01.09 – BENEDICTUS I/II (Luca 1.67-80)

01.09 – Benedictus I/II (Luca 1.67-80)

 

67Zaccaria, suo padre, fu colmato di Spirito Santo e profetò dicendo:68«Benedetto il Signore, Dio d’Israele, perché ha visitato e redento il suo popolo,69e ha suscitato per noi un Salvatore potente
nella casa di Davide, suo servo, 70come aveva detto per bocca dei suoi santi profeti d’un tempo:
71salvezza dai nostri nemici, e dalle mani di quanti ci odiano. 72Così egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, 73del giuramento fatto ad Abramo, nostro padre, di concederci, 74liberati dalle mani dei nemici, di servirlo senza timore, 75in santità e giustizia al suo cospetto, per tutti i nostri giorni. 76E tu, bambino, sarai chiamato profeta dell’Altissimo perché andrai innanzi al Signore a preparargli le strade, 77per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati. 78Grazie alla tenerezza e misericordia del nostro Dio, ci visiterà un sole che sorge dall’alto, 79per risplendere su quelli che stanno nelle tenebre e nell’ombra di morte, e dirigere i nostri passi sulla via della pace». 80Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito. Visse in regioni deserte fino al giorno della sua manifestazione a Israele”.

Sicuramente colpisce la precisazione di Luca su quest’uomo che, dopo aver ritrovato parola e udito, si espresse solo in termini atti a glorificare Dio: “fu colmato di Spirito Santo e profetizzò”. Zaccaria era un sacerdote, quindi una persona qualificata a quel tempo (anche) come mediatore tra JHWH e l’uomo che commetteva un peccato. Sappiamo che sia lui che sua moglie erano, come detto da Luca, “ambedue giusti davanti a Dio, camminando in tutti i comandamenti e leggi del Signore, senza biasimo”, ma senza l’intervento dello Spirito le sue sarebbero solo rimaste delle parole ammirevoli e sagge, buone tutt’al più come quelle utilizzate dagli “amici” venuti per consolare Giobbe dalle sue disgrazie. Invece la condizione di Zaccaria fu duplice: “ripieno di Spirito Santo” – la condizione – e “profetizzò”, che non significa predire il futuro come molti credono, ma parlare correttamente di Dio sospinti dallo Spirito, il solo che può orientare la persona e farle comprendere le verità e i piani del Signore per sé e per altri.

Per il credente sincero, nonostante gli sbagli che commette nella propria vita per la sua stessa debolezza, lo Spirito Santo è colui che può orientarlo e illuminarlo, come disse Nostro Signore ai suoi discepoli in Giovanni 14.15-17: “Se mi amate, osservate i miei comandamenti. Ed io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore, che rimarrà con voi per sempre, lo Spirito della verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce, ma voi lo conoscerete, perché dimora con voi e sarà in voi”.

Il cantico che segue dopo questa brevissima premessa inizia con un’espressione molto antica,

ma tutto il resto delle sue parole sono, per l’epoca e non solo, assolutamente nuove perché capiamo che, di lì a poco, Dio avrebbe adempiuto le promesse fatte agli antichi e di cui avevano parlato i profeti. La critica neotestamentaria ha visto nelle parole di Zaccaria numerosi riferimenti agli scritti dell’Antico Patto e non vede in esse nulla di eccezionale e questo può essere vero se non si considera il tempo in cui queste furono pronunciate. Il padre di Giovanni Battista è conscio che quello e non altri erano i momenti in cui il Dio di Israele stava visitando e compiendo la redenzione del suo popolo, nelle sue parole non c’è nulla pronunciato per una ritualità o convenzione, ma il visitare è per redimere o, meglio ancora secondo un’altra traduzione, “ha visitato e riscattato il suo popolo”. Il “riscattare”, per la legge di Mosè, era un’azione prevista per riavere una cosa altrimenti perduta, ma soprattutto per liberare una persona tenuta in schiavitù; ad esempio in Deuteronomio 7.8 leggiamo “…perché l’Eterno vi ama e ha voluto mantenere il giuramento fatto ai vostri padri, l’Eterno vi ha fatto uscire con mano potente e vi ha riscattati dalla casa di schiavitù, dalla mano del Faraone, re d’Egitto”.

Ancora, sempre in proposito, si parla in Deuteronomio 13.5 “…vi ha redenti dalla casa di schiavitù per trascinarvi fuori dalla via nella quale l’Eterno, il tuo Dio, ti ha ordinato di camminare”. Ogni uomo di Dio ha sperimentato un Esodo nella propria vita: dai propri parenti, dal proprio mondo, dalla schiavitù di se stesso. Le azioni storiche che Zaccaria ha ben presente, fatte nella prospettiva del piano di Dio che contemplava la progenie della donna schiacciare il capo al serpente, le vede compiute sotto una prospettiva spirituale nonostante Giovanni fosse nato da otto giorni e Gesù non ancora. Zaccaria, che conosceva la storia del suo popolo, vede il visitare di Dio come un atto di pietà e non di giudizio come, ad esempio, avvenne la prima volta che “scese” per vedere la costruzione della torre in Babele: Egli, che non può mai essere neutrale, è ora venuto per redimere, cioè liberare dal peccato e dalle sue conseguenze che potevano essere constatate, allora come oggi, dalla presenza di malattie, indemoniati, dal giogo di un dominatore straniero che solo apparentemente erano i romani, ma che nella realtà spirituale simboleggiava il peccato che impediva una serena relazione con Dio. Ogni uomo, prima di conoscere Cristo, ha e avrà sempre un suo dominatore straniero, spirituale o fisico che sia.

Proseguendo nel cantico, Zaccaria riconosce che la salvezza proveniva dalla “casa di Davide suo servo, come Egli aveva dichiarato per bocca dei suoi santi profeti fin dai tempi antichi, perché fossimo salvati dai nostri nemici e da tutti coloro che ci odiano”. La traduzione letterale delle prime parole del verso non è di facile comprensione perché dice “destò un corno di salvezza per noi nella casa di Davide suo servo” per cui il suscitare una potente salvezza, per quanto rispondente a verità, oscura leggermente la comprensione di un simbolo che si trova molte volte nell’Antico Testamento, soprattutto nel linguaggio profetico. Il corno, per l’animale che lo possiede, è al tempo stesso arma offensiva e difensiva ed è espressione di potenza (da ricordare per la lettura dell’Apocalisse), per cui: “Dio ha destato – dichiarazione di avvenimento anche se i suoi effetti non si manifesteranno ancora – un corno di salvezza”,- quindi una salvezza potente e soprattutto duratura, stabile: non è un “corno” animale, naturale, ma qualcosa che proviene direttamente da Dio e che nessuno potrà mai sconfiggere.

Tornando quindi alla traduzione più comprensibile: questa salvezza, impossibile a togliersi, viene dalla casa di Davide (Maria e Giuseppe), la sola a poter garantire che quel “germoglio”, quella “progenie della donna” che avrebbe schiacciato il capo al serpente, fosse veramente Gesù Cristo. Non a caso, se la genealogia di Matteo si riferisce a Giuseppe e parte da Abrahamo, quella di Luca, riferita a Maria, risale fino ad Adamo: è il ricordo di quella promessa e del giudizio sull’Avversario. È bello vedere che Dio non si limitò a pronunciare quelle parole una volta, ma le aggiornò nel corso del tempo, ripetendole agli uomini da lui preposti a guidare il popolo con l’autorità del condottiero o del re, o a consolarlo o riprenderlo per bocca dei profeti.

Zaccaria poi considera lo scopo di tutto questo: “perché fossimo salvati dai nostri nemici e da tutti coloro che ci odiano”: qui c’è un riferimento alle promesse dell’Antico Patto che sono contemporaneamente presenti e future a prescindere dal tempo in cui vengono pronunciate. Prendiamo l’ultimo profeta, Malachia, che abbiamo citato spesso a motivo dell’ultima parola con cui si chiude l’Antico Testamento: scrisse “Poiché ecco, il giorno viene, ardente come una fornace, e tutti quelli che operano empiamente saranno come stoppia; il giorno che viene li brucerà in modo da non lasciar loro né radice né ramo. Ma per voi che temete il mio nome – solo per questi, quindi – sorgerà il sole della giustizia con la guarigione nelle sue ali e voi uscirete e salterete come vitelli di stalla. Calpesterete gli empi perché saranno cenere sotto la pianta dei vostri piedi nel giorno che io preparo, dice il Signore degli eserciti” (4.1-3).

Zaccaria, riportando le promesse degli antichi, allude alla liberazione totale dal giogo penalizzante del peccato per tutti gli uomini che l’avrebbero accolta, ma non solo: esprimendo un concetto che esporrà l’apostolo Paolo, sostiene la sconfitta del nemico per eccellenza, Satana, e da qualsiasi altra forza oscura: “Infatti io sono persuaso che né morte, né vita, né angeli, né principati, né potenze, né cose presenti, né cose future, né altezze, né profondità, né alcun’altra creatura potrà separarci dall’amore di Dio che è in Cristo Gesù, nostro Signore” (Romani 8.38).

Riflettendo sul paragone tra le due frasi possiamo dire che Zaccaria, uomo del suo tempo, proclama giunto il tempo in cui Dio ha provveduto alla “potente salvezza dalla casa di Davide suo servo” mentre il secondo, che proveniva dallo studio della Legge, fariseo zelante e profondo conoscitore della tradizione rabbinica, ci dà un aggiornamento reale e adatto alla nostra realtà di uomini che vivono in un nuovo tempo, quello della Grazia. Non solo: “A me, il minimo di tutti i santi, è stata data questa grazia di annunciare fra i gentili – quindi a noi – le imperscrutabili ricchezze di Cristo e di manifestare a tutti la partecipazione del mistero che dalle età più antiche è stato nascosto in Dio, il quale ha creato tutte le cose per mezzo di Gesù Cristo” (Efesi 3.8-10).

Un’ultima riflessione su cosa abbia voluto dire Zaccaria, che parla a un uditorio di ebrei e fonda le sue parole sulle rivelazioni profetiche giunte fino a lui, è ancora Paolo a fornirla: “Siccome per mezzo di un uomo – Adamo – è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo – Gesù – è venuta la resurrezione dai morti. Perché, come tutti muoiono in Adamo – perché così come concluse la sua vita noi concluderemo la nostra – così tutti saranno vivificati in Cristo. (…). Poi verrà la fine, quando rimetterà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo avere annientato ogni dominio, ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia messo tutti i nemici sotto i suoi piedi e l’ultimo nemico che sarà distrutto sarà la morte” (1 Corinti 21.26).

Arriviamo così alle parole che concludono la prima parte del cantico, “Per usare misericordia verso i nostri padri e ricordarsi del suo santo patto, il giuramento fatto ad Abrahamo nostro padre, per concederci che, liberati dalle mani dei nostri nemici, lo potessimo servire senza paura, in santità e giustizia, tutti i giorni della nostra vita”: la liberazione dalle mani dei nemici, come visto poco prima, non può essere intesa come storica poiché le vicende antiche da noi conosciute nella Bibbia, vale a dire quelle che hanno visto il popolo di Dio liberato dalla dominazione straniera, hanno sempre avuto un significato, uno stato, una conseguenza, un effetto spirituale: Israele oppresso in Egitto e liberato da Dio al mar Rosso era ed è figura dell’uomo che vive oggi in una condizione di peccato, incapace di provare sentimenti e comprensioni spirituali nel vero senso del termine. Perché noi sappiamo bene che “L’uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio perché sono follia per lui e non le può conoscere, poiché si giudicano spiritualmente” (1 Corinti 2.14). Ecco, chi vive la propria vita di tutti i giorni, perso nei propri interessi, legato al contingente perché ha inserito nel proprio animo dei valori che ritiene prioritari, “non riceve le cose dello Spirito di Dio”; può riceverne altre, tutte quelle che con Lui non hanno nulla a che fare. Non le riceve perché, alla luce dei propri valori e convinzioni scontate ed errate, “sono follia per lui”. La conseguenza è che “non le può conoscere, perché si giudicano spiritualmente”.

Ecco, quando a un uomo, o donna, è stata data l’autorità di diventare figlio di Dio, gli viene conferita un’abilitazione alla possibilità, capacità di rivedere le cose spirituali in base alla grazia che gli viene data. Da lì in poi è chiamato a servire senza paura, in santità e giustizia, tutti i giorni della propria vita oppure, secondo una traduzione dalle versioni più antiche, “tutti i nostri giorni”. Si tratta di un servizio in “santità e giustizia”, non più secondo i desideri dell’uomo vecchio, ma di quello nuovo che vede le cose secondo una prospettiva di realizzazione eterna e non umana.

* * * * *

 

01.08 LA NASCITA DI GIOVANNI BATTISTA (Luca 1-57-66)

01.08 – Nascita di Giovanni Battista (Luca 1.57-66)

 

57Per Elisabetta intanto si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio. 58I vicini e i parenti udirono che il Signore aveva manifestato in lei la sua grande misericordia, e si rallegravano con lei.
59Otto giorni dopo vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. 60Ma sua madre intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». 61Le dissero: «Non c’è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». 62Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. 63Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. 64All’istante gli si aprì la bocca e gli si sciolse la lingua, e parlava benedicendo Dio. 65Tutti i loro vicini furono presi da timore, e per tutta la regione montuosa della Giudea si discorreva di tutte queste cose. 66Tutti coloro che le udivano, le custodivano in cuor loro, dicendo: «Che sarà mai questo bambino?». E davvero la mano del Signore era con lui.”.

La nascita di un bambino è un evento naturale, non certo qualcosa di speciale o eccezionale salvo che per i genitori che lo attendono e i loro parenti. L’episodio appena letto riporta però un’altra tappa importante verso quella che possiamo definire una “nuova creazione spirituale” di Dio in cui Lui stesso pose le fondamenta per l’apertura della nuova dispensazione della Grazia. Personalmente, a partire dall’annuncio a Zaccaria, vedo sempre tante tappe, dei passi in avanti verso questa nuova era e mi piace accostare idealmente l’immagine di Dio Padre intento a costruire con cura estrema ogni passaggio del Suo progetto esattamente come quando, creando Adamo, ideò e formò ogni suo organo, ogni osso, muscolo, tendine. Anche per la creazione stessa abbiamo delle immagini poetiche che integrano il racconto della Genesi, dalle quali traspare una cura assoluta per la realizzazione del mondo in cui l’uomo avrebbe dovuto vivere: “Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri? Dimmelo, se sei tanto intelligente! Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai, o chi ha teso su di essa la corda per misurare? Dove sono fissate le sue basi o chi ha posto la sua pietra angolare, mentre gioivano in coro le stelle del mattino e acclamavano tutti i figli di Dio?” (Giobbe 38.4-7).

Ecco, nel rispetto dei tempi naturali, Elisabetta arriva al nono mese e partorisce il bambino; per la sua nascita non vi furono né segni in cielo o in terra, ma un messaggio chiaro di speranza, dei segni intimi che pochi notarono ma, come abbiamo letto, li conservarono nel cuore. C’è una grandezza tutta particolare nel fatto che “i vicini e i parenti (…) si rallegrarono” con Elisabetta perché da come si svolgeranno i fatti vediamo che, nonostante le manifestazioni di congratulazioni e i modi che quella gente aveva per manifestarle la loro vicinanza, la presenza dei vicini di casa e dei parenti era importante perché avrebbe costituito una testimonianza degli eventi che si sarebbero verificati in quella casa.

Molto spesso nella vita di una persona capita che, per giungere a una convinzione o per avere un’illuminazione, sia necessario mettere insieme e collegare più dati; questo era ciò che il Creatore desiderava avvenisse, perché chi avesse voluto indagare criticamente su Giovanni Battista per avere un quadro chiaro su di lui e su tutti gli altri avvenimenti collegati alla sua persona, avrebbe dovuto considerare la sua storia fin dall’inizio a partire dai molti che avevano assistito, nove mesi prima della sua nascita, all’uscita di suo padre dal luogo santo: a quel tempo “Zaccaria non poteva parlare loro, allora compresero che aveva avuto una visione nel tempio” (Luca 1.22). Teniamo presente che un simile evento è impossibile che non sia stato divulgato per tutta Gerusalemme, stante la sua eccezionalità. Poi abbiamo la stirpe sacerdotale di entrambi, la gravidanza andata a buon fine nonostante la sterilità e l’età avanzata di Elisabetta; tutti eventi che, assieme ad altri che vedremo, porranno le persone in grado di collegarli e riconoscere in Giovanni un profeta diverso dai suoi predecessori non solo per il suo modo di vestire e per le parole di verità che pronunciava, ma per il suo curriculum costituito da tutte queste manifestazioni. Dio non manda mai un profeta senza credenziali.

Usanza dettata dalla tradizione voleva che un bambino venisse chiamato preferibilmente col nome del nonno, o del padre, o comunque di un parente stretto e i “vicini e parenti” che erano andati a trovare Elisabetta dopo il parto, si ripresentarono per la circoncisione del bambino, “segno” esterno dell’appartenenza al popolo eletto di Dio. In Genesi 17.12 leggiamo: “All’età di otto giorni ogni maschio tra voi sarà circonciso, di generazione in generazione tanto quello nato in casa, come quello comprato con denaro da qualunque straniero che non sia della tua discendenza”. La circoncisione quindi era il segno esteriore di appartenenza al popolo ebraico oltre che di igiene, e venne ribadito anche nella dispensazione successiva, quella della Legge: “L’ottavo giorno si circonciderà la carne del prepuzio del bambino” (Levitico 12.3).

Elisabetta però, confermando di aver compreso il piano di Dio per suo figlio e di averlo pienamente accettato, prese a dire tra lo stupore dei presenti “No, anzi, sarà chiamato Giovanni”: quando sta per iniziare un periodo nuovo, anche nella banale storia umana, lo vediamo da tanti particolari, anche dai piccoli. E ogni volta che Dio o la Sua volontà fanno irruzione nella vita dei singoli come dei tanti, succedono sempre degli avvenimenti che stravolgono la norma, l’omeostasi, la tradizione, l’abitudine. Fin dall’età di otto giorni, per bocca di sua madre prima e di suo padre poi, l’esistenza di Giovanni irrompe nel ragionare umano e spezza una consuetudine: nonostante la singolarità delle circostanze che avevano caratterizzato quella nascita, per i presenti era inconcepibile che il bambino non avesse il nome del padre o di un congiunto e infatti, convinti che Zaccaria avrebbe dato loro ragione e disprezzando evidentemente sua moglie, “con cenni domandarono al padre come voleva che egli fosse chiamato. E lui, chiesta una tavoletta, scrisse in questa maniera: «il suo nome è Giovanni»”. La “tavoletta” chiesta da Zaccaria era fatta di legno di pino sottile, ma poteva essere anche di piombo, rame o avorio a seconda di chi la usava, sopra il quale era versato uno strato di cera che poi si incideva con uno stilo di ferro.

È quindi possibile affermare che la prima parola scritta del Nuovo Testamento sia stata Giovanni, cioè “Dio è grazia”, o “Dio è benevolenza”, quando l’ultima scritta dell’Antico è “sterminio”, parola con la quale si conclude il libro di Malachia. Anche con quelle parole Zaccaria e sua moglie, come faranno Maria e Giuseppe, apporranno il loro definitivo, ufficiale benestare alla volontà del Signore che li aveva scelti come genitori del precursore di Gesù. Dio si presenta quindi, nel Nuovo Patto, con queste parole. Possiamo anche ricordare quelle con cui inizia il Vangelo di Giovanni, “Nel principio era il verbo”, presenza rilevabile in quel “facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza” (Genesi 1.26) in cui la Parola era destinata a rivelarsi nella dispensazione della grazia.

Nel momento in cui Zaccaria rivelò il nome del figlio, “la sua bocca fu aperta e la sua lingua sciolta”, e usò parole di benedizione nei confronti di Dio, ben sapendo non solo di essere stato perdonato, ma constatando anche la veridicità delle promesse alle quali non aveva creduto. Ritengo che la gioia di Zaccaria sia stata difficilmente contenibile e avrebbe potuto trovare uno sfogo umano e spirituale solo attraverso il cantico che esamineremo nel capitolo successivo. È importante sottolineare che la gioia di Zaccaria si espresse attraverso parole di profonda verità, dettate dallo Spirito Santo che lo aveva illuminato. Quell’uomo, abituato al servizio sacerdotale, a parlare e a gestire la propria vita senza particolari problemi fino al giudizio dell’angelo, era rimasto sordo e muto per circa nove mesi, pensando a quanto gli era stato detto e a chiedersene il significato; aveva senz’altro meditato sia sulla sua incredulità, sia su chi sarebbe diventato un giorno suo figlio. Quello che dirà, sarà il risultato delle sue considerazioni alla luce di quanto Dio gli aveva fatto comprendere.

Riflettendo su quanto accaduto, possiamo concludere che è solo quando un uomo sperimenta su di sé l’amore di Dio che può essere in grado di parlare di Lui, di esserne testimone: Zaccaria, e con lui chiunque ha provato su di sé gli effetti di una grazia procedente dall’Alto, poteva parlare, dire, raccontare.

Luca conclude l’episodio accennando al timore dei vicini una volta che Zaccaria concluderà il cantico; la traduzione letterale di questi due versi è: “E ci fu timore su tutti i loro vicini di casa e in tutta la regione montuosa della Giudea: tutte queste parole erano oggetto di commenti. E tutti coloro che ascoltarono se le posero nei loro cuori dicendo «Che cosa sarà dunque questo bambino?» E infatti la mano del Signore era con lui”. Qui il testo pone deliberatamente l’accento sull’attesa. Mi piace pensare questi uomini e donne che, senza una rivelazione di Dio, non capiscono quello che sta succedendo, ma s’interrogano “ponendosi nel cuore” le parole udite che “furono oggetto di commenti”: ciascuno diceva la sua, ma nessuno riusciva a trovare una spiegazione soddisfacente.

Il cuore era il posto migliore in cui custodire tanto le parole quanto la notizia dell’accaduto: quando si custodisce qualcosa lì, significa che si vuole ricordare, mettere da parte qualcosa temporaneamente in attesa che giunga il momento della rivelazione, l’occasione per capire. E il racconto di ciò che avvenne in casa di Zaccaria ed Elisabetta fu tramandato perché un giorno, se qualcuno avesse voluto indagare su Giovanni Battista, non avrebbe potuto trovare un solo punto che non lo collegasse a una missione divina.

Quel bambino, una volta divenuto adulto, non sarebbe stato un profeta come gli altri, ma colui che avrebbe dovuto indicare in Gesù “L’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, una definizione che avrebbe avuto bisogno di un personaggio autorevole per essere quanto meno presa in considerazione. Quando un profeta parla, per prima cosa chi lo ascolta si chiede chi sia e da dove venga, e poi con quale autorità si ponga innanzi a lui. Ebbene, di nessun profeta dell’Antico Patto è detto “Venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui” (Giovanni 1.8) e Nostro Signore parlò del Battista definendolo “Più che un profeta” qualificando il suo ruolo con: “Io vi dico in verità che fra i nati di donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni Battista, ma il più piccolo del regno dei cieli è più grande di lui” (Matteo 11.11).

Gesù disse questo per far capire la differenza tra Legge e Grazia in cui chi opera non è più un servo, ma un figlio e alla domanda “Che sarà mai questo bambino?” risponde il profeta Malachia con parole sulle quali torneremo: “Ecco, io mando il mio messaggero a preparare la via davanti a me. E subito il Signore che voi cercate entrerà nel suo tempio. L’angelo del patto in cui prendete piacere, ecco, verrà” (3.1). Ogni cosa sarebbe accaduta nel momento opportuno e, per l’episodio che abbiamo visto brevemente, quel “messaggero” era nato e avrebbe preparato “la via”, cioè preannunciato l’arrivo del Salvatore, allora in gestazione di tre mesi, in Maria.

* * * * *

01.07 – GIUSEPPE (Matteo 1.18-25)

18Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. 19Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. 20Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; 21ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 22Tutto questo è avvenuto perché si compisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 23Ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio: a lui sarà dato il nome di Emmanuele, che significa Dio con noi. 24Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; 25senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù”.

Matteo ci parla di Giuseppe, figura molto particolare dei Vangeli: non parla mai, ma fa tutto quello che gli viene ordinato operando un silenzioso servizio. Quel poco che sappiamo di lui è frutto, quando non chiaramente raccontato, di deduzioni, per quanto fondate. E chi farà da padre putativo a Gesù compare così, all’improvviso, quale promesso sposo di Maria. È importante tenere presente il primo verso di questo Vangelo: “Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo” perché Matteo, nel diciassette versi precedenti, ci ha tracciato una genealogia a partire da Abrahamo che, dopo essere stato vagliato con il sacrificio di Isacco, ricevette la promessa “Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché tu hai ubbidito alla mia voce” (Genesi 22.18). Anche a Davide, secondo personaggio menzionato, furono rivolte parole di conferma: “Stabilirò la tua progenie in eterno ed edificherò il tuo trono per ogni età” (Salmo 89.3,4). Così, la casata reale si era ridotta all’umile persona di un falegname.

Giuseppe è anche questo, un protagonista nella storia della salvezza che qui incontriamo per la prima volta, turbato, fortemente contrariato e amareggiato perché Maria gli aveva da poco dichiarato di essere gravida. Abbiamo letto “Prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo”, parole con le quali Matteo riassume ciò che Luca ha esposto nei dettagli e che ci consentono di dare uno sguardo al fidanzamento di allora, una promessa di matrimonio che veniva contratta quasi sempre tra i genitori degli sposi, soprattutto dal padre di lui, quando entrambi i giovani erano in età di circa 18 anni (per l’uomo) e dai 12 e mezzo in avanti per le donne. La durata del fidanzamento era di circa un anno, tempo durante il quale il futuro sposo doveva preparare la casa in cui sarebbero andati ad abitare, ma i fidanzati erano considerati marito e moglie a tutti gli effetti per cui, per interrompere la relazione, era richiesta la stessa procedura per il divorzio, vale a dire la lettera di ripudio e, nel caso il motivo del divorzio fosse stato l’infedeltà, la donna veniva lapidata secondo la legge di Mosè.

La frase “si trovò gravida”, ci lascia intuire una circostanza sicuramente drammatica per Giuseppe che ben difficilmente avrebbe potuto credere a Maria qualora gli avesse parlato dell’annuncio angelico: una gravidanza, da sempre, non poteva essere che la conseguenza di un rapporto carnale, consenziente o meno.

Di Giuseppe, come accennato, i Vangeli parlano poco, anzi, si può dire che il fatto che fosse un “uomo giusto” è l’unico che abbiamo: l’unico dato ufficiale sul suo carattere ce lo dà proprio quell’aggettivo che allude non tanto all’osservanza minuziosa della legge e dei suoi corollari, ma alla pietà che aveva e alla gestione della sua persona in sintonia con la fede che professava. Ricordiamo sempre che Abramo fu considerato “giusto” da Dio per aver creduto in Lui e nella sua promessa.

Giuseppe, come dimostra il comportamento che voleva tenere nei confronti di Maria, era un uomo compassionevole, non orgoglioso né desideroso di rivalersi su di lei con un gratuito spirito di vendetta: leggiamo che “non voleva accusarla pubblicamente”, cioè non voleva si scatenasse quanto previsto dalla Legge al riguardo cioè “Quando una fanciulla vergine è fidanzata e un uomo la trova in città e si corica con lei, li condurrete ambedue alla porta di quella città e li lapiderete con pietre, ed essi moriranno: la fanciulla perché, pur essendo in città, non ha gridato, e l’uomo perché ha disonorato la moglie del suo prossimo. Così estirperai il male di mezzo a te. Ma se l’uomo trova una fanciulla fidanzata in campagna, e le fa violenza e si corica con lei, allora morirà solamente l’uomo che si è coricato con lei; ma non farai niente alla fanciulla, non c’è alcun peccato che merita la morte, perché questo caso è come quando un uomo si leva contro il suo prossimo e l’uccide; egli infatti l’ha trovata in campagna; la fanciulla fidanzata ha gridato, ma non c’era nessuno che la potesse salvare” (Deuteronomio 22.23-27).

Giuseppe aveva quindi, in mancanza dell’uomo ipotetico che si era congiunto con la sua fidanzata, due possibilità per procedere contro Maria: accusarla pubblicamente davanti ai magistrati che l’avrebbero condannata alla lapidazione, oppure regolare la cosa privatamente consegnandole una lettera di divorzio in presenza di due o tre testimoni, lasciando a lei la possibilità di regolarsi come meglio potesse. Infatti: “Quando uno prende una donna e la sposa, se poi avviene che essa non gli è più gradita perché ha trovato per lei qualcosa di vergognoso, scriva per lei una lettera di ripudio, gliela dia in mano e la mandi via da casa sua” (Deuteronomio 24.1).

Abbiamo letto che un angelo del Signore gli apparve in sogno “mentre considerava tutte queste cose”, segno che Giuseppe era una persona che non agiva d’impulso, ma era pacato e riservato: l’amore per Maria implicava il rispetto per la sua persona nonostante il supposto tradimento ed escludeva il sentimento di una rivalsa, per quanto legale.

Abbiamo poi il terzo intervento angelico in cui viene usato un appellativo specifico, “Figlio di Davide”, a ricordare a Giuseppe non solo la sua discendenza, ma soprattutto l’adempimento della promessa secondo la quale il Messia sarebbe arrivato dalla discendenza di quel re e non da altre. Anche qui troviamo un “non temere”, ma diverso dai precedenti incontrati, tesi a rassicurare che la presenza angelica non avrebbe comportato un giudizio sulla persona: dicendo “Non temere di prendere con te Maria tua sposa”, l’angelo dichiarava a Giuseppe che tanto Maria quanto il figlio che aspettava, a prescindere dalle traversie che avrebbero incontrato, sarebbero sempre stati assistiti da Dio. Ciò che era accaduto in Maria era la conseguenza dell’opera Spirito Santo inteso come forza creatrice, cioè lo stesso “Spirito di Dio” che “aleggiava sulle acque” che troviamo in Genesi 1, tradotto anche con “si muoveva” da un verbo riferentesi all’atto del covare degli uccelli.

Ed ella partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù”, nome che ha lo stesso significato di Giosuè, “Salvatore”, colui che introdusse il popolo nella terra di Canaan, la terra promessa. Il figlio di Maria sarebbe stato chiamato così “Perché è lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”. Se il nome di un essere umano influenza la sua vita e lo caratterizza, quello del “figlio di Maria e Giuseppe” ha la sua ragione di essere non per la personalità, ma per scopo e ruolo: è lui – e nessun altro – che salverà il suo popolo che, come ci dice Giovanni, poi non lo accolse come avrebbe dovuto; “Egli è venuto in casa sua e i suoi non lo hanno ricevuto, ma a tutti coloro che l’hanno ricevuto ha dato l’autorità di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome” (1.11,12). Come disse Pietro davanti al Sinedrio, l’organo ufficiale per l’emanazione delle leggi e dell’amministrazione della giustizia, “In nessun altro vi è la salvezza, poiché non c’è altro nome sotto il cielo che sia dato agli uomini per essere salvati” (Atti 4.12).

Gesù sarà il solo che, adempiendo interamente la legge, permetterà a tutti gli uomini e donne che avranno creduto in lui di essere idonei a presentarsi senza timore alla presenza di Dio: come già letto in Giovanni, Gesù è Colui che ha dato a tutti coloro che l’hanno accolto “l’autorità – o poteredi diventare figli di Dio”, quindi passare dallo stato di creatura, comune a tutti nel mondo, a quello di figli come scriverà poi l’apostolo Paolo nella sua lettera ai Romani, “Se siamo figli, siamo anche eredi, eredi di Dio e coeredi di Cristo, se pure soffriamo con lui per essere anche con lui glorificati” (8.17).

Il salvare dai peccati significa liberare l’uomo dal giogo della legge, aprire un canale di comunicazione con Dio Padre prima impensabile. È una questione di condizione, di prospettive, di comprensione e possiamo ricordare, a proposito della dispensazione della Legge, l’amara riflessione di Salomone nell’Ecclesiaste: “…tutto ciò che succede ai figli degli uomini succede alle bestie, a entrambi succede la stessa cosa: come muore l’uno, così muore l’altra. Sì, hanno tutti uno stesso soffio e l’uomo non ha alcuna superiorità rispetto alla bestia, perché tutto è vanità. Tutti vanno nello stesso luogo: tutti vengono dalla polvere e tutti ritornano alla polvere” (3.19,20).

È lui che salverà il suo popolo dai loro peccati”: l’apostolo Pietro dirà “Dio lo ha esaltato con la sua destra e lo ha fatto principe e salvatore per dare a Israele ravvedimento e perdono dei peccati” (Atti 5.31), senza considerare il discorso illuminante il di Paolo nella Sinagoga di Antiochia in Atti 14.13-23.

A conclusione del racconto dell’annuncio in sogno a Giuseppe, Matteo come sua consuetudine fa un raccordo con le parole dei profeti dell’Antico Testamento, in questo caso Isaia 7.14 che già allora dava le “istruzioni” per individuare l’Eletto in un bambino partorito da una vergine. Matteo nel suo citare Isaia va direttamente al nocciolo, senza trascrivere le prime parole di del verso che gli ebrei conoscevano molto bene: “Ecco, il Signore vi darà un segno”. Un segno certo inequivocabile vista l’impossibilità che una vergine possa dare alla luce un figlio.

Leggiamo che “Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l’angelo del Signore gli aveva ordinato, e ricevette la sua moglie”. La “giustizia” di Giuseppe si rivela anche in questo atto di obbedienza: sarebbe stato padre di un figlio non suo, ma certo non di un altro uomo.

Ma egli non la conobbe fino a quando ella non ebbe partorito il suo figlio primogenito, al quale pose nome Gesù” è il verso che ha generato più confusione in assoluto, ma solo a quanti hanno voluto sostenere il ruolo di Maria come solo madre e non anche moglie. L’originale greco, come la traduzione latina di San Girolamo, riportano “donec”, cioè “fino a quando”. Controversie ci sono anche sul “primogenito”, che alcuni manoscritti non riportano. Quello che è certo è che Giuseppe si astenne dai rapporti coniugali fino al parto di Maria attendendo i giorni prescritti dalla legge (40 secondo Levitico 12.2-4) prima di avere rapporti carnali con lei.

Ponendo il nome Gesù al bambino, sia lui che Maria accettarono ufficialmente il ruolo cui Dio li aveva destinati. Fu quella la loro “firma” al contratto di ubbidienza alla volontà di JHWH.

* * * * *