01.06 – MAGNIFICAT (Luca 1.46-56)

01.06 – Magnificat (Luca 1. 46-56)

 

46Allora Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore 47e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, 48perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. 49Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; 50di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. 51Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; 52ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; 53ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. 54Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, 55come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre». 56Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.
”.

 

            Gli scritti del Nuovo Patto si aprono con un inno, quello che Giovanni utilizza per l’apertura del suo Vangelo, e con il cantico di una donna, Maria. Si tratta di un avvenimento, più che di rottura con la tradizione, di completamento e di conferma del fatto che uomo e donna hanno pari dignità davanti a Dio pur se con ruoli e responsabilità diverse. Luca, che fece “ricerche accurate su ogni circostanza” (1.3) scrive questi episodi dopo averli appresi direttamente dalla madre di Gesù che, all’epoca in cui avvennero, doveva avere tra i 14 e i 17 anni. Il “Magnificat” è un canto di gioia e liberazione scaturito a seguito delle parole di Elisabetta “…e beata colei che credette che vi sarà compimento per le cose dettele dal Signore” che costituirono anche un rimprovero, neppure tanto velato, al marito che si era comportato diversamente. Per dovere di cronaca va detto che alcuni manoscritti attribuiscono il cantico ad Elisabetta, ma i contenuti veterotestamentari di cui esso è pieno indicano, a mio parere, un sentimento di liberazione e una comprensione degli eventi che poteva avere più Maria che la cugina.

Notiamo al verso 46 che si parla di “anima” che magnifica il Signore e di “spirito” che esulta, andando direttamente alla persona come essenza, al di là del corpo. Anima come ciò che è forza vitale, ma terrena, e spirito come ciò che è superiore, la vera identità dell’essere umano, ciò che va oltre ed è difficilmente comprensibile. L’anima che “magnifica il Signore” (verbo “megalùno”) implica un’idea di rafforzamento in Lui e che pertanto Lo glorifica una volta compresa una parte del mistero della sua elezione; lo spirito poi esulta “in Dio”, letteralmente “a motivo di”, escludendo un sentimento momentaneo di gioia stante la qualifica di “Salvatore” che Gli viene attribuito. Isaia in 12.2 scrive “Ecco, Dio è la mia salvezza, io avrò fiducia e non avrò paura perché l’Eterno, sì, l’Eterno è la mia forza e il mio cantico ed è stato la mia salvezza”: personalmente credo che lì i timori di Maria relativi al suo destino come donna, che abbiamo visto rischiava la lapidazione come adultera nel caso in cui Giuseppe l’avesse denunciata, cessarono. “Salvatore” perché la futura madre di Gesù si sentì, come tutti quelli prima e dopo di lei, posta al riparo, appartata per un progetto di eternità, ma anche salvata dalla condizione di essere umano peccatore: se fosse stata santa di per sé, “concepita senza peccato” come si vuole sostenere o avesse avuto dei meriti particolari salvo l’elezione di Dio, non avrebbe usato quest’espressione e Lo avrebbe qualificato in un altro modo; ricordiamo che mai una creatura spirituale pura (pensiamo agli angeli con le loro gerarchie) si è mai rivolta a YHWH chiamandolo “Salvatore”.

Maria poi si qualifica come essere umano senza far caso alla propria stirpe reale, discendendo anch’essa da Davide: sotto l’aspetto genealogico la sua condizione “umile” non lo era, ma in base alla sua umanità certamente sì. La “umile condizione” era quella in cui versano tutti gli uomini, lontani dalla Grazia e quindi dalla salvezza a meno che Lui stesso non guardi a loro avendone pietà. Altri traducono “ha riguardato alla bassezza della sua serva”, espressione che ricorda l’essenza dell’essere umano, appunto peccatore per natura e per questo incompatibile con Dio che, a Suo giudizio insondabile e insindacabile, guarda alla condizione di ciascuno e a ciascuno si propone per salvarlo.

Ecco, qui bisognerebbe sostare un attimo: la Bibbia è piena di episodi in cui Dio si rivela e spiega il Suo piano per ogni essere umano, sia questo singolo o popolo; lo ha sempre fatto a partire da quando ha creato Adamo. A volte parlò personalmente, in altre mandò degli angeli, dei messaggeri, in altre ancora utilizzò altri uomini, dei profeti. Ebbene la stessa cosa sono profondamente convinto la faccia anche oggi, anche se con modi diversi, perché viene un punto nella vita in cui l’essere si pone delle domande circa la propria origine e fine ed è lì che si pone il bivio, la libera scelta tra l’iniziare un percorso di ricerca spirituale oppure no. L’uomo di oggi non può affidarsi ad apparizioni o a rivelazioni particolari di “entità superiori” perché queste sono escluse come provenienti da Dio, come possiamo capire dalla risposta che diede Abrahamo al ricco che lo pregava di inviare Lazzaro ai suoi fratelli ad ammonirli perché non finissero anch’essi fra i tormenti: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro” (Luca 16.29).

Riguardo alla necessità di risolvere la difficile domanda del perché della nostra esistenza e soprattutto dell’oltre la morte ci sono due reazioni possibili: alcuni l’avvertono in modo talmente forte da arrivare a risolverlo, certo non da soli, altri lo soffocano e lo rimandano ancorandosi alle piccole cose che li fanno sentire importanti come il lavoro, i propri interessi, lo studio, un ruolo eventualmente “importante” nella società umana, il denaro che accumulano e che mai utilizzano a favore degli altri. Tuttavia aderire a una religione, per quanto forse appagante, non risolve la loro condizione, ma sapere che Dio può salvare e l’entrare nel Suo progetto, rivelato attraverso i secoli e le dispensazioni, certamente sì. Maria, per esempio, avrebbe potuto rispondere a Gabriele che preferiva continuare la sua vita semplice di sempre seguendo il progetto che certamente come tutti aveva per sé, ma scelse il ruolo di madre (del corpo) di Gesù: amore materno, comune a quello di tante altre donne per il periodo dell’infanzia, riflessione profonda e pressoché continua durante il Suo ministero pubblico, di profonda sofferenza alla croce e infine premio con la vita eterna.

C’è poi la sintesi “Santo è il suo nome e la sua misericordia si estende per generazioni e generazioni per coloro che lo temono”, che parte dall’essenza di Dio (la santità) e circoscrive la Sua misericordia a quanti lo temono, cioè chi ha ben presente l’impegno visto nell’imperativo “Siate santi, perché io sono santo” (Levitico 11.45). Per il cristiano questo significa meditare e mettere in pratica le parole dell’apostolo Pietro: “Come figli ubbidienti, non conformatevi alle concupiscenze del tempo passato, quando eravate nell’ignoranza, ma come colui che vi ha chiamati è santo, voi tutti siate santi in tutta la vostra condotta. Poiché sta scritto «Siate santi, perché io sono santo»” (1 Pietro 1.14-16).

Parlando della misericordia di Dio che “si estende per generazioni e generazioni per coloro che lo temono”, Maria fa riferimento alla protezione e al riguardo che Lui ha avuto nel corso del tempo che ha caratterizzato le 42 generazioni da Abrahamo fino a Cristo (Matteo 1.17).

Egli ha operato potentemente con il suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai loro troni ed ha innalzato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote”: questo è un riconoscimento del lavoro di Dio nella storia da lei conosciuta: la “potenza del braccio” è un termine che si riferisce agli avvenimenti di cui fu testimone Mosè e tutto il popolo di Israele in Egitto, alla distruzione dell’esercito di quel Paese sulle rive del mar Rosso, così come la frase relativa al “rovesciamento dei potenti e all’innalzamento degli umili” può lasciar pensare alle vicende non solo dello stesso Mosè, ma anche degli altri uomini come Davide, Giuseppe figlio di Giacobbe, Daniele e lei stessa.

La dispersione dei superbi “nei pensieri del loro cuore” è interessante sia per il verbo usato che per le estensioni possibili della parola “cuore”. Il verbo greco impiegato per “disperdere” ha riferimento allo sparpagliare il grano come atto di seminare, ma anche al vagliarlo, mentre il cuore non ci parla solo dell’organo considerato la sede dei sentimenti e degli affetti, ma soprattutto di ciò che abbiamo di più caro: “Dove sarà il tuo tesoro, qui sarò anche il tuo cuore” (Matteo 6.21) e “la bocca parla di ciò che sovrabbonda nel cuore” (Luca 6.45). C’è quindi una frantumazione che attende il superbo, cioè colui che è assolutamente convinto della propria superiorità sugli altri che tratta con arroganza e disprezzo. Chi è affetto da questa patologia vede solo se stesso e i suoi interessi, quindi pensa che il mondo e il suo prossimo debbano essere al suo servizio. C’è connessione tra l’essere superbi e l’essere ricchi perché chi è ricco, salvo eccezioni, fa affidamento sulle sue sostanze che usa a proprio piacimento per soddisfarsi e le considera – come effettivamente sono per la nostra società umana – le basi su cui costruire la propria persona: la ricchezza è fondamentalmente un metodo di azioni, di sussistere; senza di essa il ricco non è nulla, tutte le sue aspettative fanno riferimento a lei. In lei e con lei si sente al sicuro e molto difficilmente attribuisce valore ad altro. “Ha rimandato i ricchi a mani vuote” implica la nullità del valore delle loro sostanze sotto la prospettiva dell’eternità: “Guai a voi, ricchi, perché già avete ricevuto la vostra consolazione” (Luca 6.24).

Maria conclude poi il proprio cantico in modo perfetto dichiarando apertamente, sotto la rivelazione dello Spirito Santo, che quello e non altri era il tempo in cui si stava per adempiere la promessa fatta “ad Abrahamo e a tutta la sua progenie per sempre”, ricordandosi delle parole che Gabriele le aveva detto in casa sua: “…e regnerà sulla casa di Giacobbe nei secoli e non ci sarà fine nel suo regno” (v.33).

A questo punto Luca annota “E Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi, poi se ne tornò a casa sua”. Ecco, questo particolare è interessante: Maria rimane con Elisabetta, suppongo, fino a poco tempo prima che sua cugina partorisse se non addirittura fino alla nascita di Giovanni Battista (ma Luca non lo dice), cioè fino a quando la gravidanza di Maria, circa al terzo mese, stava per essere fisicamente visibile. Nulla sappiamo su come abbia trascorso questo tempo. Si può supporre che molti siano stati i dialoghi su quanto avvenuto tra lei e la cugina che era andata a trovare proprio per avere delle risposte o conferme, non senza che Zaccaria intervenisse a gesti o scrivendo su una tavoletta. E purtroppo non abbiamo, come per Beethoven, i “Konversationshefte” con gli amici che usava quando era ormai quasi completamente sordo. Mi riesce difficile pensare che la madre di Gesù si sia allontanata proprio pochi giorni prima che la cugina partorisse, senza attendere con lei quell’evento così importante. Lascio la questione aperta; certo è che tornandosene a casa sua a Nazareth Maria sapeva che avrebbe dovuto annunciare la propria gravidanza a Giuseppe, suo futuro marito. Poteva fare questo solo affidandosi alle promesse di Dio: “Non temere”. Non era un’esortazione umana come molti fanno al loro prossimo, solitamente affidandosi genericamente a un futuro che non conosono nella speranza di sollevare un animo turbato o timoroso di qualcosa: nel nostro caso e in tutti gli altri che troviamo nella Bibbia, il “Non temere” – o il “Non temiate” – proviene direttamente da Dio, presente e Signore della vita dell’uomo. Di raccontare quanto avverrà tra Maria e Giuseppe due sarà l’apostolo ed evangelista Matteo.

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01.05 – LA VISITAZIONE (Luca 1-39-45)

01.05 – La visitazione (Luca 1. 39-45)

 

39In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. 40Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. 41Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo 42ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! 43A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? 44Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. 45E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».”.

 

            Luca, medico siriano e unico autore non ebreo degli scritti del Nuovo Patto, ci dà tratti interessanti sul carattere di Maria avvalendosi di piccoli particolari come quelli citati nel verso 39, “in quei giorni” e “in tutta fretta”. Nelle scorse riflessioni abbiamo visto che questa giovane non si spaventò quando vide l’Angelo, ma fu turbata dal suo saluto inusuale “Rallegrati, o favorita dalla grazia, il Signore è con te” (v. 28) “chiedendosi che senso avesse un saluto come questo” (v. 29). Gabriele la lasciò quando lei disse “Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola”: non fu una frase da poco, perché Maria sapeva benissimo che, dichiarandosi “serva” del Signore e accettando il ruolo che le era stato proposto, avrebbe potuto morire per lapidazione come adultera qualora Giuseppe suo futuro marito l’avesse denunciata al tribunale rabbinico. Luca non dice che Maria che andò dalla cugina Elisabetta il giorno dopo, ma “in quei giorni”, cioè dopo aver pensato e ripensato a quanto le era stato detto; penso all’accenno a quel “trono di Davide” che sarebbe stato dato al figlio, “santo” e “chiamato Figlio di Dio”. Si trattava di definizioni e posizioni che non riusciva a capire e che la preoccupavano a tal punto che quell’ “andò in fretta”, rivelatore del suo stato d’animo, viene anche tradotto “assai pensierosamente”. Viaggiare da sola era cosa disdicevole per una donna nubile o fidanzata ed è molto probabile che Maria si recò da Elisabetta dietro consenso di Giuseppe al quale non parlò dell’annuncio dell’angelo.

Il viaggio di Maria non fu facile e dovette durare dai tre ai quattro giorni ed è giustificabile, a mio parere, solo con la sua volontà di capire concretamente il messaggio ricevuto ed Elisabetta era l’unico riferimento che aveva avuto da Gabriele. Era una caratteristica della futura madre di Gesù il memorizzare quanto le accadeva o non capiva per poi riesaminarlo una volta avuti più elementi: è un esempio anche per noi. Molte volte troviamo scritto che “Maria custodiva tutte queste cose nel suo cuore” e, recandosi da Elisabetta sua parente, sperava di avere dei ragguagli in più: aveva ricevuto anche lei un annuncio angelico? E se sì, cosa le era stato detto? Chi era la creatura che attendeva? In ogni caso era sua cugina l’unica persona con la quale potersi confrontare: cosa avrebbe potuto dirle, ad esempio, un dottore della Legge o un rabbi, o lo stesso Giuseppe? Il messaggio dell’Angelo era stato rivolto a lei e il suo promesso sposo aveva una parte limitata in quel Piano che le era stato annunciato: avrebbe fatto da padre al figlio che portava senza avere parte alcuna al concepimento. Esiste una profonda differenza tra Zaccaria e Giuseppe perché mentre il primo ebbe per figlio naturale un profeta, il secondo accettò il ruolo più di marito di Maria che di padre. Ricordiamo le parole dell’angelo: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati. (…) Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa; senza che egli la conoscesse, ella diede alla luce un figlio ed egli lo chiamò Gesù” (Matteo 1. 20-25). Sono versi sui quali torneremo, ma la traduzione corretta dell’ultimo verso è “…e non la conobbe fino a quando partorì un figlio e chiamò il suo nome Gesù” (letterale) ed alcuni manoscritti arrivano a specificare “il suo figlio primogenito”.

Torniamo al nostro episodio: Maria entra in casa di Elisabetta; non esisteva un servizio postale che potesse essere usato per annunciare questa visita. Leggiamo che “appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il fanciullino le sussultò nel grembo”: non si trattava dei tanti movimenti che ogni madre conosce, fatti dal feto nell’utero che vengono descritti con l’espressione “tira i calci”, ma piuttosto di una manifestazione anomala che stupì Elisabetta a un punto tale che, prima ancora di chiedersi cosa stesse avvenendo, “fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce…”.

Pensiamo: stava avvenendo l’incontro tra le due madri dal ruolo più particolare nella storia della salvezza, quella del precursore del Messia e del Messia stesso; il sussulto che ebbe il futuro Giovanni Battista all’udire il saluto di Maria era già di per se stesso un segno. Teniamo presente le parole di Gabriele a Zaccaria, “sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre” (v.16): ciò non significava che il nascituro avrebbe avuto chissà quali poteri, ma sta ad indicare tutta l’attenzione che Dio avrebbe avuto nel separare ciò che di esclusivamente umano si stava formando da ciò che era invece santo, spirituale, salvifico in vista dell’opera che Giovanni avrebbe dovuto svolgere. È da questo principio che ebbe origine quel “sussulto” che mai prima di allora si era verificato. Certo Zaccaria era muto e sordo, ma questo non gli impediva di comunicare soprattutto a sua moglie che era stata informata, tramite la scrittura su coccio cerato o tavoletta di altro materiale, di tutto quanto riguardava lei e il figlio che portava.

Elisabetta parla con tono inusuale, “a gran voce”, a significare l’entusiasmo e la gioia spirituale che la pervasero e le impedirono di rispondere al saluto di rito “La pace sia con te”. Il parlare “con gran voce” ha connessione con le parole di Salmo 66.1 “Mandate grida di gioia a Dio, voi tutti abitanti della terra” e con Isaia 40.9 “Alza la voce, non temere, di’ alle città di Giuda «Ecco il vostro Dio”. Parlare con una forte intensità è una delle caratteristiche della gioia per cui, al di là dei contenuti espressi, è un particolare che dice molto sullo stato interiore della madre di Giovanni.

Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo” sono parole che nessuna donna avrebbe mai proferito ad un’altra, anche perché lo stato di Maria non poteva essere noto ad alcuno, forse neppure a lei stessa visto l’esiguo tempo trascorso tra l’annuncio angelico e l’inizio del suo viaggio verso Jutta, paese in cui pare abitassero i genitori di Giovanni Battista. Maria sapeva che un giorno si sarebbe ritrovata gravida, ma non quando. La voce greca “eulogheméne” ha un doppio significato, cioè “benedetta dall’alto” e “lodata fra tutte le donne” e inoltre, se facciamo riferimento all’ebraico, è la stessa espressione che troviamo nel cantico di Debora e Barak che recita “Benedetta sia tra le donne Jael, moglie di Heber, il Keneo! Sia benedetta fra le donne che abitano nelle tende” (Giudici 5.24). Ecco, qui abbiamo un riferimento – parlando di Maria – tanto all’elezione di Dio quanto alla risposta che diede al Suo Messaggero: si pose davanti a Lui come sua “serva”.

Istintivamente saremmo tentati di considerare quel “benedetto sia il frutto del tuo ventre” come un augurio, ma sbaglieremmo: piuttosto questa frase allude a una realtà che ricorda le parole di Dio ad Abrahamo dall’angelo dopo la prova del sacrificio di Isacco: “Tutte le nazioni della terra saranno benedette nella tua discendenza, perché hai ubbidito alla mia voce” (Genesi 22.18): Maria era quindi non “uno”, ma “lo” strumento nelle mani di Dio in cui, con le sue poche e semplici forze come altri prima di lei, aveva creduto.

Elisabetta chiede “A cosa devo che la madre del mio Signore venga a me?”: sono parole che per la futura madre di Gesù dovettero avere un significato molto importante perché, dopo di queste, avremo il Magnificat. Elisabetta, tramite lo Spirito Santo, le conferma il ruolo fondamentale che avrebbe avuto, “la madre del mio Signore”, altra espressione che nessuna donna avrebbe mai usato nei confronti del figlio di una sua simile. Si può dire quindi che, con quelle parole, ci fu una profezia di lode per quel “Signore” che già Elisabetta sapeva esistere. Quel “mio signore” è molto indicativo e sta a sottolineare, come in tutti gli altri casi in cui fu usato – mi viene in mente Maria Maddalena e lo stesso Tommaso – un rapporto personale e al tempo stesso collettivo: Gesù è il Signore di ciascuno di noi, “mio” per l’unicità con cui mi parla, e di tutti coloro che hanno creduto, credono e crederanno in Lui. “Mio” e loro perché di certo le Sue parole vengono rivolte a me soltanto, ma a ciascuno secondo la Sua grazia e al modo col quale ciascun cristiano si pone di fronte a Lui. Solo nel momento il Signore è “mio” mi parla, e lo stesso fa con chiunque lo riconosce come tale. Salva e ama ciascuno individualmente.

Segue poi la prima beatitudine espressa nei Vangeli, “Beata è colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto” (v.45), che in un’altra traduzione leggiamo “…perché le cose dettele da parte del Signore avranno compimento”: le promesse di Dio infatti si possono dividere in due blocchi, quelle che necessitano del benestare dell’essere umano al quale vengono rivolte e quelle che si adempiono indipendentemente dalla sua volontà; pensiamo alla salvezza, possibile solo se la persona l’accetta credendo nel Figlio, e alle scadenze viste nel giudizio, nei grandi e terribili eventi che attendono l’umanità nel tempo della fine. Ebbene, Maria aveva creduto nell’annuncio dell’angelo Gabriele nonostante la sua titubanza e i suoi interrogativi sapendo che, come “favorita dalla Grazia”, sarebbe stata anche protetta da essa. Ricordiamo ancora cosa rispose: “Ecco la serva del Signore – giunge addirittura a parlare in terza persona – accada a me secondo la tua parola”. In tal modo Maria riconobbe tanto il messaggero quanto chi l’aveva inviato, la sua fu un’adesione piena e incondizionata e le parole della cugina bastarono a toglierle quel timore umanamente comprensibile che l’aveva spinta a compiere quel viaggio.

Se Elisabetta, spinta dallo Spirito Santo, pronunciò quelle parole, Maria aprì il suo cuore in un cantico conosciuto come il “magnificat” che esamineremo nella prossima riflessione.

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01.04 – L’ANNUNCIAZIONE (Luca 1.26-38)

01.04 – L’annunciazione (Luca 1. 26-38)

 

26Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, 27a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. 28Entrando da lei, disse: «Rallégrati, piena di grazia: il Signore è con te». 29A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. 30L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. 31Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. 32Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre 33e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». 34Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». 35Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. 36Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: 37nulla è impossibile a Dio». 38Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei”.

 

            L’episodio dell’annunciazione a Maria avviene quando Elisabetta sua cugina giunge al sesto mese di gravidanza: lo sappiamo sia dal verso 16, che inizia con “al sesto mese”, sia dalle parole dell’Angelo al 36 “(Elisabetta) ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio”. Ecco, si può dire che il sesto mese fosse una specie di garanzia per la futura madre e per coloro che aspettavano la nascita del bambino perché gli aborti erano frequenti soprattutto nei mesi antecedenti. Con l’invio di Gabriele al sesto mese dal concepimento di Giovanni, possiamo dire che l’annuncio rivolto alla Vergine avrebbe potuto avvalersi di una importante sottolineatura.

A questo punto viene spontaneo fare dei collegamenti con il precedente intervento angelico, visto che il Messaggero è lo stesso: apparve a Zaccaria, probabilmente all’improvviso, spaventandolo anche perché un angelo poteva annunciare un giudizio di Dio ed entra in casa di Maria con le medesime sembianze umane che sono raccontate, ad esempio, in Genesi, quando i diretti interessati agli annunci vedono degli uomini, non degli “esseri soprannaturali” con ali e aureola in testa. In Genesi 18.1-4 leggiamo: “Poi il Signore apparve ad Abrahamo alle querce di Mamre, mentre egli sedeva all’ingresso della tenda nell’ora più calda del giorno. Egli alzò gli occhi e vide che tre uomini stavano in piedi presso di lui. Appena li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra, dicendo «Mio signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare oltre senza fermarti dal tuo servo. Si vada a prendere un po’ d’acqua, lavatevi i piedi e accomodatevi sotto l’albero. Andrò a prendere un boccone di pane e ristoratevi; dopo potrete proseguire, perché è ben chiaro questo, che voi siete passati dal vostro servo». Quelli dissero: «Fa’ pure come hai detto»”. Interessante qui è che il Signore si rivela con la figura di “tre uomini”; ricordiamo il riferimento in Ebrei 13.2 “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli”.

Abbiamo visto che Zaccaria quando vide Gabriele si spaventò ritenendolo subito un essere spirituale dato che altrimenti non avrebbe mai potuto trovarsi nel luogo santo, mentre Maria, “promessa sposa ad un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe”, fu turbata non quando lo vide, ma quando ascoltò il suo saluto, soprattutto per le parole “piena di grazia, il Signore è con te”, inusuali rispetto all’esordio tradizionale in uso a quel tempo, “pace a te” che, tradotto letteralmente più che interpretato, fu “Rallegrati, tu che sei stata fatta oggetto della grazia di Dio, il Signore con te”.

In merito alle apparizioni angeliche in forma umana, ricordiamo quella ad Agar, che sulle prime non capì di avere di fronte un Messaggero: “La trovò l’angelo del Signore presso una sorgente d’acqua nel deserto, la sorgente sulla strada di Sur, e le disse «Agar, schiava di Sarai, da dove vieni e dove vai?». Rispose «Fuggo dalla presenza della mia padrona Sarai»” (Genesi 16. 7,8).

Luca allora qui non parla di una visione, ma della comunicazione di un messaggio a Maria cui alcuni manoscritti minori aggiungono “tu sei benedetta tra le donne”, precisazione tutto sommato inutile dato il ruolo che la promessa sposa di Giuseppe avrebbe avuto. “Favorita dalla grazia” è la traduzione di un aggettivo greco che non si trova negli autori classici e, negli scritti neotestamentari, viene usato solo in Efesi 1.6 in cui leggiamo “…a lode dello splendore della sua grazia, di cui ci ha gratificati nel Figlio amato”. Maria, come essere umano e quindi con una genealogia propria (vedi Luca) non poteva essere “piena di grazia”, ma una favorita da essa così come lo furono tutti quegli uomini e quelle donne che ricevettero un compito spirituale importante e unico nella storia della salvezza che troviamo dalla Genesi in poi. È un concetto che viene confermato dallo stesso Gabriele che le disse “Non temere, Maria, poiché tu hai trovato grazia presso Dio” (v.30) là dove il “trovare grazia” implica il perdono, la salvezza, il favore dell’Iddio che salva ed elegge a suo giudizio insindacabile.

Nella grazia c’è sempre un qualcosa che sfugge al beneficiario perché questi sa benissimo che consiste in un favore immeritato. Ed è così da sempre. Maria trovò grazia nel senso che Dio la scelse come madre del corpo del proprio Figlio e l’annuncio non fu rivolto a una donna sterile, ma a una vergine che comprese che il concepimento si sarebbe verificato prima del suo matrimonio con Giuseppe, che, secondo tradizione, avrebbe potuto celebrarsi dopo sei mesi o un anno dall’ufficializzazione del fidanzamento.

Veniamo all’annuncio angelico: Maria avrebbe dato alla luce un figlio e lo avrebbe chiamato Gesù (“YHWH salva”), secondo nome ad essere imposto nei Vangeli dopo quello di Giovanni (“Dio è misericordioso”). Vengono date poi le cinque caratteristiche che avrebbe avuto: “sarà grande (1) e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo (2); il Signore Dio gli darà il trono di Davide (3)suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe (4) e il suo regno non avrà mai fine (5)”.

Soffermandoci sulle ultime tre, possiamo leggere le parole che il Signore disse a Davide in 2 Samuele 7.12-13 “Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu riposerai coi tuoi padri, io innalzerò dopo di te la tua discendenza che uscirà dalle tue viscere e stabilirò il suo regno. Egli edificherà una casa al mio Nome e io renderò stabile per sempre il mio regno”. Ancora in Salmo 89.35-37 “Ho giurato una volta per la mia santità e non mentirò a Davide; la sua progenie durerà in eterno e il suo trono sarà come il sole davanti a me. Sarà stabile per sempre come la luna, e il testimone nel cielo è fedele”.

Il regnare “sulla casa di Giacobbe nei secoli” è riferito alla totalità di Israele visto nelle 12 tribù che lo compongono, corrispondenti appunto agli altrettanti figli di Giacobbe e relativa discendenza. Le parole dell’angelo Gabriele prendono così in considerazione tutta la storia umana a partire dal presente (“Tu hai trovato grazia presso Dio”), anticipato da Isaia 7.14 “Il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la vergine concepirà e darà alla luce un figlio, e gli porrà il nome Emmanuele” che significa “Dio con noi”. È importante sottolineare che questo figlio sarebbe nato da una vergine, fatto certamente impossibile senza un intervento di Dio. Era un piano da Lui preordinato, rivelato ad Isaia che lo trasmise, che trova nell’annuncio a Maria un importante passo avanti nella sua realizzazione finale, quella del regno che non avrà fine e inizierà una volta distrutto l’avversario coi suoi angeli.

Si tratta di un annuncio importante, che nulla ha a che vedere con la Terra e il mondo che conosciamo, destinato a logorarsi “come un vestito” (Isaia 51.6); Isaia, che visse nell’VIII secolo a.C. scrisse “Alzate i vostri occhi e guardate la terra di sotto, poiché i cieli si dissolveranno come fumo e la terra si logorerà come un vestito e i suoi abitanti moriranno come larve”. Pensiamo a quando Gesù disse “Il mio regno non è di questo mondo”, riferendosi al fatto che non solo è transitoria la vita che viviamo, ma la Terra stessa, perché “il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno”: ecco perché quel regno sarà stabile per sempre, in “nuovi cieli e nuova Terra”.

La replica di Maria all’angelo denota stupore, non incredulità, perché la Vergine conosceva molto bene la sua condizione di promessa sposa e che il rapporto che la legava a Giuseppe fino ad allora escludeva rapporti carnali: “Come avverrà questo, perché non conosco uomo?”. A questo punto Gabriele le spiega che la nascita di Gesù sarebbe avvenuta senza il naturale concorso umano, ma sarebbe stata il risultato di un’operazione congiunta di due elementi, lo “Spirito Santo” e la “potenza di Dio“ che già furono attive in un tempo a noi sconosciuto quando furono creati il cielo e la terra. Chiaramente lo Spirito Santo è quello “Spirito di Dio che aleggiava sulle acque” dell’eternità nel nulla, di quello spazio informe e vuoto che caratterizzava l’ambiente di allora: quello stesso Spirito sarebbe sceso su Maria occupandosi direttamente, personalmente della formazione del feto e del suo sviluppo mediante la potenza di Dio. Ricordiamo le parole del Salmo 119.73: “Le tue mani mi hanno fatto e formato; dammi intelligenza perché io possa imparare i tuoi comandamenti”. Non credo sia azzardato affermare che lo Spirito Santo si occupò dell’intelligenza del Bambino e la potenza di Dio Padre della costituzione del Suo corpo cellula dopo cellula: “Io ti celebrerò, perché sono stato fatto in modo stupendo. Meravigliose sono le tue opere e l’anima mia lo sa molto bene” (Salmo 139.14), parole che si riferiscono certamente alla biologia naturale, ma che chiamano in causa l’interesse personale di Dio in quell’intervento “stupendo”: una vergine avrebbe concepito e partorito un figlio, quello promesso che, in quanto tale, sarebbe stato chiamato “Figlio di Dio”, che lo avrebbe distinto da Giovanni Battista, anch’esso definito “grande”, ma con l’aggiunta delle parole “davanti a Dio”.

A questo punto leggiamo che Gabriele parla a Maria con termini tesi a rafforzare la sua fede: non sappiamo cosa stesse facendo quella giovane nel momento in cui l’angelo entrò in casa sua. Forse pensava alle sue imminenti nozze, o ordinava la sua dimora, o preparava il pranzo o la cena; di certo non pensava di essere diversa dalle sue coetanee e ignorava il piano di Dio per lei, come tutti gli uomini e donne vissute prima e che avrebbero occupato il mondo nelle generazioni successive.

Certo Maria non udì, nel frangente di questo episodio, parole ordinarie e sicuramente il turbamento seguito alla visione di Gabriele non era svanito: l’Angelo le porta il caso Elisabetta sua parente, incinta al sesto mese nonostante fosse stata “chiamata sterile, perché nulla è impossibile con Dio”. Ciò dovette immediatamente richiamarle alla memoria quanto risposto a Sara, moglie di Abrahamo, che aveva espresso dei dubbi in merito alla sua futura gravidanza definendosi “vecchia” e “avvizzita”: “Perché Sara ha riso dicendo «Potrò davvero partorire, mentre sono vecchia?» C’è forse qualcosa d’impossibile per il Signore?” (Genesi 18.12,13).

Ecco, il riferimento ad Elisabetta era teso a confermare a Maria quanto fossero veritiere le parole di Gabriele. Sappiamo che il carattere della madre (del corpo) di Gesù era prudente e riflessivo e che lei non capì subito, come molti commentatori – cattolici e non – sostengono, la reale portata del messaggio angelico; fatto sta che si rese immediatamente disponibile: “Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola” (v.38). Maria, quindi, non chiese un segno né altri ragguagli, ma conscia di entrare nel Piano di Colui presso il quale non vi è nulla di impossibile, si pone nella condizione della serva, cioè della persona la cui volontà non conta nulla di fronte a quella del suo Signore.

Maria accettò incondizionatamente il compito che le veniva affidato senza chiedere nulla in cambio.

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01.03 – ZACCARIA (Luca 1. 18-25)

18Zaccaria disse all’angelo: «Come potrò mai conoscere questo? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni». 19L’angelo gli rispose: «Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio e sono stato mandato a parlarti e a portarti questo lieto annuncio. 20Ed ecco, tu sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a loro tempo».21Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria e si meravigliava per il suo indugiare nel tempio. 22Quando poi uscì e non poteva parlare loro, capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni e restava muto. 23Compiuti i giorni del suo servizio, tornò a casa. 24Dopo quei giorni Elisabetta, sua moglie, concepì e si tenne nascosta per cinque mesi e diceva: 25«Ecco che cosa ha fatto per me il Signore, nei giorni in cui si è degnato di togliere la mia vergogna fra gli uomini».”.

 

            Con questi versi si conclude l’episodio dell’annuncio angelico a Zaccaria, sacerdote impegnato nell’offerta dell’incenso all’altare del luogo Santo. Dalla lettura del primo verso, il 18, emerge un dato già esposto nello studio precedente, dove abbiamo letto che “Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni”: Zaccaria si definisce “vecchio” e per sua moglie usa la stessa espressione dell’evangelista, “avanti negli anni”. Sappiamo che tutti coloro che prestavano servizio al Tempio dovevano avere un’età compresa fra i “trenta e i cinquant’anni” (Numeri 3) per cui quel sacerdote doveva necessariamente non averli ancora raggiunti. Indicando Elisabetta come persona “avanti negli anni”, poi, usava un’espressione che alludeva all’età fertile della donna che, al suo grado massimo dei 20 – 25 anni decresce fino ad arrivare allo zero attorno ai 44, per quanto oggi questo limite sia stato superato. Essendo Elisabetta sterile, in pratica Zaccaria vedeva una doppia impossibilità in sua moglie a partorire anche tenendo presente gli anni che aveva lui stesso, poiché anche gli uomini, sposandosi giovanissimi secondo la nostra ottica occidentale, avevano figli a un’età compresa tra i 14 e i 16 anni.

Pensando queste cose nell’immediatezza dell’annuncio, Zaccaria chiede all’angelo un segno, perché la traduzione letterale della domanda è “Da che cosa conoscerò questo?”; si tratta di una richiesta apparentemente identica ad altre che troviamo negli scritti dell’Antico Patto fatte in situazioni analoghe: pensiamo ad Abramo che, riferendosi al territorio che Dio gli aveva promesso, chiese “Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?” (Genesi 15.8). Possiamo ricordare anche Gedeone che disse “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, dammi un segno che proprio tu mi parli” (Giudici 6.17), per non dire di Maria stessa, madre di Gesù che, quando lo stesso angelo Gabriele le annuncerà la nascita di un figlio, chiederà “Come avverrà questo, perché non conosco – nel senso di avere rapporti coniugali – uomo?”.

            Riguardo alle parole di Zaccaria, molti commentatori hanno difficoltà a capire come mai fu punito per avere rivolto a Gabriele una domanda che, in fin dei conti, altri avevano porto senza subire conseguenze. Va detto che in tutti i tre i casi ricordati c’era già stato, a monte, il credere nelle promesse di Dio: Abramo chiese un segno dopo aver creduto alla promessa che avrebbe avuto una discendenza e Gedeone era veramente desideroso di capire perché erano avvenuti determinati avvenimenti negativi al suo popolo: senza preconcetti e riserve chiese all’angelo “Perdona, mio signore: se il Signore è con noi, perché ci è capitato tutto questo?”. Maria, infine, non manifestò dubbi sul fatto che avrebbe dato alla luce il figlio annunciato, ma chiese come sarebbe stato possibile visto che non era ancora sposata e con Giuseppe non aveva avuto rapporti. Tutti questi personaggi, quindi, rivolsero domande legittime, dettate dal voler capire e sapere, ma Zaccaria non volle tener conto di alcuni elementi che gli sarebbero stati sufficienti per accogliere il messaggio rivoltogli.

L’apparizione dell’Angelo accanto all’altare dell’incenso, quindi nel luogo Santo inaccessibile a chiunque pena la morte, era già garanzia di un evento soprannaturale. “La tua preghiera è stata esaudita” era poi un’affermazione che chiaramente si riferiva a qualcosa di molto personale che solo Zaccaria e Iddio potevano conoscere, per cui da quell’annuncio avrebbe potuto avere solo gioia e non dubbio. Ricordiamo che Natanaele riconobbe in Gesù “il Figlio di Dio, il Re d’Israele” solo perché gli disse di averlo visto sotto un albero di fichi. Zaccaria quindi, uomo pio che camminava con Elisabetta “in tutti i comandamenti del Signore, senza biasimo”, in quel caso non credette e perciò fu punito – o meglio ebbe nel mutismo il “segno” chiesto – rimanendo incapace prima di tutto di pronunciare quelle parole di benedizione che il popolo aspettava nel Tempio e poi di comunicare col suo prossimo: “Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria e si meravigliava per il suo indugiare tanto nel tempio” (v.21).

Teniamo presente che Zaccaria non chiese un segno sul fatto che sua moglie avrebbe un giorno partorito, ma pretendeva, dopo tutte le dettagliate descrizioni su cosa suo figlio avrebbe rappresentato e le caratteristiche che avrebbe avuto, un segno che le confermasse.

Con le parole “Io sono Gabriele, che sto davanti a Dio, e sono stato mandato per parlarti e portarti questo lieto annuncio”, l’angelo ricorda la sua dignità e funzione di messaggero potente: prima di lui era apparso soltanto a Daniele rivelandogli la visione dell’ariete e del capro (Daniele 8. 16-26) oltre al mistero delle settanta settimane di anni (9. 21-27). Certo Zaccaria aveva quanto meno sottovalutato la portata dell’annuncio e di colui che gli aveva parlato: “sto davanti a Dio” ci rimanda ad Apocalisse 8.2, all’apertura del settimo sigillo, “Quando l’Agnello aprì il settimo sigillo, si fece silenzio per circa mezz’ora. E vidi i sette angeli che stanno davanti a Dio, e a loro furono date sette trombe”. Gabriele, il cui nome significa “Uomo di Dio”, aveva onorato Zaccaria della sua presenza, senza contare il fatto che lo stesso Iddio l’Iddio di Israele aveva accolto la sua preghiera e della moglie e li aveva designati per essere i genitori del precursore del Suo Amato Figlio. Quell’uomo sarebbe rimasto così muto “fino al giorno in cui queste cose avverranno”, in realtà anche sordo perché leggiamo che, quando i suoi vicini e parenti volevano avere conferma sul nome di suo figlio, “domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse” (Luca 1.62).

Zaccaria, in quel suo isolamento di circa nove mesi, ebbe modo così di riflettere su cosa significasse l’appartenere a quel Dio che un giorno disse a Mosè “Chi ha dato una bocca all’uomo o chi lo rende muto o sordo, veggente o meno?” (Esodo 4.11). Fu così che Zaccaria non si allontanò da Lui ritenendosi offeso o colpito ingiustamente, ma una volta riacquistate le sue normali facoltà esplose in un cantico che, se ne avremo la possibilità, esamineremo.

Zaccaria è per noi l’esempio di un uomo che dà per quello che è, conscio della responsabilità che aveva come sacerdote che per quanto era in suo potere, con un cuore desideroso di rimanere in comunione con Dio nella dispensazione in cui viveva, fece emergere la sua umanità là dove non avrebbe dovuto. Come mi disse un giorno un fratello, “si distrasse”. Zaccaria non ritenne il giudizio dell’angelo su di lui come qualcosa di eccessivo come Caino, che disse “Il mio castigo è troppo grande perché io lo possa sopportare” (Genesi 4.13) e poi si allontanò dalla presenza di YHWH, ma si identificò nelle parole di Proverbi 3.11,12 “Figlio mio, non disprezzare la punizione dell’Eterno e non detestare la sua correzione, perché il Signore corregge colui che gli ama, come un padre il figlio che gradisce”. È questo un verso importante che l’autore della lettera gli Ebrei commenta così: “È per vostra correzione che voi soffrite! Dio vi tratta come figli; e qual è il figlio che non viene corretto dal padre? Se invece non subite correzione, mentre tutti ne hanno avuto la loro parte, siete illegittimi, non figli! Del resto noi abbiamo avuto come educatori i nostri padri terreni e li abbiamo rispettati; non ci sottometteremo perciò molto di più al Padre celeste, per avere la vita? Costoro infatti ci correggevano per pochi giorni, come sembrava loro; Dio invece lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci partecipi della sua santità. Certo, sul momento ogni correzione non sembra causa di gioia, ma di tristezza. Dopo, però, arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati” (12. 7-11).

Giunti a questo punto non va trascurato un altro elemento dell’episodio, un protagonista apparentemente passivo che individuo nel popolo presente nei cortili del tempio che aspettava la benedizione che quel sacerdote non poteva pronunciare perché muto. Leggiamo “Capirono che nel tempio aveva avuto una visione. Faceva loro dei cenni, e restava muto” (v. 22). Il popolo fu testimone del primo evento ufficiale della manifestazione di Dio e chi avesse voluto indagare, come fece Luca, sulla persona del Battista, avrebbe potuto avere un primo elemento relativo all’autorità con la quale predicava. Figlio di sacerdoti va bene, ma annunciato con quelle manifestazioni era tutt’altra cosa. La stessa cosa si sarebbe potuta fare sulla persona di quel Gesù che diceva di essere il Cristo: esisteva un piano, una linea di eventi a catena inconfutabili.

Zaccaria rimase a Gerusalemme fino al termine della settimana di servizio che doveva prestare la sua classe e quindi se ne tornò a casa, che pare sia stata a Jutta, a poco più di sei chilometri dalla città. Secondo la promessa, Elisabetta rimase gravida, ma “si tenne nascosta cinque mesi”, cioè aspettando il sesto, quando il feto è già completamente formato, è in grado di sentire i suoni, le voci e si posiziona gradualmente a testa in giù in vista del parto. Mi sono chiesto perché Elisabetta si comportò in questo modo: penso che il suo fu un comportamento dettato dalla prudenza in considerazione della sua età avanzata oppure, dovendo essere Giovanni un nazireo, non voleva contrarre nessuna impurità. Alla moglie di Manoah, citata nella scorsa riflessione, fu detto “Guardati dal bere vino o bevanda inebriante e non mangiare nulla di impuro poiché ecco, tu concepirai e partorirai un figlio sulla cui testa non passerà rasoio, perché il bambino sarà un nazireo di Dio fin dal seno materno” (Giudici 13.4,5). Ancora, uno dei motivi del suo tenersi nascosta, poteva risiedere nel fatto che Elisabetta non desiderasse esporsi alla curiosità dei vicini dando così prova, oltre che di prudenza, di riservatezza, qualità non comuni soprattutto oggi, tanto nella donna che nell’uomo.

01.02- L’ANNUNCIO A ZACCARIA (Luca 1. 7-17)

 

7Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni.
8Avvenne che, mentre Zaccaria svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe, 9gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso. 10Fuori, tutta l’assemblea del popolo stava pregando nell’ora dell’incenso. 11Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. 12Quando lo vide, Zaccaria si turbò e fu preso da timore. 13Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni. 14Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita, 15perché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre 16e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. 17Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto».”.

                Considerando l’annuncio angelico a Zaccaria e la circostanza in cui avvenne, non si può trascurare la sterilità di Elisabetta la cui esperienza, per come si svilupperanno gli eventi, ha connessione con quella di altre donne dei tempi dell’Antico Patto: ricordiamo Sara moglie di Abramo, Rebecca di Isacco, Rachele di Giacobbe, la moglie di Manoah (Giudici 13.2), Anna di  Elkanà (1 Samuele 1.2), tutte costoro cambiarono la loro condizione a seguito di un intervento di Dio. Tra queste donne vi fu chi ricevette la visita di un angelo ad annunciare loro l’imminente nascita di un figlio (Sara e la moglie di Manoah) e chi venne esaudita a seguito di una preghiera loro (Rachele e Anna) o del marito (Rebecca). Questo dato verrà utile quando affronteremo la personalità del sacerdote Zaccaria cui “…toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso” (v.8). A quel tempo infatti si decideva tirando a sorte chi degli 800 sacerdoti della classe di Abia avrebbe avuto il privilegio di offrire ogni giorno l’incenso nel Santo, cioè la prima delle due stanze che costituivano il tabernacolo all’interno del quale vi era l’altare dei profumi. In Esodo 30.7,8 leggiamo: “Aaronne brucerà su di esso l’incenso aromatico: lo brucerà ogni mattina, quando riordinerà le lampade, e lo brucerà anche al tramonto, quando Aaronne riempirà le lampade: incenso perenne davanti al Signore di generazione in generazione”.

Vanno considerate le parole di Dio a Mosè riguardo all’incenso: “Procurati balsami: storace, onice, galbano e incenso puro, il tutto in parti uguali. (…) Non farete per vostro uso alcun profumo di composizione simile a quello che devi fare: lo riterrai una cosa santa in onore del Signore. Chi ne farà di simile per sentirne il profumo sia eliminato dal suo popolo” (Esodo 30. 24-38).

Qui notiamo alcuni particolari: tutte le sostanze che componevano l’incenso sono balsami, cioè atti a lenire sofferenza per arrecare conforto, sollievo, consolazione. Secondo altre traduzioni erano “aromi”, cioè sostanze avente una caratteristica olfattiva propria, che la distingueva dalle altre. Erano tutte resine o comunque estratti mediante sofferenza degli esseri viventi – pensiamo all’onice, tradotto altrove con “conchiglia profumata” – da cui venivano ricavate. L’incenso per quell’uso doveva essere composto da elementi in parti uguali, in perfetto equilibrio tra loro, e doveva essere unico, il solo che sarebbe stato gradito a Dio, “una cosa santa in onore del Signore”: bruciato, sprigionava un profumo che non poteva essere riprodotto per curiosità o usi umani, pena la morte.

L’offerta dell’incenso avveniva su un altare ad esso dedicato e, se accompagnava le offerte sacrificali, questo era escluso da quelli compiuti per i peccati (Levitico 5.11 “Non metterà su di essa né incenso né olio perché è un sacrificio per il peccato” e Numeri 5.15 “Non vi verserà sopra né olio né vi metterà sopra incenso, perché è un’oblazione di cibo per gelosia, un’oblazione commemorativa destinata a ricordare una colpa”). Bruciare quell’incenso, allora, simboleggiava la preghiera di ringraziamento e di adorazione a Dio che non poteva venire inquinata dal peccato, ma aveva riferimento alla purezza di cuore, un’offerta unica riservata al solo Creatore e Signore dell’uomo come leggiamo in Salmo 141.2: “Salga la mia preghiera davanti a te come l’incenso, l’elevazione delle mie mani come il sacrificio della sera”. E nel libro dell’Apocalisse abbiamo dei riferimenti, come in 5.8 in cui si parla di “…profumi, che sono le preghiere dei santi”.

Quell’incenso, per il significato che aveva, non poteva essere prodotto per usi personali perché stava a simboleggiare un atteggiamento, una destinazione che spettava al solo Dio col quale l’uomo non poteva competere e realizzare quella sostanza per scopi diversi dall’adorazione veniva punita con la morte. Per la dispensazione della Legge vigeva il principio “Così toglierai il male di mezzo da te” (Deuteronomio 13.5). L’Oriente aveva profumi e incensi per gli usi più disparati, ma uno solo, quello con la composizione indicata in Esodo, spettava all’Iddio che Israele avrebbe dovuto adorare.

Se l’incenso aveva connessione con la preghiera e l’adorazione, è importante Esodo 30.9 in cui, a proposito dell’altare su cui veniva bruciato, si legge “Non vi verserete sopra incenso illegittimo, né olocausto, né oblazione, né vi verserete libagione”: sono parole che ci aiutano a capire il concetto di preghiera di offerta cristiana oggi, che non può contenere contraddizioni o disarmonie pena suo rifiuto, come ad esempio ricordato nel “Padre Nostro” con le parole “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”, ma anche nella parabola del servo spietato (Matteo 18.21-35) e da altri elementi che Gesù porrà all’attenzione del suo uditorio.

A proposito della preghiera Giacomo, il “fratello del Signore”, scrive “Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per spendere per i vostri piaceri” (4.2,3).

L’offerta di quell’incenso così unico che il sacerdote offriva aveva due scopi: sottolineare e accompagnare la preghiera per l’unico Dio e, simbolicamente, annunciare il sacrificio del Cristo che si sarebbe offerto a Lui: “Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi, in offerta e sacrificio a Dio come un profumo di odore soave” (Efesi 5.2). E lo scopo del sacrificio di Cristo è stato quello di “Sottrarci dal presente malvagio secolo secondo la volontà di Dio nostro Padre” (Galati 1.4), con particolare riguardo al destino comune di tutti quanti si identificano nel “malvagio secolo” condividendone ideali, prospettive e metodi. “Sottrarre” qui è da intendersi coi suoi sinonimi: salvare, liberare da un pericolo, salvaguardare da un danno.

L’incenso veniva offerto al mattino alle nove e al pomeriggio alle 15, preghiera per il giorno e per la notte, ma anche di attesa messianico: sarebbe venuto un tempo in cui quell’offerta avrebbe perso il suo significato, sostituito da un profumo di ben altra portata, definitivo, “il sacrificio di odor soave” di cui Paolo ha scritto ai credenti della Chiesa di Efeso.

 

Ora l’offerta dell’incenso fu per Zaccaria, che non aveva ancora compiuto 50 anni età in cui sarebbe stato messo a riposo, fu il punto culminante della sua carriera sacerdotale e alcuni hanno supposto che l’apparizione dell’Angelo avvenne nel corso dell’ufficio considerato serale, deducendolo dalla presenza di “tutta l’assemblea del popolo” che pregava.

Ecco, qui appare l’angelo “a destra dell’altare”, riferimento all’autorità e posizione che Gabriele aveva in relazione all’offerta dell’incenso. Si noti che l’altare, che era un parallelepipedo in legno di acacia rivestito d’oro, era il punto dal quale partiva l’offerta: l’altare di legno raffigurava l’uomo, il rivestimento d’oro ciò che allora era irraggiungibile e l’incenso offerto, nella composizione stabilita, era un ulteriore simbolo di perfezione, di preghiera accettata pienamente da Dio. L’angelo Gabriele era a destra di tutto questo. Non poteva esserci posizione più autorevole in testimonianza aggiunta a quanto stava per rivelare.

Zaccaria, alla vista dell’angelo, si spaventò. In tutta la Scrittura c’è sempre questa reazione nel momento in cui l’uomo incontra un essere spirituale e soprattutto santo, ma fu da lui immediatamente rassicurato con quel “Non temere” che compare in tutta la Bibbia per 356 volte, tanti sono i giorni dell’anno. Le prime parole, “Non temere”, furono quindi per lui e subito dopo gli viene detto che la sua preghiera era stata esaudita, in particolare quella di avere un figlio perché gli israeliti temevano che la propria casata potesse estinguersi e, infatti, la sterilità della donna era vista come una maledizione. Poi l’annuncio si sposta su qualcosa di inaspettato, cioè il nome da dare al figlio che avrebbe avuto da Elisabetta: Giovanni, che significa “Dio fa grazia”, oppure secondo altri “Dio ha esaudito”, o “Dio ascolta”, entrambi compresi nel primo. Qui abbiamo un caso particolare perché dare il nome al proprio figlio era un atto che competeva al padre. Giovanni sarebbe stato quindi una persona che avrebbe avuto una funzione precisa a prescindere dalla volontà umana e il suo nome, comandato dall’Alto e non scelto dal padre naturale, è indicativo per designare la sua missione di precursore del Messia continuamente ricordata, anche con riferimenti agli scritti dell’Antico Patto, da Matteo.

Veniamo al contenuto dell’annuncio: Gabriele dà a Zaccaria otto informazioni su Giovanni la prima delle quali è “Molti si rallegreranno della sua nascita”, che allude non tanto alla gioia che porta l’arrivo di un figlio desiderato ai genitori e ai parenti solidali con loro, ma a quella di tutti coloro che in Israele avrebbero creduto all’annuncio dell’imminente arrivo del Messia facendosi battezzare come testimonianza del loro ravvedimento. Sono convinto che, fra questi “molti”, siano inclusi anche tutti quegli esseri spirituali che, presenti nella Corte Celeste, vedevano il piano di Dio avanzare verso la meta perfetta, la costituzione della Gerusalemme celeste che avverrà dopo la definitiva sconfitta dell’Avversario e il Giudizio sull’umanità.

Il secondo dato è “Sarà grande nel cospetto del Signore”, descrizione del carattere, delle fatiche e della relazione di Giovanni con il Messia, per non parlare del fatto che sarebbe stato formato dallo Spirito Santo nella sua vita preparatoria nel deserto: “Il bambino cresceva e si fortificava nello spirito, e rimase nei deserti fino al giorno in cui doveva manifestarsi ad Israele” (Luca 1.80). La “grandezza” di cui parla l’angelo si sarebbe rivelata anche esteriormente col non bere “nè vino, né cervogia”, tradotto anche con “bevanda inebriante”, che poteva essere o l’antenata della birra, ottenuta dalla fermentazione di orzo e avena definita dai romani “barbaro vino d’orzo”, oppure un liquido ottenuto da fichi e datteri fermentati. Con queste parole Gabriele comunica a Zaccaria che suo figlio sarebbe stato un nazireo, cioè un consacrato, simbolo vivente della santità che trovava al suo opposto il lebbroso, considerato il simbolo vivente del peccato. Riflettendo sul nazireato in generale, bisogna sottolineare che se il separarsi dagli altri era volontario e temporaneo, per Giovanni sarebbe stata una condizione costante della sua vita, “fin dal ventre di sua madre” come lo furono Sansone e Samuele. Il Battista quindi sarebbe stato il terzo nazireo nella storia di Israele.

La quarta caratteristica sarebbe stata “ripieno dello Spirito Santo fin dal ventre di sua madre” cioè: in opposizione al vino e a ciò che inibisce le facoltà mentali, abbiamo tutta l’assistenza e l’amore di cui Giovanni avrebbe beneficiato in vista del compito che lo avrebbe atteso. Segue poi il risultato delle sue fatiche, quinto dato, viste nel convertire “molti dei figli di Israele all’Iddio loro”. Il messaggio del precursore sarà incentrato sul ravvedimento, sul cambiare il modo di pensare in vista dell’arrivo di Gesù: “Giovanni comparve nel deserto, battezzando e predicando un battesimo di ravvedimento per il perdono dei peccati. E tutto il paese della Giudea e quelli di Gerusalemme andavano a lui ed erano tutti battezzati da lui nel fiume Giordano, confessando i loro peccati” (Marco 1.4,5).

Andrà innanzi a lui nello spirito e virtù di Elia”, sesto dato, denota la volontà e il desiderio unito alla forza e all’azione che aveva avuto Elia, suscitato come profeta e riformatore religioso in Israele nei giorni forse più oscuri della sua storia, quando Achab e sua moglie Jezebel avevano sostituito il culto di Baal al posto di quello per YHWH cercando di sterminare tutti i Suoi profeti. A questo punto non si può omettere la citazione di Malachia 4.5 “Ecco, io vi manderò Elia il profeta, prima che venga il giorno grande e spaventevole dell’Eterno”, parole che vennero spiegate da Gesù con “Tutta la Legge e i profeti hanno profetizzato fino a Giovanni. E se lo volete accettare, lui è l’Elia che doveva venire” (Matteo 11. 13,14).

Se poi confrontiamo le parole successive, “per ricondurre il cuore dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti” con quelle di Malachia 4.6 “Fara ritornare il cuore dei padri ai figli e il cuore dei figli ai padri”, abbiamo l’espressione del concetto secondo cui appropriarsi del messaggio di Giovanni avrebbe implicato ammettere di non avere altre alternative all’infuori del ravvedimento, del cambiare modo di pensare ed agire indipendentemente dal fatto di essere padri o figli: “Ravvedetevi, perché il regno dei cieli è vicino” (Matteo 3.2) è un messaggio che riguardava la totalità del popolo.

Abbiamo infine lo scopo finale, l’ottavo e ultimo: “Preparare al Signore un popolo ben disposto”: con la sua predicazione, con il battesimo del ravvedimento, Giovanni avrebbe preparato il popolo a riconoscere il Cristo di Dio e lo indicò personalmente dicendo “Ecco l’Agnello di Dio che toglie il peccato del – non “dal” – mondo” facendo così emergere il fatto che c’era un popolo teorico, quello di Israele, e un popolo vero costituito da tutti coloro che, appartenendo a lui, avrebbero accettato la predicazione di quell’Agnello.

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