01.18 – DINAMICHE (Matteo 2-7-12)

01.18 – Dinamiche (Matteo 2.7-12)

 

7Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire da loro con esattezza il tempo in cui era apparsa la stella 8e li inviò a Betlemme dicendo: «Andate e informatevi accuratamente sul bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo».
9Udito il re, essi partirono. Ed ecco, la stella, che avevano visto spuntare, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. 10Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima. 11Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. 12Avvertiti in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro paese.
”.

 

Satana, il calcolatore, il tecnico, lo psicologo per eccellenza che si prefigge come unico scopo quello di agire contro i progetti di Dio nei riguardi dell’uomo al fine di perderlo, doveva fare tutto ciò che era in suo potere pur di avere ragione su Colui che lo avrebbe sconfitto. Perché là dove c’è un piano di salvezza, ce n’è anche uno di perdizione ordito dal “principe di questo mondo”. Lo fa da sempre. Questo piano iniziò una volta constatata la libertà, gratuità e ricchezza di relazione che l’uomo aveva in Eden e proseguì di pari passo con le varie epoche: pensiamo alla dispensazione della coscienza quando suscitò il pensiero omicida in Caino, al rifiuto all’obbedienza in quella della Legge, a Erode quando nacque Gesù e poi via, attraverso tutti i persecutori della vera Chiesa; solo il giudizio definitivo su di lui e relativi angeli potrà fermarlo una volta per sempre.

Ora, a proposito di Erode, riflettiamo un attimo su quanto sappiamo sulla biografia di re, imperatori o dittatori piccoli e grandi indipendentemente dall’epoca in cui sono vissuti: tutti loro hanno sempre teso ad esaltare la loro immagine perché dotati di un ego smisurato, adoratori in primis di loro stessi e disposti a tutto pur di garantirsi la sopravvivenza, oltre che propria, di quanto hanno costruito. Nella lettura dei testi storici abbiamo incontrati tanti, eroi negativi tanto nella Bibbia quanto al di fuori. La tecnica di questo piccolo despota è stata la seguente: trovandosi di fronte una delegazione di persone autorevoli che non lo avevano cercato dando molta più importanza a quel re che sarebbe stato davvero vittorioso e liberatore, Erode ritenne di non allarmarli facendoli scortare dai suoi uomini fino a Betlehem, e li chiamo “segretamente” – il fare di nascosto le cose è già indice di cospirazione contro qualcuno – informandosi nei dettagli sul motivo della loro visita, su come avevano fatto a sapere di quella nascita, sul loro viaggio e soprattutto da quanto tempo era apparsa la stella. Erode aveva quindi un piano di riserva, come dimostrò successivamente, per uccidere il bambino. Il re voleva usare i magi come informatori inconsapevoli, ma soprattutto il reale disegno (satanico) prevedeva che il bambino Gesù fosse ucciso dagli uomini di Erode proprio grazie ai dati forniti da chi che era venuto da lontano a rendergli omaggio. Era questa una beffa che, per l’Avversario, avrebbe rappresentato una grande sottolineatura alla sua eventuale vittoria contro progetto di Dio.

Il verso della stella che “giunse e si fermò sul luogo dove si trovava il bambino” si potrebbe raccordare a quanto è riportato in Giosuè 10.12-15 che narra l’episodio in cui Israele sconfisse gli Amorrei che, come è noto, fu interpretato letteralmente dalla Chiesa del 1600 quando, tramite il Sant’Uffizio, condannò Galileo per eresia: “«Fermati, sole, su Gabaon, luna, sulla valle di Aialon». Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici. Non è forse scritto nel libro del Giusto? Stette fermo il sole nel mezzo del cielo, non corse al tramonto un giorno intero. Né prima, né poi vi fu un giorno come quello, in cui il Signore ascoltò la voce di un uomo, perché il Signore combatteva per Israele” (12-15). Se quindi in via teorica il Creatore non avrebbe avuto difficoltà a “fermare una stella”, in realtà non fece nulla del genere, ma semplicemente raccordò la dinamica del viaggio dei magi e del luogo in cui suo Figlio si trovava a quella della congiunzione dei pianeti, vista la volta scorsa, in cui termina il moto diretto “da – a” per iniziare quello retrogrado: in quel momento sembra, a chi lo osserva, che “la stella” si fermi. Sono perfettamente consapevole di usare termini primitivi, rudimentali; tuttavia chi volesse approfondire in merito esistono studi molto interessanti, reperibili in Rete, editi dall’Osservatorio Astronomico di Genova a cura di Giuseppe Veneziano e Marco Codebò sia riguardo alla “stella dei Magi”, ma ancor di più sull’astronomia nei testi biblici.

Giunti a quel punto e constatato il fenomeno, i Magi capirono di essere arrivati a destinazione: per loro era il coronamento non solo di un lungo viaggio (800 km), ma di attese secolari che si erano tramandati da generazioni e l’idea che avessero di un salvatore dell’umanità che sarebbe nato ci conferma quanto fosse andato in profondità nel cuore e nella mente di queste persone l’insegnamento di Daniele, tramandato nei secoli e che si raccordava ai profeti venuti prima di lui.

Non sappiamo dove “la stella si fermò”: c’è chi traduce con “casa”, chi con “luogo”, ma è evidente che i Magi arrivarono quando Maria non era più impura secondo la Legge e che quindi avesse potuto trovare ospitalità presso dei parenti, probabilmente gli stessi che non avevano potuto accoglierla quando stava per partorire. Giuseppe non era presente e i Magi si prostrarono – come davanti al re che attendevano – e lo adorarono – lui, non sua madre – vale adire esternarono tutto il loro sentimento reverenziale, riconoscendo in lui chi avrebbe esteso il suo dominio spirituale su tutti i popoli. La loro conoscenza era quella che si tramandavano da generazioni basata su forse poche, ma per loro certe profezie e sono certo che vadano riconosciuti anche nel Salmo 72.9-12 di Salomone: “A lui si pieghino le tribù del deserto, mordano la polvere i suoi nemici. I re di Tarsis e delle isole portino tributi, i re di Saba e di Seba portino doni. Tutti i re si prostrino a lui, lo servano tutte le genti, perché egli libererà il misero che lo invoca e il povero che non trova aiuto”. Adorare presuppone il fatto che si riconosca a chi riceve quel gesto una dignità e un potere unico, riconoscendo l’inferiorità assoluta di chi la porge. Al prostrarsi dei magi si accompagnava un profondo sentimento interiore e non escludo che, per le modalità con cui si manifestò loro “la stella”, riconoscessero in Lui anche il re del creato.

Mi sorge spontaneo paragonare i due sentimenti descritti al verso 3 (“All’udire questo Erode fu turbato e con lui tutta Gerusalemme”) e il 10 (“Al vedere la stella, provarono una gioia grandissima”), due opposti. Citando le parole di un fratello, “Il turbamento cui il testo si riferisce non caratterizzò solo Erode, ma soprattutto le autorità religiose del popolo d’Israele che dimostrarono, con il loro stile di vita, di non aspettare affatto il promesso Messia e di avere una profonda ignoranza delle scritture profetiche malgrado la lettura continua nel Tempio e nelle Sinagoghe. Ancora oggi molti celebrano il Natale di Cristo, ma non fanno mai proprio il Suo Vangelo e la dottrina degli Apostoli. Natale dunque non è espressamente la giornata nella quale dimostrare di essere necessariamente buoni, dove le strette di mano accompagnate da frasi di circostanza trovano fondamento solo in tradizioni pagane: quelle stesse mani che si stringono diventano poi da calde a tiepide e quindi fredde, dure, violente”. I Magi furono annunciatori della nascita di Gesù a un popolo che a parole attendeva un Messia che avrebbe dovuto portarlo a una vittoria materiale, non certo spirituale.

Dopo l’adorazione, ecco i doni che non ebbero un significato umano, ma profetico, premesso che secondo l’uso del tempo i re non ricevevano delegazioni che non portassero con sé degli omaggi.

 

  1. 1. ORO

era probabilmente quello di Ofir, estratto nella regione di Avila, che aveva 24 carati. Il suo significato, come per gli altri doni, è fondamentale: l’Avila era bagnata dal fiume Pison, primo dei quattro che prendevano origine dall’unico fiume che usciva dal giardino di Eden e che significa “Primogenito”; il Pison anticipa e presenta la persona e la nascita di Cristo, definito anche “Il primogenito di ogni creatura”. L’oro poi aveva connessione “pratica” con lo stato regale del bambino che gli attribuivano i Magi riconoscendo in Lui la Sua presenza nel tempo: re era e sarebbe stato sempre e per sempre, come del resto l’oro, che è inattaccabile dagli agenti chimici. L’oro, nella Scrittura, ha sempre connessione con l’essere di Dio, mentre l’argento con quella dell’uomo.

 

  1. 2. INCENSO

il riferimento è alla divinità di Cristo e al tempo stesso è figura della preghiera che sale verso l’alto. Ricordiamo che Gesù, nella Sua vita terrena, rimase sempre in contatto col Padre anche per mezzo di lei. Non sappiamo la composizione dell’incenso che gli portarono i magi, ma quella che i sacerdoti bruciavano sull’altare a lui dedicato, quello detto anche dei profumi, era costituito da quattro componenti in parti uguali, che si bruciavano al mattino e alla sera. “Sarà da voi ritenuta cosa santissima, Non farete per vostro uso alcun profumo di composizione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile, per sentirne il profumo, sia eliminato dal suo popolo. (Esodo 30.34). Non è azzardato, per estensione, paragonare ai componenti dell’incenso ai quattro Vangeli che solo amalgamati, connessi e armonizzati tra loro possono dare un quadro esaustivo del messaggio di Dio per l’uomo. È in questo incenso che risiede la verità come in Cristo ne abita tutta la pienezza. Essendo l’incenso un profumo, viene spontaneo paragonarlo al Suo sacrificio.

 

  1. 3. MIRRA

proveniente da Avila come i primi due doni, ha un significato diverso, ci parla di morte e di sofferenza. La mirra è una resina che esce dalla pianta spontaneamente o per incisione praticata sulla corteccia, per poi raccoglierla una volta essicata. Gli egiziani la usavano nella mummificazione, era uno dei componenti dell’olio per l’unzione sacra non solo dei componenti per il culto ebraico, (candelabro, tenda del convegno ed altri), ma anche dei sacerdoti. La mirra, oltre che profumo, è un disinfettante e un analgesico (vedi il vino mescolato alla mirra che i soldati romani offrirono a Gesù sulla croce); inoltre, sarà portata da Nicodemo per seppellire Gesù: “Vi andò anche Nicodèmo, quello che in precedenza era andato da lui di notte, e portò una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre. Essi presero allora il corpo di Gesù, e lo avvolsero in bende insieme con oli aromatici, com’è usanza seppellire per i Giudei.” (Giovanni 19: 39-40). Con quei doni, quindi, i magi resero al bambino anche un onore profetico.

 

Fu un sogno ad avvertire i magi di non passare da Erode, avvenimento che ci parla dell’universalità del messaggio che, da lì a trent’anni circa, sarebbe stato dato all’umanità: quei sapienti, che per manifestare i loro sentimenti di adorazione avevano percorso su carovana migliaia di chilometri, scelsero una strada diversa per tornarsene al loro paese, probabilmente costeggiando il Mar Morto.

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01.17 – DUE PROFEZIE (Matteo 2.4-6)

01.17 – Due profezie (Matteo 2.4-6)

 

4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero:«A Betlehem di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: 6E tu, Betlehem, terra di giuda, non sei davvero l’ultima città delle principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele».”.

 

La nascita di Gesù, sommariamente trattata negli episodi precedenti, segna una tappa fondamentale nella storia di quell’umanità che ha scelto di porsi dalla parte di Dio. Sappiamo che ciò avvenne da Abele in poi, ma che ufficialmente fu da Enos, figlio di Set citato come terzogenito di Adamo, che si iniziò a designare uomini che si dedicassero alla preghiera e alle relazioni con YHWH (Genesi 4.26). A seconda delle traduzioni leggiamo “A quel tempo si cominciò ad invocare il nome del Signore” oppure “Allora si cominciò a nominare alcuni nel nome del Signore”. Un esempio di scelta lo troviamo poi in Giosuè che, parlando al popolo, disse “Ora dunque, temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà. Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto, e servite il Signore. Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto me e alla mia casa, serviremo il Signore” (Giosuè 24.14-15). Qui abbiamo una libertà di scelta che solo apparentemente è ideologica, poiché in realtà implica il destino di ciascuno nell’eternità.

Il verso di Giosuè ci parla di scelta tra ciò che è vivo e vero, o quanto che è costruito, inventato, adatto agli usi, credenze e ideali umani per poter trovare una giustificazione alle proprie azioni ed esistenza. Scegliere oggi a chi appartenere, scegliere il terreno su cui edificare come nella parabola della casa costruita sulla roccia o sulla sabbia.

Ebbene l’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati, usa un’espressione particolare per indicare la venuta di Gesù sulla terra, data che non ci è stata tramandata nonostante fosse conosciuta dagli evangelisti: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (4.4,5). E “la pienezza del tempo” è proprio quel periodo tra le 69ma e la 70ma settimana di Daniele cui abbiamo accennato nella scorsa riflessione.

Con questo nuovo studio non vorrei tanto esaminare quanto narrato da Matteo, ma dare un cenno anche ad altre profezie che i “capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo”, pur conoscendole, non affrontarono stante la richiesta impellente di Erode; leggiamo che li riunì facendo loro una richiesta precisa: dove sarebbe nato il Cristo secondo le loro scritture? Ecco, qui abbiamo un primo tratto del carattere del re, che riunisce il sommo sacerdote, il suo supplente, i capi delle 24 classi e gli scribi, quindi le persone più autorevoli, perché voleva sapere ciò che i Magi ignoravano. Erode quindi credette, o ritenne possibile, non escluse la possibilità che potesse davvero essere nato non un re nel senso terreno del termine, ma il Cristo, cioè l’Unto del Signore, il Messia che avrebbe liberato Israele, al contrario di lui che lo teneva soggiogato rispondendo comunque all’autorità di Roma. Ecco allora che non può essere accettata, stante il verso preciso di Matteo, la teoria in base alla quale Erode fosse geloso della nascita di un re che un giorno avrebbe minato il suo trono, ma piuttosto non poteva sopportare, tollerare la nascita del Cristo e credesse di poterlo contrastare, eliminare, uccidere. Erode allora fu uno strumento nelle mani non di quel Satana tanto sfruttato nella cinematografia e in un certo tipo di letteratura, ma del vero Avversario che, “micidiale fin dal principio” sapeva che con la nascita del Cristo sarebbe anche arrivato Colui che lo avrebbe annientato secondo il piano stabilito da Dio dalla Sua eternità.

E qui, tornando al nostro episodio, avviene un fatto davvero notevole, una testimonianza involontaria da parte dell’autorità religiosa, già da allora in combutta col potere politico: “In Betlemme di Giuda – per distinguerla dall’altra, quella di Zabulon – perché così è scritto per mezzo del profeta” (Michea). E gli lessero il testo: sarebbe nato “un capo”, quello che non vorranno riconoscere e al quale non daranno ascolto nonostante i miracoli, le implicazioni dottrinali che questi comportavano e i riferimenti all’Antico Patto che proprio loro studiavano e conoscevano.

Già dalle dinamiche di quel tempo possiamo trarre un principio fondamentale: non può esservi alcuna connessione tra potere politico e fede; se ciò accade abbiamo due elementi che, qualora si accordino, non possono che generare un sistema perverso perché la Chiesa non può avere interessi economici o di altra natura fuorché il servizio. Ricordiamo le parole “Non abbiate tra voi altro debito se non quello di amarvi gli uni gli altri” (Romani 13.8-10). La Chiesa è la comunità degli ekkletòi, dei “chiamati fuori” che, in quanto tali, con le dinamiche del mondo hanno ben poco a cui spartire.

Leggiamo la profezia di riferimento per gli interrogati da Erode in Michea 5.1-3: “E tu, Betlehem di Efrata, così piccola per essere tra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che dev’essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire, e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli sarà grande, fino agli estremi confini della terra”. Avranno spiegato ad Erode i suoi sapienti qualcos’altro a parte fornirgli un’indicazione geografica? Matteo non lo dice, ma certo è che ben difficilmente il re si accontentò di questa e volle sapere chi sarebbe stato quel “re dei giudei” che era nato e cos’avrebbe fatto.

Ecco allora che da Betlehem sarebbe uscito “per me”, quindi per l’Iddio creatore, “colui”, cioè una persona precisa e unica dalle origini antiche che, con l’espressione “dai giorni più remoti”, alludono all’eternità, all’atto creativo di Dio col quale nacque anche il tempo. La seconda parte della profezia di Michea, poi, dà uno sguardo generale ad eventi che devono ancora verificarsi, ma illustra il risultato finale del piano eterno: “Abiteranno sicuri perché egli sarà grande, fino agli estremi confini della terra”, frase in cui possiamo intravedere la connessione intima anche a livello “pratico” tra il popolo di Dio e il loro Salvatore. Michea poi indica “gli estremi confini della terra” per rappresentare prima l’universalità del messaggio e della grazia, poi la vastità dei “Nuovi cieli e nuova terra” che verranno creati e che non contempleranno la presenza di nulla di impuro.

Di tutte queste parole che i sapienti di Erode gli lessero, due furono gli elementi che gli suonarono come un allarme: il potere che avrebbe avuto il Cristo, e il verso “Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire”. Era quindi avvenuto il parto e il “potere altrui” in cui Erode il Grande si riconobbe, stava per finire. Temette per la fine del suo regno senza pensare a quella della propria anima.

Sono molti i passi dei profeti che parlano del Cristo; particolarmente interessante è quella di Isaia 52.13-15: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, perché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”. Qui Isaia ci dà un particolare: il servo del Signore “avrà successo”; siamo quindi autorizzati a pensare che prima di lui ci sia stato qualcun altro che ha fallito, quindi Adamo, che non fu in grado di adempiere nel tempo all’unico comandamento ricevuto.

Il “successo” di cui parla Isaia non allude tanto alla riuscita di una missione, a una vittoria sui nemici, ma al riscatto della vita umana: “Se per mezzo di un uomo – Adamo – venne la morte, per mezzo di un uomo – il servo vittorioso – verrà anche la resurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita” (1 Corinti 15.21.22). Cristo, risorgendo, eliminò la morte come fine di tutto per trasformarla in passaggio da vita a vita per quelli che avrebbero creduto in lui. In questo stesso capitolo l’apostolo Paolo illustra la differenza tra le due esistenze dell’essere umano, la terrena e la futura, per poi passare a riconsiderare l’Adamo trasgressore e il Nuovo e Ultimo, Gesù: “…così anche la resurrezione dei morti: è seminato nella corruzione – il corpo – risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale. Sta scritto infatti che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (Ibid. 42-45).

Ora il confronto tra i due “Adamo” e il “successo” che avrebbe avuto il Servo del Signore lo possiamo vedere mettendo a confronto i termini che contraddistinguono il nostro corpo e la nostra esistenza terrena con quello che avremo: per la prima condizione le parole sono “corruzione – miseria – debolezza – corpo animale”, per la seconda “incorruttibilità – gloria – potenza – corpo spirituale”, quattro qualità per ciascuna esistenza. C’è purtroppo un controsenso che ha sempre contraddistinto tutte le epoche attraverso le quali è vissuto l’uomo e a metterlo in risalto è la frase “Se c’è un corpo animale, c’è anche un corpo spirituale”: tutti ammettono l’esistenza del primo corpo che vede, sente, ascolta, parla e si muove, ma pochi riconoscono quella del corpo spirituale che esattamente allo stesso modo sente, ascolta, parla e si muove ma, negando l’esistenza di Dio e rifiutando di accogliere Gesù Cristo nella loro vita, lo oltraggiano e gli impediscono di agire. In questo modo il “corpo spirituale” resta ancorato a quello animale e non si distacca, non si innalza, non si salva. Resta immobile, paralizzato. E Cristo guarì i paralitici.

L’avere “successo” del Servo nato in Betlehem è sì personale e la resurrezione lo conferma, ma la sua grandiosità e mistero d’amore risiede proprio nel fatto che ha dato agli altri di seguire il suo stesso percorso glorioso nonostante la nostra caratteristica di peccatori. Chi rifiuta tutto questo rimane nei quattro ambiti che caratterizzano la condizione umana senza Cristo: corruzione – miseria – debolezza – corpo animale.

L’apostolo Giovanni, come sappiamo, scrive “A tutti quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”, quindi la corruzione – miseria – debolezza – corpo animale sono ciò che siamo ma in cui non possiamo vivere come condizione spirituale perché ciò che ci attende è qualcosa di esattamente opposto: incorruttibilità – gloria – potenza – corpo spirituale. Il vero cristiano è un essere in trasformazione, in cammino, tende alla perfezione nonostante sia imperfetto per sua natura.

Ma “Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. Vi dico questo, fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità” (1 Corinti 15.47-50).

E anche qui il richiamo a Giovanni è molto forte: “…a quelli che credono nel Suo Nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (1.12,13) perché “Quello che è nato dalla carne è carne e quello che è nato dallo spirito è spirito” (3.6). Amen.

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01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

01.16 – ASTRONOMI (Matteo 2.1-3)

 

1Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco, alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme 2e dicevano: «Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo.3All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme».”.

 

Dopo l’episodio di Simeone ed Anna, Luca scrive che “Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge di Mosè, fecero ritorno alla loro città di Nazaret” (2.39). In realtà il loro ritorno a Nazareth avvenne dopo molto tempo perché Luca non riporta la visita dei Magi e il viaggio in Egitto intrapreso per sfuggire ai piani omicidi di Erode il Grande che ci racconta Matteo. Ecco allora che Luca vuole dirci che la Nazareth fu raggiunta dai tre non dopo il rito della circoncisione di Gesù, ma piuttosto che ci furono altri avvenimenti omessi, riassunti nel verso “Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui” (Luca 2.40). Mentre Matteo ci parla dei Magi e della fuga in Egitto, Luca pone tre tappe, circoncisione – Nazareth – Gesù che cresce, e quel “la grazia di Dio era sopra di lui” contempla la protezione a lui accordata nei due periodi di cui parla Matteo.

Venendo al testo in esame, possiamo dire che è più impegnativo di quanto possa sembrare e ci rimanda agli scritti e alla persona del profeta Daniele perché tra lui e i Magi c’è un rapporto di continuità: i Magi provenivano “da Oriente”, una zona molto vasta che comprendeva la Mesopotamia, la Persia e il deserto siro-arabico. I Magi costituivano la classe sociale più elevata dopo re e prìncipi ed erano sacerdoti dello zoroastrismo, versati nelle scienze di allora con particolare riguardo per l’astronomia che studiavano da secoli ogni notte suddivisi in turni. Nelle loro terre erano considerati i rappresentanti di un sapere superiore e ritenevano il cielo notturno una sorta di grande finestra attraverso la quale leggere il volere degli dèi. È stato detto che fossero astrologi, definizione che però non può raccordarsi ai nostri odierni, così esperti nel redigere prognostici assolutamente generici, quindi adattabili alla realtà di quelli che li consultan. I Magi di allora erano convinti che per ogni persona che nascesse vi fosse una stella – ricordiamo le parole “Abbiamo visto spuntare la sua stella” – che in qualche modo la guidava o proteggeva, ma la loro conoscenza di quell’astro così specifico che attendevano poggiava le sue basi proprio sulle profezie e gli insegnamenti di Daniele, attivo a Babilonia circa 600 anni prima di loro.

Il fatto che abbiano detto “La sua stella” testimonia che quei sapienti fossero assolutamente certi che il fenomeno che avevano osservato dovesse ricondursi alla nascita del Saošyant, il salvatore del mondo che aspettavano e sapevano doveva arrivare.

Credo che per capire il loro pensiero vada dato uno sguardo alle loro credenze: la religione che professavano era monoteista ed era stata fondata da Zarathustra prima del VI sec. a.C. (ma c’è chi la fa risalire al XVIII). Era riconosciuto un unico creatore, “Signore dell’esistenza e della vita attraverso il Suo operare” (Avesta Iasna 31.8) e si sosteneva un continuo confronto fra Bene e Male prevedendo la “Vita” e la “Migliore Esistenza” per chi avesse seguito il primo, o la “Non-Vita” e la “Peggiore Esistenza” (Ibid. 30.3,4) per chi avesse fatto la scelta opposta. Soprattutto Zarathustra, loro profeta, sosteneva che alla fine dei tempi sarebbe giunta una figura messianica che avrebbe guidato le forze del bene alla vittoria e alla redenzione del cosmo. I Magi quindi aspettavano, secondo i loro testi sacri, un redentore, un salvatore. Resta il perché cercassero proprio “il re dei giudei che è nato”, domanda rivolta agli abitanti di Gerusalemme con assoluta certezza. E qui entra il profeta Daniele.

Daniele, il profeta, il cui nome significa “Dio giudica”, o “Dio è mio giudice”: fu deportato a Babilonia da Nabucodonosor dopo la distruzione di Gerusalemme del 586 a.C. unitamente ai nobili della città e ai migliori giovani del regno di Giuda perché fossero al suo servizio. Daniele e altri giovani (Anania, Misael e Azaria che in seguito furono chiamati con nomi babilonesi) furono istruiti alla corte del re per tre anni, periodo che la Scrittura descrive così: “Dio concesse a questi quattro giovani – cioè i tre più Daniele – di conoscere e comprendere ogni scrittura e ogni sapienza, e rese Daniele interprete di visioni e sogni. (…) Su qualunque argomento in fatto di sapienza e di intelligenza il re li interrogasse, li trovava dieci volte superiori a tutti i maghi e indovini che c’erano in tutto il suo regno” (Daniele 1.17,20).

Percorrendo brevemente il libro di questo profeta, ci rendiamo conto che molti furono gli episodi tramandati dalla storia di corte e che interessarono i sapienti della sua epoca, i Magi di allora: pensiamo all’interpretazione dei sogni del re sul futuro del suo regno, l’episodio in cui i tre amici di Daniele furono gettati nella fornace senza subire alcun danno (3.46-50) oltre alle sue profezie che i Magi di allora tramandarono a quelli che poi si recheranno a Gerusalemme alla ricerca del “Re dei giudei che è nato”.

La prima profezia si trova in 7.13-14: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo; giunse al vegliardo e fu presentato a lui. Gli furono dati potere, gloria e regno, tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano: il suo potere è un potere eterno, che non finirà mai, e il suo regno non sarà mai distrutto”. La seconda è la profezia delle settanta settimane di anni che molti, Newton compreso, hanno cercato di comprendere; si tratta di pochi versi che riassumono tutta la storia umana dal tempo di Daniele fino alla fine del mondo che conosciamo e vanno letti a volte in termini matematici, in altre per simboli o per quadri.

Le “settanta settimane” vanno divise in varie sezioni, la prima delle quali è introduttiva: “Settanta settimane sono fissate per il tuo popolo e per la tua santa città per mettere fine all’empietà, mettere i sigilli ai peccati, espiare l’iniquità, stabilire una giustizia eterna, suggellare visione e profezia e ungere il Santo dei Santi” (9.24). Qui abbiamo l’annuncio del tempo che Dio ha stabilito sull’umanità prima che la totalità del Suo piano si compia. Si tratta di un tempo suddiviso in quattro periodi storici precisi: il primo, della durata di sette settimane, è descritto così dall’angelo Gabriele: “Sappi e intendi bene: da quando uscì la parola sul ritorno e la ricostruzione di Gerusalemme fino a un principe consacrato, vi saranno sette settimane” (v.25). Si tratta di un preciso riferimento all’editto di Artaserse II che, nel 445 a.C., autorizzò la ricostruzione della città santa e la ricostruzione delle sue mura. Il “principe consacrato” è poi identificabile in Esdra, sacerdote e scriba considerato dagli israeliti come il personaggio più importante dopo Mosè perché Esdra tornò a Gerusalemme con altri capi del popolo e costituì il nuovo stato ebraico.

Il secondo periodo storico è rappresentato da 62 settimane così descritte: “Durante sessantadue settimane saranno restaurati, riedificati piazze e fossati, e ciò in tempi angosciosi”; questo si riferisce a tutti gli avvenimenti che caratterizzarono lo sviluppo spirituale della città, non tanto quello materiale per il quale 434 anni (62×7) appaiono decisamente troppi.

Le 62 settimane, quindi 69 calcolando le 7 precedenti, terminano con la crocifissione di Gesù quando leggiamo “Dopo sessantadue settimane, un consacrato sarà soppresso senza colpa in lui; il popolo di un principe che verrà distruggerà la città e il santuario; la sua fine sarà un’inondazione e, fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” (v.26). In questo verso viene citata anche la distruzione di Gerusalemme dalle truppe romane di Tito avvenuta nel 70 d.C.. Ora occorre fare una sottolineatura fondamentale, e cioè: mentre il testo ha una precisione pressoché chirurgica nel dividere le prime sette settimane dalle altre 62, così non avviene tra la 69ma e la 70ma. In questo “cuscinetto”, in questo spazio, si inserisce la dispensazione della grazia che è, come mi diceva un amico, “quel periodo in cui il peccatore ha il diritto, convinto dallo Spirito Santo di peccato, giustizia e giudizio, di essere salvato indipendentemente dal suo stato sociale, etnico o geografico”.

Notiamo la fine di Gerusalemme che avverrà, come altri traducono, “con un’inondazione” o “come per inondazione” a sottolineare la violenza e la moltitudine che si scatenerà su di essa. Leggendo il verso, poi, vediamo che c’è un’altra “fine” vista nell’espressione “fino alla fine, guerra e desolazioni decretate” che a mio parere sono il riassunto, in prospettiva, di tutte le sofferenze e vicissitudini che il popolo ebraico subirà nella storia.

L’ultima settimana, la 70ma, non è citata chiaramente, ma la si distingue con facilità perché caratterizzata da due periodi di uguale durata: “Egli stringerà una forte alleanza con molti per una settimana e, nello spazio di metà settimana, farà cessare il sacrificio e l’offerta; sull’ala del tempio porrà l’abominio della desolazione e ciò sarà fino alla fine, fino al termine segnato sul devastatore” (v.27). Trovo qui un accenno a quell’epoca di falsa pace mondiale proclamata dal “Figlio della perdizione” (tre anni e mezzo, la metà settimana) e all’altra, a lui seguente e opposto, di pari durata in cui avverranno i gravi giudizi che Dio manifesterà su tutta la terra che troviamo descritti nei capitoli da 6 a 18 dell’Apocalisse.

Mi rendo conto di aver aperto una finestra verso una trattazione dagli sviluppi enormi che qui non è possibile affrontare; parlare della profezia di Daniele ha qui senso perché questo profeta, citato molte volte anche nella letteratura ugaritica, quindi della Mesopotamia e per estensione d’Oriente, non parlava solo con il re, ma anche con gli alti membri della corte essendo lui stesso uno di loro. Con queste persone il profeta aveva un rapporto quotidiano e certo disse ben di più di quello che troviamo scritto nel suo libro. Ad esempio, non sappiamo quali furono le domande che il re rivolse a quei giovani per trovarli dieci volte più sapienti degli uomini validi di cui si era circondato.

Daniele era l’uomo della rivelazione, una persona in cui la sapienza divina non era disgiunta da quella umana e, a contatto con la cultura della corte, la estese e la ampliò, certamente estendendo la profezia di Balaam sul salvatore quando disse “Io lo vedo, ma non ora; io lo contemplo, ma non da vicino: una stella spunta da Giacobbe, uno scettro sorge da Israele” (Numeri 24.17). Teniamo presente che Daniele non svolse il suo ministero per poco tempo, ma rimase anche nelle corti di Baldassar, figlio di Nabucodonosor, e in quella di Dario il Medo, per cui i suoi insegnamenti orali furono certamente molti e vennero tramandati proprio dai sacerdoti e dai sapienti locali, i Magi appunto, che a loro si dedicarono cercando di trattenerli e comprenderli per quanto potessero. Sapevano che dovevano attendere la stella che sarebbe “spuntata da Giacobbe”.

I Magi che arrivarono a Gerusalemme avevano nel loro bagaglio culturale la nozione, presente nella cultura dell’epoca, di un radicale cambiamento politico e sociale derivato dalla nascita di un re che, secondo le profezie in loro possesso, doveva appartenere al popolo di Israele. Ecco quella che potremmo definire “L’eredità di Daniele”! Per questo osservavano il cielo ogni notte, sfruttando le loro conoscenze plurisecolari: erano persiani, forti delle tradizioni astronomiche babilonesi che per prime divisero in dodici – notare il numero – settori uguali le costellazioni attraversate dal sole e dal pianeti (lo zodiaco). Già nel I millennio a.C. i babilonesi avevano rappresentato graficamente la precessione degli equinozi, cioè lo spostamento dell’asse attorno al quale la terra compie la sua rotazione giornaliera.

Chi era profondamente interessato a questi fenomeni, non poteva essere un astrologo. Chi osservava le stelle come loro, sapeva vedere e soprattutto cercare in quel cielo notturno così diverso dal nostro, oggi inquinato tanto da sostanze quanto dalla luce artificiale. Sappiamo che i Magi videro “la sua stella” e qui si scatenarono molte ipotesi prima tra le quali una cometa, la cui idea comparve per la prima volta con Giotto, che vide quella di Halley nel 1301 e la dipinse nella cappella degli Scrovegni a Padova proprio nell’episodio dell’adorazione dei magi. Johannes Keplero nel 1604, per spiegare la stella, propose l’idea dell’esplosione di una nova e di una supernova perché ne vide una in quell’anno, ma per capire correttamente la “stella” vista dai Magi occorre considerare il fenomeno luminoso che si manifestò a seguito alla triplice congiunzione Giove – Saturno nella costellazione dei pesci che avvenne attorno al 7 a.C.: troppo presto? Troppo tardi? La data non deve turbare più di tanto perché Dionigi il Piccolo, cercando di stabilire l’anno 1 coincidente con la nascita di Cristo, fece un errore di calcolo sbagliando di qualche anno e non possiamo sapere quando Nostro Signore effettivamente nacque.

Una triplice congiunzione si ha quando un incrocio di pianeti si verifica per tre volte: nel cielo uno supera l’altro, poi torna indietro per il moto apparente della terra per poi superarlo nuovamente. Due astronomi dell’Università di Genova, Giuseppe Veneziano e Mario Codebò, hanno ricostruito al calcolatore il cielo che dovettero osservare i Magi a partire dal 4 giugno del 7 a.C.: appare chiaramente il moto retrogrado dei pianeti da Est verso Ovest e altrettanto chiaro è il fatto che, se quei sapienti si fossero mossi per seguirlo, sarebbero giunti in Palestina. Una cometa non avrebbe mai potuto “fermarsi”, mentre la congiunzione sì, nel caso in cui avesse terminato il suo moto retrogrado per riprendere quello diretto.

I Magi fecero un tragitto impegnativo e faticoso di circa 800 km dalla Persia a Gerusalemme, percorrendo la via della seta presumibilmente ad un ritmo di 30-35 km al giorno, portando doni che dimostrarono la comprensione del fatto che quel “potere, gloria e regno” che avrebbe avuto il “Re dei Giudei che è nato” era di natura spirituale e non politica.

C’è poi un secondo personaggio che già abbiamo incontrato, Erode il Grande. La carovana dei Magi era giunta a Gerusalemme e all’inizio non dovette avere fatto molto scalpore perché in città era frequente assistere all’arrivo di carovane e pellegrini in occasione delle feste comandate; c’era però quella domanda su dove fosse il re del giudei che era nato e soprattutto lo scopo dichiarato di quella ricerca: “abbiamo visto la sua stella e siamo venuti ad adorarlo”. Nessuno condivise il loro entusiasmo. Al contrario abbiamo letto che quel loro informarsi con insistenza generò turbamento tanto in Erode quanto negli abitanti della città, che più che far caso al ricercare dei Magi iniziarono a temere le conseguenze delle loro domande, gli effetti che quelle avrebbero avuto sul tiranno che, sentendosi minacciato nel suo potere, chissà quali rappresaglie o crudeli iniziative avrebbe potuto mettere in atto. Il verso successivo di Matteo infatti ci dice che Erode, saputo il motivo dell’arrivo dei Magi in città, riuniti “tutti – nessuno escluso – i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo”. Poi, facendo in modo di non allarmarli, li convocò in segreto per approfondire ulteriormente con lo scopo di perfezionare il proprio piano per uccidere Gesù. Erode non s’interessò di quella nascita. Non lui, non gli abitanti di Gerusalemme. Ma degli estranei, rappresentanti di un sapere antico e lontano, figura dei popoli che Dio riunirà, sì.

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01.15 – ANNA (Luca 2.36-38)

01.15 – Anna (Luca 2.36-38)

 

36C’era anche una profetessa, Anna, figliola di Fanuele, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, 37era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal Tempio, servendo dio notte e giorno con digiuni e preghiere. 38Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”.

 

Se Simeone si distaccava profondamente dagli altri uomini suoi contemporanei, Anna è il suo corrispettivo femminile, è fondamentalmente una persona che ha fatto una scelta, un personaggio i cui dati biografici sono più dettagliati dei suoi discorsi perché è importante accreditarla di fronte ai lettori del Vangelo e al tempo stessa dare un peso rilevante al significato delle sue parole ai suoi contemporanei. Cosa disse Simeone? Benedì Maria e Giuseppe, fece una profezia su cosa avrebbe rappresentato il loro figlio, ma fu comunque un avvenimento privato, mentre questa profetessa, conosciuta a Gerusalemme, che stava stabilmente nel tempio negli spazi che poteva occupare come donna, il cortile dei gentili e quello riservato alle donne, parlò di Gesù pubblicamente “a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme”.

L’importanza di Anna, il cui nome significa “colei che beneficia della grazia di Dio”, è data anche dal fatto che è si colloca all’ottavo posto con nome proprio dopo le sette che contano i rabbini nell’Antico Patto. Di lei conosciamo il nome di suo padre, Fanuele (“volto di Dio”) e che apparteneva alla tribù di Aser, figlio di Giacobbe avuto da Zilpa schiava di Lea, che prima aveva partorito Gad. Ottavo figlio di Giacobbe, ricevette da lui una benedizione particolare: “Da Aser verrà il pane saporito, egli fornirà delizie da re” (Genesi 49.20). Entrato in Egitto assieme ai suoi fratelli grazie a Giuseppe, fu il capostipite della tribù omonima e Mosè lo benedisse con queste parole “Benedetto tra i figli è Aser, sia favorito tra i suoi fratelli e intinga il suo piede nell’olio. Di ferro e di rame siano i tuoi catenacci e quanto i tuoi giorni duri il tuo vigore” (Deuteronomio 33.24,25).

La tribù di Aser occupò una regione molto fertile dal Mediterraneo alle falde del Libano e si stabilì in mezzo ai cananei senza combatterli come avevano fatto altre tribù, quindi non respinse le tradizioni e i costumi delle popolazioni pagane, né partecipò a guerre anche se rispose all’appello di Gedeone contro i madianiti che avevano corrotto i costumi del popolo di Israele. Quando però si trattò di andare a Gerusalemme per celebrare la Pasqua secondo l’editto di Ezechia è detto che “Solo alcuni di Aser, Manasse e Zabulon si umiliarono e vennero in Gerusalemme” (v. 11).

Aser quindi sta a indicare un comportamento privo di una linea particolarmente coerente, che a volte fa compromessi con un mondo estraneo ai princìpi di Dio indebolendosi, che a volte ritorna per poi ancora spegnersi. Però, come sappiamo, gli “alcuni”, i “superstiti”, i pochi “giusti”, ci sono sempre e sono di benedizione per gli altri. Probabilmente è proprio per questo che Luca specifica a quale tribù appartenesse Anna, a ricordare che Dio aveva stabilito un patto anche con Aser e i suoi discendenti e che avrebbe conservato un rimanente fedele, come ha fatto a partire da Enos di cui in Genesi 4.26 è detto “E a Set – figlio di Adamo in sostituzione di Abele – ancora nacque un figlio ed egli gli pose il nome di Enos. Allora si cominciò a nominare una parte degli uomini nel Nome del Signore”. Da allora in poi il “rimanente fedele” non è mai venuto meno e così sarà fino ai tempi futuri descritti in Apocalisse 12.17 in cui si parla del drago, Satana, che se ne va a “far guerra contro il resto della sua discendenza – della donna –, contro quelli che custodiscono i comandamenti di Dio e sono in possesso della testimonianza di Gesù”.

Anna ha una storia tutta particolare: si era sposata, come tutte le donne di allora ad un’età che poteva essere compresa tra i 13 e i 15 anni, ma era rimasta vedova dopo sette, quindi si era trovata sola tra i 20 e i 22, in giovane età, in una condizione che potremmo definire umanamente molto triste perché si era trovata priva del sostegno necessario proveniente dal marito. E qui abbiamo la prima scelta di questa donna: avrebbe potuto sposarsi nuovamente, liberandosi per lo meno dalle preoccupazioni economiche, ma non lo fece, preferendo fondare la sua esistenza sulle promesse che Dio aveva riservato alle donne nelle sue condizioni. Umanamente, razionalmente parlando, si trattava di lasciare una prospettiva di sicurezza che un secondo matrimonio poteva dare, per l’incerto. “Circoncidete dunque il vostro cuore ostinato – cosa ben più difficile della circoncisione ordinaria – e non indurite più la vostra cervice; perché il signore, vostro Dio, è il Dio degli dèi, il Signore dei signori, il Dio grande, forte e terribile, che non usa parzialità e non accetta i regali, rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito” (Deuteronomio 10.16-18). Salmo 146.9,10 recita “il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge i forestieri, egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi”, senza contare la condanna per coloro che opprimevano questa categoria di persone.

Anna fece di più che affidarsi a una promessa di Dio, ma pose in atto, con fede inconcepibile per la mentalità per lo meno del mondo in cui viviamo oggi, un metodo di vita in cui perseverava da 84 anni, quindi ne aveva più di cento: stava là, nel tempio, senza lasciarlo mai, profondamente conscia del fatto che era lì, o meglio nel luogo santissimo, che Dio aveva la sua dimora per gli uomini. E lei era un essere umano. Dio abitava lì, era lì per lei.

Il Tempio aveva un spazio per i gentili, cioè i pagani, figura della loro futura ammissione al popolo di Dio, poi uno spazio per le donne, quindi per gli uomini, poi per i Sacerdoti, e infine per Lui stesso, in un perimetro in cui nessuno poteva entrare salvo il Sommo Sacerdote una volta all’anno.

Lei, definita “molto attempata” perché aveva superato i 100 anni, era praticamente risiedente

nello spazio dedicato alle donne e sicuramente col tempo si era guadagnata la stima e l’ammirazione di quanti lo frequentavano: da lì abbiamo letto che non si allontanava mai, avverbio che ci parla di una continuità assoluta, di pensieri ininterrotti e a lei, e a quelle come lei, pensava l’apostolo Paolo che, rivolto al suo discepolo Timoteo nella sua prima lettera, gli scrive “Colei che è veramente vedova ed è rimasta sola, ha messo la speranza in Dio e si consacra all’orazione e alla preghiera giorno e notte; al contrario, quella che si abbandona ai piaceri, anche se vive, è già morta. Raccomanda queste cose, perché siano irreprensibili. Se poi qualcuno non si prende cura dei suoi cari, soprattutto di quelli della sua famiglia, costui ha rinnegato la fede ed è peggiore di un infedele. Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant’anni, sia moglie di un solo uomo, 1sia conosciuta per le sue opere buone: abbia cioè allevato figli, praticato l’ospitalità, lavato i piedi ai santi, sia venuta in soccorso agli afflitti, abbia esercitato ogni opera di bene. Le vedove più giovani non accettarle, perché, quando vogliono sposarsi di nuovo, abbandonano Cristo e si attirano così un giudizio di condanna, perché infedeli al loro primo impegno. Inoltre, non avendo nulla da fare, si abituano a girare qua e là per le case e sono non soltanto oziose, ma pettegole e curiose, parlando di ciò che non conviene. Desidero quindi che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la loro casa, per non dare ai vostri avversari alcun motivo di biasimo. Alcune infatti si sono già perse dietro a Satana. Se qualche donna credente ha con sé delle vedove, provveda lei a loro, e il peso non ricada sulla Chiesa, perché questa possa venire incontro a quelle che sono veramente vedove” (5.5-16).

Anna aveva scelto un compito difficile: “servire Dio notte e giorno in digiuno e preghiere”, identificandosi in quelli che stavano “nella casa del Signore durante la notte” (Salmo 134.1) pregando e digiunando, termine che indica una profonda rinuncia poiché è esteso non solo al cibo, ma da quanto può distrarre l’essere umano dal suo rapporto con Dio. Si può praticare il digiuno in senso stretto rinunciando all’alimentazione, ma a nulla serve se non è preceduto dalla rinuncia, dall’astensione progressiva di quanto impedisce una comunione con Dio. Si può dire che ogni volta che scegliamo di dedicare del tempo a Dio per la nostra crescita spirituale, digiuniamo. Infatti c’è una via dei giusti e una via dei peccatori, una via di Dio perfetta che Davide chiedeva di conoscere (“Mostrami Signore la tua via, guidami sul retto cammino”, Salmo 27.11) e che Gesù esortò a percorrere quanti lo ascoltavano con un invito preciso: “Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa è la via che conduce alla perdizione, e molti sono coloro che vi entrano” (Matteo 7.11).

Tornando al testo, Anna arrivò probabilmente mentre Simeone parlava a Maria e Giuseppe: il verbo usato, epistràsa cioè “stando vicina”, “avvicinandosi” è indice quasi di contemporaneità, iniziò a lodare Dio parlando di quel bambino non a chiunque, ma a quel rimanente di Gerusalemme

che, animati dagli stessi intenti suoi e di Simeone, aspettavano la redenzione. Questi due personaggi non erano quindi soli, ma piuttosto erano i rappresentanti, coloro che meglio di altri attendevano e si dedicavano alla preghiera e alla pratica di vita scritturale. L’importanza di questo principio risiede qui: Dio tramite Anna non rivolse il Suo annuncio a delle persone – se può passare il termine – “perfette” come lei o Simeone, ma a uomini e donne di fede, che avevano fatto proprie le profezie dell’Antico Testamento, che sapevano e aspettavano. Uomini e donne che sapevano, non speravano soltanto. E alcuni hanno interpretato il verso conclusivo, “parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di – o più propriamente “in” – Gerusalemme” come un andarli a cercare nelle loro case. Di certo Anna era in relazione con loro, così come ancora oggi capita che i credenti si riconoscano l’un l’altro senza essersi mai visti. Possiamo ricordare le parole di Malachia 3.16-18: “Allora parlarono tra loro i timorati di Dio. Il Signore porse l’orecchio e li ascoltò: un libro di memorie fu scritto davanti a lui per coloro che lo temono e che onorano il suo nome. Essi diverranno – dice il Signore degli eserciti –un tesoro riposto nel giorno che io preparo. Avrò cura di loro come il padre ha cura del figlio che lo serve. Voi allora di nuovo vedrete la differenza fra il giusto e il malvagio, fra chi serve Dio e chi non lo serve”.

            Dopo questo suo parlare, Anna non è più nominata, come Simeone. Entrambi, come altri personaggi, sono un ponte tra l’Antico che stava per concludersi e il Nuovo che stava per arrivare. E resto sempre affascinato quando l’orologio di Dio, così incommensurabilmente distante, si china per scandire all’unisono con quello degli uomini, sue creature che ha voluto salvare, risparmiare dal loro altrimenti inevitabile destino di morte.

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01.14 – SIMEONE (Luca 2.25-35)

01.14 – Simeone (Luca 2.25-35)

 

25Ora a Gerusalemme c’era un uomo di nome Simeone, uomo giusto e pio, che aspettava la consolazione d’Israele, e lo Spirito Santo era su di lui. 26Lo Spirito Santo gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo del Signore. 27Mosso dallo Spirito, si recò al tempio e, mentre i genitori vi portavano il bambino Gesù per fare ciò che la Legge prescriveva a suo riguardo, 28anch’egli lo accolse tra le braccia e benedisse Dio, dicendo:29«Ora puoi lasciare, o Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua parola, 30perché i miei occhi hanno visto la tua salvezza, 31preparata da te davanti a tutti i popoli: 32luce per rivelarti alle genti e gloria del tuo popolo, Israele». 33Il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui. 34Simeone li benedisse e a Maria, sua madre, disse: «Ecco, egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione 35– e anche a te una spada trafiggerà l’anima -, affinché siano svelati i pensieri di molti cuori»”.

 

Luca ci presenta qui un personaggio singolare nel vero senso del termine: a Gerusalemme, città che all’epoca si calcola avesse circa 100mila abitanti, viveva “un uomo” la cui posizione ha suscitato in me diversi interrogativi, primo dei quali se Luca, scrivendo appunto “un uomo” intendesse dare un riferimento numerico nel senso che il rapporto uomo giusto – abitanti di Gerusalemme fosse di 1:100.000 oppure no. Per rispondere occorre tener presente diversi aspetti che caratterizzano il personaggio. L’unicità di Simeone, il cui nome significa “Dio ha ascoltato”, è data da tre caratteristiche, tutte in stretta relazione tra loro: era “giusto”, aggettivo già utilizzato finora da Luca per indicare Zaccaria, Elisabetta e Giuseppe. La loro “giustizia” è da intendersi come caratteristica interiore, quella che viene dalla fede che governa tutto l’agire dell’essere umano che, nel loro caso visto il tempo in cui vivevano, si manifestava attraverso l’attenzione alla legge morale originata dal timor di Dio. Sbaglieremmo se volessimo vedere in questi personaggi delle “brave persone” che credevano nelle promesse ricevute tramite la Legge e i Profeti e cercavano di osservare i comandamenti: la loro era una disposizione di cuore, un attaccamento, l’aver realizzato che in nessun altro potevano trovare la loro consolazione spirituale, la loro dignità di esseri umani. Questo atteggiamento era il risultato di una lunga assimilazione, di una pratica che aveva finito per permeare tutta la loto vita, quella che fa dire al salmista “Cerca la gioia nel Signore – l’unico che può dare quella stabile –: esaudirà i desideri del tuo cuore. Affida al Signore la tua via, confida in lui ed Egli agirà: farà brillare come luce la tua giustizia, il tuo diritto come il mezzogiorno. Sta’ in silenzio davanti al Signore – perché è lui e non tu che deve parlare – e spera in lui; non irritarti per l’uomo che ha successo, per l’uomo che trama insidie. Desisti dall’ira e deponi lo sdegno, non irritarti, non ne verrebbe che male. Perché i malvagi saranno eliminati, ma chi spera nel Signore avrà in eredità la terra”.

La giustizia di Simeone, pari a quella di Abramo perché poggiata sulla fede, si basava sulla certezza dell’ereditare la terra, quella nuova che sarà creata in sostituzione dell’attuale corrotta, che sarà popolata dai giusti, cioè da coloro che Lo cercarono, trovandolo. Simeone era un uomo paziente e soprattutto attento ai segni del suo tempo a tal punto che lo Spirito Santo gli aveva rivelato che non sarebbe morto senza aver visto il Cristo. Fu un premio analogo a quello che fu concesso ad Abrahamo, citato da Gesù con queste parole: “Abrahamo, vostro Padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e fu pieno di gioia” (Giovanni 8.56).

La seconda caratteristica di Simeone è “timorato di Dio”, termine che non ha a che fare con la paura, ma piuttosto con il rispetto e il sapere che ogni azione contraria alle Sue aspettative produce una conseguenza. L’assenza del timore di Dio rende l’uomo presuntuosamente autonomo e tutto ciò porta con sé, come sappiamo dalla disubbidienza di Adamo e sua moglie, conseguenze terribili viste nella morte con tutte le sue applicazioni. Al contrario l’esperienza degli uomini “giusti” che ci hanno preceduto li ha spinti a lasciare parole importanti per il nostro orientamento: “Principio della sapienza è il timore del Signore e conoscere il Santo è intelligenza. Per mezzo mio – è la sapienza che parla – si moltiplicheranno i tuoi giorni, ti saranno aumentati gli anni di vita. Se sei sapiente, lo sei a tuo vantaggio; se sei spavaldo, tu solo ne porterai la pena” (Proverbi 9.10-12). Ancora: “Nel timore del Signore sta la fiducia del forte; anche per i suoi figli egli sarà un rifugio. Il timore del Signore è fonte di vita per sfuggire ai lacci della morte” (Ibid. 14.26-27).

Questi versi, appartenenti all’Antico Patto ma validi ancora oggi fatte le dovute estensioni dateci dalla Grazia, credo che illustrino molto bene l’atteggiamento e la ricerca di Simeone: la sua condotta si basava su una profonda acquisizione del suo essere in rapporto con quel Dio che aveva promesso “la consolazione di Israele”, uno degli attributi coi quali veniva indicato il Messia e che i rabbini sostengono sia stato l’argomento di cui parlarono Elia ed Eliseo poco prima che il profeta venisse rapito: in 2 Re 2.11 leggiamo “Mentre continuavano a camminare conversando, ecco un carro di fuoco e cavalli di fuoco si interposero fra loro due. Elia salì nel turbine verso il cielo”.

La “consolazione di Israele” la possiamo vedere in diversi passi della Scrittura, ad esempio Isaia: “Giubilate, o cieli, rallegrati, o terra, gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri. Sion ha detto «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato»: si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere?” (Isaia 49.13-15). Ancora, “Come una madre consola il figlio, così io vi consolerò. A Gerusalemme sarete consolati” (66.13).

Simeone, a differenza di molti, non aspettava un liberatore terreno e temporale dal dominio di Roma pagana, ma “la consolazione di Israele”, temine unico, preciso, riferito non a un uomo buono e compassionevole, ma a quell’unica persona deputata da Dio ad essere l’Emanuele, il liberatore dal peccato. Al Re potente e glorioso che il popolo attendeva, Simeone preferiva quello di un consolatore individuale e collettivo al tempo stesso.

Leggiamo una quarta caratteristica di quest’uomo, conseguente alle altre: “Lo Spirito Santo era sopra di lui”. Non era cosa da poco, considerati i tempi di allora in cui regnava una notevole confusione religiosa, con l’esercizio dell’apparenza a scapito di quello della pietà, come troviamo riferito nella cosiddetta parabola del buon samaritano (Luca 10.25-37) e in quella del Fariseo e del pubblicano (Luca 18.9-14). Conseguenza dell’allontanamento del popolo dalla giustizia e dal timor di Dio era la presenza, oltre che dei romani dominatori, di molte malattie e indemoniati che verranno guariti da Nostro Signore.

Ebbene quello Spirito di Dio aveva rivelato a Simeone – non è detto in che modo – che non sarebbe morto senza aver visto il Cristo, l’Unto del Signore: si trattò di un premio di fronte alla sua costanza fatta di riflessioni, preghiere ed opere. E probabilmente quest’uomo era un Rabbi. Uno su centomila aspettava in modo corretto, non religioso, ma vivo, spontaneo. A uno su centomila fu rivelato qualcosa di assolutamente particolare, come se fosse un profeta muto perché gli eventi avrebbero parlato per lui. Simeone faceva parte di quei superstiti di cui parla Isaia nel suo capitolo primo descrivendo (anche) la posizione spirituale dell’Israele del tempo: “«Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende». Guai, gente peccatrice, popolo carico d’iniquità! Razza di scellerati – vedi Giovanni battista, che disse “razza di vipere” –, figli corrotti! Hanno abbandonato il Signore, hanno disprezzato il Santo d’Israele, si sono voltati indietro. Perché volete ancora essere colpiti, accumulando ribellioni? Tutta la testa è malata, tutto il cuore langue. Dalla pianta dei piedi alla testa non c’è nulla di sano, ma ferite e lividure e piaghe aperte, che non sono state ripulite né fasciate né curate con olio. La vostra terra è un deserto, le vostre città arse dal fuoco. La vostra campagna, sotto i vostri occhi, la divorano gli stranieri; è un deserto come la devastazione di Sòdoma. È rimasta sola la figlia di Sion, come una capanna in una vigna, come una tenda in un campo di cetrioli, come una città assediata. Se il Signore degli eserciti non ci avesse lasciato qualche superstite, già saremmo come Sòdoma, assomiglieremmo a Gomorra”.(Isaia 1. 3-9)

Il “superstite”, oltre alla citazione di Sodoma, ci ricorda Abramo quando, parlando con Dio, fece intercessione per i giusti che eventualmente la abitavano, perché non perissero nella sua distruzione (Genesi 18) e che si riassume con la frase “Davvero tu sterminerai il giusto con l’empio?”. A Sodoma come sappiamo abitava Lot che, come scrive Pietro nella sua prima lettera, era “angustiato dal comportamento immorale di quegli scellerati. Quel giusto infatti, per quello che vedeva e udiva mentre abitava in mezzo a loro, si tormentava ogni giorno nella sua anima giusta per tali ignominie”

(1 Pietro 2.8,9).

Ci sono però altre considerazioni. Quando un essere umano si annulla e si fa docile, pronto a ricevere continuamente l’amore di Dio che ricambia, gli consente di agire e diventa un tutt’uno con lui, fatti salvi i confini penalizzanti del corpo e le sue limitazioni: mosso dallo Spirito, Simeone va al Tempio proprio quando Maria e Giuseppe stavano portandovi il bambino. Simeone non va là per fare un giro o senza sapere perché, ma “mosso dallo Spirito” proprio quando Maria e Giuseppe portavano il loro primogenito al Tempio per la sua consacrazione. Si adempì così la profezia di Malachia 3.1 “L’angelo del patto, che voi desiderate, verrà nel suo tempio”. A uno su centomila fu rivelato questo.

Simeone riconobbe il bambino, non sappiamo fra quanti, leggiamo che lo accolse tra le braccia – i rabbini prendevano in braccio i bambini per benedirli – e fece una solenne dichiarazione perché si trovò di fronte il compimento della rivelazione fattagli dallo Spirito Santo: quell’ “ora lascia che il tuo servo vada in pace” non lascia alcun dubbio sul fatto che non desiderasse altro dalla vita terrena che riteneva conclusa nel modo migliore.

È importante il termine greco usato per indicare “Signore”, piuttosto raro nel Nuovo Testamento, che allude a un padrone assoluto, proprietario delle persone o delle cose; lo troviamo in

Atti 4.24 (“Signore, tu che hai creato il cielo, la terra, il mare e tutto ciò che è in essi”) e in 2 Timoteo 2.21

(“Chi si manterrà puro astenendosi da tali cose, sarà un vaso nobile, santificato, utile al padrone, pronto per ogni opera buona”). Simeone allora qui si fa esempio. Per lui il “Signore” non è un essere superiore da chiamare con un titolo onorifico, ma Colui che con la sua autorità e santità dispone di tutto ed è il padrone di ogni cosa, quindi anche della vita dell’uomo. Oggi come ieri sono purtroppo in tanti a qualificare Dio come “Signore”, ma poi dimostrano coi loro atti che in realtà Lui è qualcosa di estraneo per loro, buono tutt’al più per preghiere che non portano a nessun esaudimento.

C’è poi un particolare, una precisazione molto interessante nelle parole di quest’uomo, cioè che la salvezza non sarebbe stata monopolio di un solo popolo, ma sarebbe diventata patrimonio di tutti, anche dei pagani, degli stranieri che avrebbero creduto in Lui. Se quindi Zaccaria aveva pronunciato il suo cantico da sacerdote che pensava alla promessa specifica del Messia e sapeva il ruolo che avrebbe avuto il figlio Giovanni, Simeone va oltre, allarga la prospettiva riferendosi, con il termine “Luce per illuminare le genti” a Isaia 42.6,7: “«Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito come alleanza del popolo e luce delle nazioni, perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre. Io sono il Signore: questo è il mio nome; non cederò la mia gloria ad altri, né il mio onore agli idoli. I primi fatti, ecco, sono avvenuti e i nuovi io preannuncio; prima che spuntino, ve li faccio sentire»”.

Guardando agli avvenimenti passati e futuri in relazione alle parole di Simeone e ad Isaia 60.3 che scrive “Cammineranno le genti alla tua luce”, sono certamente da leggere le parole dell’apostolo Paolo nella Sinagoga di Antiochia: “«Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco: noi ci rivolgiamo ai pagani. 47Così infatti ci ha ordinato il Signore: Io ti ho posto per essere luce delle genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra». 48Nell’udire ciò, i pagani si rallegravano e glorificavano la parola del Signore, e tutti quelli che erano destinati alla vita eterna credettero. 49La parola del Signore si diffondeva per tutta la regione”. (Atti 13.46,49).

Leggiamo poi che Giuseppe e Maria si meravigliarono di quelle parole: non era un sentimento di scetticismo o di incomprensione, ma piuttosto di meraviglia raccordando tutti gli avvenimenti di cui erano stati testimoni. Maria aveva avuto l’annuncio dell’angelo, Giuseppe aveva ricevuto l’invito a non abbandonarla in sogno, poi avevano avuto la visita dei pastori: raccordando tutte queste cose, lo stupore di fronte alla perfetta coincidenza tra l’esperienza spirituale avuta e ciò che sperimentavano “toccando con mano”, è pienamente comprensibile. Ma Simeone ebbe anche delle parole per loro: “li benedisse e parlò a Maria, sua madre: «Egli è qui per la rovina e il sollevamento di molti in Israele, segno di contraddizione, perché siano svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà l’anima”.

Rovina” e “sollevamento di molti”: due destini contrari. Qui c’è una conferma personale e diretta di Isaia 8.14,15: “Egli sarà insidia e pietra di ostacolo e scoglio d’inciampo per le due case di Israele – tutti gli ebrei –, laccio e trabocchetto per gli abitanti di Gerusalemme. Tra di loro molti inciamperanno, cadranno e si sfracelleranno, saranno presi e catturati”.

“Rovina” e “sollevamento” intesa in senso spirituale che sarà la divisione tra quanti crederanno in Lui oppure Lo rifiuteranno. Infatti Gesù disse: “Se non fossi venuto e non avessi parlato loro, non avrebbero alcun peccato, ma ora non hanno scusa per il loro peccato. Chi odia me, odia il Padre mio. Se non avessi fatto in mezzo a loro opere che nessuno ha mai fatto, non avrebbero alcun peccato; ora invece hanno visto e hanno odiato me e il Padre mio, questo perché si adempisse la parola scritta nella loro legge «Mi hanno odiato senza ragione»” (Giovanni 15.22-25). Il “sollevamento”, poi, è usato da Luca in altri passi per indicare la resurrezione.

Gesù sarà un segno di contraddizione sotto questo aspetto, perché siano svelati i pensieri di molti cuori: la lettura dei Vangeli dimostra questa profezia con le reazioni di tutti coloro che ebbero a che fare con lui in giudizio – e penso all’entusiasmo del giovane ricco, convinto di essere un buon osservante, ma che si allontanò contristato quando gli fu chiesto di abbandonare tutto e di unirsi ai discepoli – o in salvezza. È la reazione all’annuncio o alla proposta della Parola che rivela i pensieri dei cuori, cioè ciò che abita realmente la persona. Qui si aprirebbe un capitolo sterminato.

L’ultima frase, è per Maria. La presenza della spada qui denota dolore e angoscia, l’anima come riferimento a tutto l’essere della persona e credo abbia connessione col dolore che proverà questa donna da lì a 33 anni ai piedi della croce quale punto culminante dopo tutte le sofferenze che infliggeranno i romani, dietro istigazione degli abitanti di Gerusalemme, al figlio. La strada della salvezza è lastricata di dolore, speranza, resistenza, certezza, dell’essere e farsi strumento nelle mani di Dio. Amen.

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