sulla via di Efrata, cioè di Betlemme” (Genesi 35.19) è accomunato a quello delle madri degli innocenti; Rachele non era una donna comune, soffrì perché era sterile e non riusciva a dare una discendenza al marito, al contrario dell’altra di lui moglie Lea.

La permanenza in Egitto durò circa due anni, ed ecco il terzo sogno di Giuseppe col messaggero: aspettava l’angelo che gli aveva detto di restare in Egitto, dove c’erano comunque ebrei e sinagoghe, e che lo avrebbe avvertito di tornare. Ciò avvenne alla morte di Erode il Grande, avvenimento che adempie quel proverbio di Salomone che recita “L’empio è travolto dalla sua stessa malvagità, ma il giusto ha speranza nella sua stessa morte” (Prov. 14.32).

Ho chiamato mio figlio fuori dall’Egitto” è la profezia che Matteo ci ricorda e la troviamo in Osea 11.1, “Quando Israele era fanciullo, io l’amai e dall’Egitto chiamai mio figlio”: è un aggiornamento storico che ci offre il passaggio da quando il popolo si mosse da quel Paese avendo Mosè come conduttore, a quello attuale, il Cristo. Ricordiamo che Mosé si troverà a parlare con Gesù ed con Elia alla trasfigurazione (Matteo 17.1-13).

A questo punto leggiamo che Giuseppe, di cui non abbiamo tramandato nessuna parola, esecutore obbediente alle istruzioni ricevute da Dio, fu preso da timore quando seppe che, morto Erode, gli era succeduto Archelao, crudele come suo padre. Il regno di Erode, in forza del suo testamento poi ratificato e modificato da Augusto che non voleva che il titolo di re competesse ad alcuno dei suoi figli, fu diviso tra loro: ad Archelao toccarono Giudea, Idumea e Samaria; Antipa ebbe la quarta parte del regno con la Galilea e la Perea e a Filippo toccò la Batanea con l’Auranitide, la Traconide e una parte dell’Iturea. Un altro figlio di Erode, Filippo omonimo del precedente, non ebbe alcun governo ma visse a Roma da privato cittadino. Mentre Antipa e Filippo governarono il loro territorio per tutto il tempo della vita di Gesù ed oltre, Archelao fu accusato di tirannia presso Augusto che lo destituì esiliandolo a Vienna nelle Gallie.

Ecco, qui abbiamo il raccordo con Luca, che inserisce un versetto che fa da ponte tra le benedizioni di Simeone ed Anna e l’episodio che lo vede dodicenne tra i dottori della Legge: “Ora quando ebbero compiuto tutto quello che riguardava l’osservanza della legge del Signore, ritornarono in Galilea, nella loro città di Nazareth” (2.39). Interessante l’aggiunta che fa al verso successivo: “intanto il bambino cresceva e si fortificava nello spirito, essendo ripieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui”.

Ecco, Matteo spiega come mai Maria e Giuseppe tornarono a Nazareth, un perché spirituale e non solo: Gesù sarebbe stato chiamato “Nazareno” sia perché proveniente da quel paese, sia perché la parola ebraica da cui deriva il nome, “netzer” (“germoglio, ramo”) ricorda Isaia 11.1 “Poi un ramoscello uscirà dal tronco d’Isai – padre di Davide – e un germoglio spunterà dalle sue radici. Lo Spirito dell’Eterno riposerà su di lui: spirito di sapienza e di intelligenza, spirito di consiglio e di potenza, spirito di conoscenza e di timor dell’Eterno”. Tutto iniziò da Nazareth, che ricordiamo come prima località visitata dall’angelo Gabriele quando annunciò a Maria che avrebbe avuto un figlio.

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