01.14 – SIMEONE (Luca 2.25-35)

01.14 – Simeone (Luca 2.25-35)

 

25Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. 26Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. 27Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, 28anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:29«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, 30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, 31preparata da te davanti a tutti i popoli: 32luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». 33Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. 34Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione 35– e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori»”.

 

Luca ci presenta qui un personaggio singolare nel vero senso del termine: a Gerusalemme, città che all’epoca si calcola avesse circa 100mila abitanti, viveva “un uomo” la cui posizione ha suscitato in me diversi interrogativi, primo dei quali se Luca, scrivendo appunto “un uomo” intendesse dare un riferimento numerico nel senso che il rapporto uomo giusto – abitanti di Gerusalemme fosse di 1:100.000 oppure no. Per rispondere occorre tener presente diversi aspetti che caratterizzano il personaggio. L’unicità di Simeone, il cui nome significa “Dio ha ascoltato”, è data da tre caratteristiche, tutte in stretta relazione tra loro: era “giusto”, aggettivo già utilizzato finora da Luca per indicare Zaccaria, Elisabetta e Giuseppe. La loro “giustizia” è da intendersi come caratteristica interiore, quella che viene dalla fede che governa tutto l’agire dell’essere umano che, nel loro caso visto il tempo in cui vivevano, si manifestava attraverso l’attenzione alla legge morale originata dal timor di Dio. Sbaglieremmo se volessimo vedere in questi personaggi delle “brave persone” che credevano nelle promesse ricevute tramite la Legge e i Profeti e cercavano di osservare i comandamenti: la loro era una disposizione di cuore, un attaccamento, l’aver realizzato che in nessun altro potevano trovare la loro consolazione spirituale, la loro dignità di esseri umani. Questo atteggiamento era il risultato di una lunga assimilazione, di una pratica che aveva finito per permeare tutta la loto vita, quella che fa dire al salmista “Cerca la gioia nel Signore – l’unico che può dare quella stabile –: esaudirà i desideri del tuo cuore. Affida al Signore la tua via, confida in lui ed Egli agirà: farà brillare come luce la tua giustizia, il tuo diritto come il mezzogiorno. Sta’ in silenzio davanti al Signore – perché è lui e non tu che deve parlare – e spera in lui; non irritarti per l’uomo che ha successo, per l’uomo che trama insidie. Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti, non ne verrebbe che male. Perché i malvagi saranno eliminati, ma chi spera nel Signore avrà in eredità la terra”.

La giustizia di Simeone, pari a quella di Abramo perché poggiata sulla fede, si basava sulla certezza dell’ereditare la terra, quella nuova che sarà creata in sostituzione dell’attuale corrotta, che sarà popolata dai giusti, cioè da coloro che Lo cercarono, trovandolo. Simeone era un uomo paziente e soprattutto attento ai segni del suo tempo a tal punto che lo Spirito Santo gli aveva rivelato che non sarebbe morto senza aver visto il Cristo. Fu un premio analogo a quello che fu concesso ad Abrahamo, citato da Gesù con queste parole: “Abrahamo, vostro Padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Giovanni 8.56).

La seconda caratteristica di Simeone è “timorato di Dio”, termine che non ha a che fare con la paura, ma piuttosto con il rispetto e il sapere che ogni azione contraria alle Sue aspettative produce una conseguenza. L’assenza del timore di Dio rende l’uomo presuntuosamente autonomo e tutto ciò porta con sé, come sappiamo dalla disubbidienza di Adamo e sua moglie, conseguenze terribili viste nella morte con tutte le sue applicazioni. Al contrario l’esperienza degli uomini “giusti” che ci hanno preceduto li ha spinti a lasciare parole importanti per il nostro orientamento: “Principio della sapienza è il timore del Signore e conoscere il Santo è intelligenza. Per mezzo mio – è la sapienza che parla – si moltiplicheranno i tuoi giorni, ti saranno aumentati gli anni di vita. Se sei sapiente, lo sei a tuo vantaggio; se sei spavaldo, tu solo ne porterai la pena” (Proverbi 9.10-12). Ancora: “Nel timore del Signore sta la fiducia del forte; anche per i suoi figli egli sarà un rifugio. Il timore del Signore è fonte di vita per sfuggire ai lacci della morte” (Ibid. 14.26-27).

Questi versi, appartenenti all’Antico Patto ma validi ancora oggi fatte le dovute estensioni dateci dalla Grazia, credo che illustrino molto bene l’atteggiamento e la ricerca di Simeone: la sua condotta si basava su una profonda acquisizione del suo essere in rapporto con quel Dio che aveva promesso “la consolazione di Israele”, uno degli attributi coi quali veniva indicato il Messia e che i rabbini sostengono sia stato l’argomento di cui parlarono Elia ed Eliseo poco prima che il profeta venisse rapito: in 2 Re 2.11 leggiamo “Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo”.

La “consolazione di Israele” la possiamo vedere in diversi passi della Scrittura, ad esempio Isaia: “Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri. Sion ha detto «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato»: si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?” (Isaia 49.13-15). Ancora, “Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò. A Gerusalemme sarete consolati” (66.13).

Simeone, a differenza di molti, non aspettava un liberatore terreno e temporale dal dominio di Roma pagana, ma “la consolazione di Israele”, temine unico, preciso, riferito non a un uomo buono e compassionevole, ma a quell’unica persona deputata da Dio ad essere l’Emanuele, il liberatore dal peccato. Al Re potente e glorioso che il popolo attendeva, Simeone preferiva quello di un consolatore individuale e collettivo al tempo stesso.

Leggiamo una quarta caratteristica di quest’uomo, conseguente alle altre: “Lo Spirito Santo era sopra di lui”. Non era cosa da poco, considerati i tempi di allora in cui regnava una notevole confusione religiosa, con l’esercizio dell’apparenza a scapito di quello della pietà, come troviamo riferito nella cosiddetta parabola del buon samaritano (Luca 10.25-37) e in quella del Fariseo e del pubblicano (Luca 18.9-14). Conseguenza dell’allontanamento del popolo dalla giustizia e dal timor di Dio era la presenza, oltre che dei romani dominatori, di molte malattie e indemoniati che verranno guariti da Nostro Signore.

Ebbene quello Spirito di Dio aveva rivelato a Simeone – non è detto in che modo – che non sarebbe morto senza aver visto il Cristo, l’Unto del Signore: si trattò di un premio di fronte alla sua costanza fatta di riflessioni, preghiere ed opere. E probabilmente quest’uomo era un Rabbi. Uno su centomila aspettava in modo corretto, non religioso, ma vivo, spontaneo. A uno su centomila fu rivelato qualcosa di assolutamente particolare, come se fosse un profeta muto perché gli eventi avrebbero parlato per lui. Simeone faceva parte di quei superstiti di cui parla Isaia nel suo capitolo primo descrivendo (anche) la posizione spirituale dell’Israele del tempo: “«Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». Guai, gente peccatrice, popolo carico d’iniquità! Razza di scellerati – vedi Giovanni battista, che disse “razza di vipere” –, figli corrotti! Hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo d’Israele, si sono voltati indietro. Perché volete ancora essere colpiti, accumulando ribellioni? Tutta la testa è malata, tutto il cuore langue. Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è nulla di sano, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite né fasciate né curate con olio. La vostra terra è un deserto, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri; è un deserto come la devastazione di Sòdoma. È rimasta sola la figlia di Sion, come una capanna in una vigna, come una tenda in un campo di cetrioli, come una città assediata. Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato qualche superstite, già saremmo come Sòdoma, assomiglieremmo a Gomorra”.(Isaia 1. 3-9)

Il “superstite”, oltre alla citazione di Sodoma, ci ricorda Abramo quando, parlando con Dio, fece intercessione per i giusti che eventualmente la abitavano, perché non perissero nella sua distruzione (Genesi 18) e che si riassume con la frase “Davvero tu sterminerai il giusto con l’empio?”. A Sodoma come sappiamo abitava Lot che, come scrive Pietro nella sua prima lettera, era “angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto infatti, per quello che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta per tali ignominie”

(1 Pietro 2.8,9).

Ci sono però altre considerazioni. Quando un essere umano si annulla e si fa docile, pronto a ricevere continuamente l’amore di Dio che ricambia, gli consente di agire e diventa un tutt’uno con lui, fatti salvi i confini penalizzanti del corpo e le sue limitazioni: mosso dallo Spirito, Simeone va al Tempio proprio quando Maria e Giuseppe stavano portandovi il bambino. Simeone non va là per fare un giro o senza sapere perché, ma “mosso dallo Spirito” proprio quando Maria e Giuseppe portavano il loro primogenito al Tempio per la sua consacrazione. Si adempì così la profezia di Malachia 3.1 “L’angelo del patto, che voi desiderate, verrà nel suo tempio”. A uno su centomila fu rivelato questo.

Simeone riconobbe il bambino, non sappiamo fra quanti, leggiamo che lo accolse tra le braccia – i rabbini prendevano in braccio i bambini per benedirli – e fece una solenne dichiarazione perché si trovò di fronte il compimento della rivelazione fattagli dallo Spirito Santo: quell’ “ora lascia che il tuo servo vada in pace” non lascia alcun dubbio sul fatto che non desiderasse altro dalla vita terrena che riteneva conclusa nel modo migliore.

È importante il termine greco usato per indicare “Signore”, piuttosto raro nel Nuovo Testamento, che allude a un padrone assoluto, proprietario delle persone o delle cose; lo troviamo in

Atti 4.24 (“Signore, tu che hai creato il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi”) e in 2 Timoteo 2.21

(“Chi si manterrà puro astenendosi da tali cose, sarà un vaso nobile, santificato, utile al padrone, pronto per ogni opera buona”). Simeone allora qui si fa esempio. Per lui il “Signore” non è un essere superiore da chiamare con un titolo onorifico, ma Colui che con la sua autorità e santità dispone di tutto ed è il padrone di ogni cosa, quindi anche della vita dell’uomo. Oggi come ieri sono purtroppo in tanti a qualificare Dio come “Signore”, ma poi dimostrano coi loro atti che in realtà Lui è qualcosa di estraneo per loro, buono tutt’al più per preghiere che non portano a nessun esaudimento.

C’è poi un particolare, una precisazione molto interessante nelle parole di quest’uomo, cioè che la salvezza non sarebbe stata monopolio di un solo popolo, ma sarebbe diventata patrimonio di tutti, anche dei pagani, degli stranieri che avrebbero creduto in Lui. Se quindi Zaccaria aveva pronunciato il suo cantico da sacerdote che pensava alla promessa specifica del Messia e sapeva il ruolo che avrebbe avuto il figlio Giovanni, Simeone va oltre, allarga la prospettiva riferendosi, con il termine “Luce per illuminare le genti” a Isaia 42.6,7: “«Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre. Io sono il Signore: questo è il mio nome; non cederò la mia gloria ad altri, né il mio onore agli idoli. I primi fatti, ecco, sono avvenuti e i nuovi io preannuncio; prima che spuntino, ve li faccio sentire»”.

Guardando agli avvenimenti passati e futuri in relazione alle parole di Simeone e ad Isaia 60.3 che scrive “Cammineranno le genti alla tua luce”, sono certamente da leggere le parole dell’apostolo Paolo nella Sinagoga di Antiochia: “«Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. 47Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra». 48Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. 49La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione”. (Atti 13.46,49).

Leggiamo poi che Giuseppe e Maria si meravigliarono di quelle parole: non era un sentimento di scetticismo o di incomprensione, ma piuttosto di meraviglia raccordando tutti gli avvenimenti di cui erano stati testimoni. Maria aveva avuto l’annuncio dell’angelo, Giuseppe aveva ricevuto l’invito a non abbandonarla in sogno, poi avevano avuto la visita dei pastori: raccordando tutte queste cose, lo stupore di fronte alla perfetta coincidenza tra l’esperienza spirituale avuta e ciò che sperimentavano “toccando con mano”, è pienamente comprensibile. Ma Simeone ebbe anche delle parole per loro: “li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e il sollevamento di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima”.

Rovina” e “sollevamento di molti”: due destini contrari. Qui c’è una conferma personale e diretta di Isaia 8.14,15: “Egli sarà insidia e pietra di ostacolo e scoglio d’inciampo per le due case di Israele – tutti gli ebrei –, laccio e trabocchetto per gli abitanti di Gerusalemme. Tra di loro molti inciamperanno, cadranno e si sfracelleranno, saranno presi e catturati”.

“Rovina” e “sollevamento” intesa in senso spirituale che sarà la divisione tra quanti crederanno in Lui oppure Lo rifiuteranno. Infatti Gesù disse: “Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia il Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessuno ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio, questo perché si adempisse la parola scritta nella loro legge «Mi hanno odiato senza ragione»” (Giovanni 15.22-25). Il “sollevamento”, poi, è usato da Luca in altri passi per indicare la resurrezione.

Gesù sarà un segno di contraddizione sotto questo aspetto, perché siano svelati i pensieri di molti cuori: la lettura dei Vangeli dimostra questa profezia con le reazioni di tutti coloro che ebbero a che fare con lui in giudizio – e penso all’entusiasmo del giovane ricco, convinto di essere un buon osservante, ma che si allontanò contristato quando gli fu chiesto di abbandonare tutto e di unirsi ai discepoli – o in salvezza. È la reazione all’annuncio o alla proposta della Parola che rivela i pensieri dei cuori, cioè ciò che abita realmente la persona. Qui si aprirebbe un capitolo sterminato.

L’ultima frase, è per Maria. La presenza della spada qui denota dolore e angoscia, l’anima come riferimento a tutto l’essere della persona e credo abbia connessione col dolore che proverà questa donna da lì a 33 anni ai piedi della croce quale punto culminante dopo tutte le sofferenze che infliggeranno i romani, dietro istigazione degli abitanti di Gerusalemme, al figlio. La strada della salvezza è lastricata di dolore, speranza, resistenza, certezza, dell’essere e farsi strumento nelle mani di Dio. Amen.

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