01.06 – Magnificat (Luca 1. 46-56)
“46Allora Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore 47e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, 48perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. 49Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; 50di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. 51Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; 52ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; 53ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. 54Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, 55come aveva detto ai nostri padri,
per Abramo e la sua discendenza, per sempre». 56Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua.”.
Gli scritti del Nuovo Patto si aprono con un inno, quello che Giovanni utilizza per l’apertura del suo Vangelo, e con il cantico di una donna, Maria. Si tratta di un avvenimento, più che di rottura con la tradizione, di completamento e di conferma del fatto che uomo e donna hanno pari dignità davanti a Dio pur se con ruoli e responsabilità diverse. Luca, che fece “ricerche accurate su ogni circostanza” (1.3) scrive questi episodi dopo averli appresi direttamente dalla madre di Gesù che, all’epoca in cui avvennero, doveva avere tra i 14 e i 17 anni. Il “Magnificat” è un canto di gioia e liberazione scaturito a seguito delle parole di Elisabetta “…e beata colei che credette che vi sarà compimento per le cose dettele dal Signore” che costituirono anche un rimprovero, neppure tanto velato, al marito che si era comportato diversamente. Per dovere di cronaca va detto che alcuni manoscritti attribuiscono il cantico ad Elisabetta, ma i contenuti veterotestamentari di cui esso è pieno indicano, a mio parere, un sentimento di liberazione e una comprensione degli eventi che poteva avere più Maria che la cugina.
Notiamo al verso 46 che si parla di “anima” che magnifica il Signore e di “spirito” che esulta, andando direttamente alla persona come essenza, al di là del corpo. Anima come ciò che è forza vitale, ma terrena, e spirito come ciò che è superiore, la vera identità dell’essere umano, ciò che va oltre ed è difficilmente comprensibile. L’anima che “magnifica il Signore” (verbo “megalùno”) implica un’idea di rafforzamento in Lui e che pertanto Lo glorifica una volta compresa una parte del mistero della sua elezione; lo spirito poi esulta “in Dio”, letteralmente “a motivo di”, escludendo un sentimento momentaneo di gioia stante la qualifica di “Salvatore” che Gli viene attribuito. Isaia in 12.2 scrive “Ecco, Dio è la mia salvezza, io avrò fiducia e non avrò paura perché l’Eterno, sì, l’Eterno è la mia forza e il mio cantico ed è stato la mia salvezza”: personalmente credo che lì i timori di Maria relativi al suo destino come donna, che abbiamo visto rischiava la lapidazione come adultera nel caso in cui Giuseppe l’avesse denunciata, cessarono. “Salvatore” perché la futura madre di Gesù si sentì, come tutti quelli prima e dopo di lei, posta al riparo, appartata per un progetto di eternità, ma anche salvata dalla condizione di essere umano peccatore: se fosse stata santa di per sé, “concepita senza peccato” come si vuole sostenere o avesse avuto dei meriti particolari salvo l’elezione di Dio, non avrebbe usato quest’espressione e Lo avrebbe qualificato in un altro modo; ricordiamo che mai una creatura spirituale pura (pensiamo agli angeli con le loro gerarchie) si è mai rivolta a YHWH chiamandolo “Salvatore”.
Maria poi si qualifica come essere umano senza far caso alla propria stirpe reale, discendendo anch’essa da Davide: sotto l’aspetto genealogico la sua condizione “umile” non lo era, ma in base alla sua umanità certamente sì. La “umile condizione” era quella in cui versano tutti gli uomini, lontani dalla Grazia e quindi dalla salvezza a meno che Lui stesso non guardi a loro avendone pietà. Altri traducono “ha riguardato alla bassezza della sua serva”, espressione che ricorda l’essenza dell’essere umano, appunto peccatore per natura e per questo incompatibile con Dio che, a Suo giudizio insondabile e insindacabile, guarda alla condizione di ciascuno e a ciascuno si propone per salvarlo.
Ecco, qui bisognerebbe sostare un attimo: la Bibbia è piena di episodi in cui Dio si rivela e spiega il Suo piano per ogni essere umano, sia questo singolo o popolo; lo ha sempre fatto a partire da quando ha creato Adamo. A volte parlò personalmente, in altre mandò degli angeli, dei messaggeri, in altre ancora utilizzò altri uomini, dei profeti. Ebbene la stessa cosa sono profondamente convinto la faccia anche oggi, anche se con modi diversi, perché viene un punto nella vita in cui l’essere si pone delle domande circa la propria origine e fine ed è lì che si pone il bivio, la libera scelta tra l’iniziare un percorso di ricerca spirituale oppure no. L’uomo di oggi non può affidarsi ad apparizioni o a rivelazioni particolari di “entità superiori” perché queste sono escluse come provenienti da Dio, come possiamo capire dalla risposta che diede Abrahamo al ricco che lo pregava di inviare Lazzaro ai suoi fratelli ad ammonirli perché non finissero anch’essi fra i tormenti: “Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro” (Luca 16.29).
Riguardo alla necessità di risolvere la difficile domanda del perché della nostra esistenza e soprattutto dell’oltre la morte ci sono due reazioni possibili: alcuni l’avvertono in modo talmente forte da arrivare a risolverlo, certo non da soli, altri lo soffocano e lo rimandano ancorandosi alle piccole cose che li fanno sentire importanti come il lavoro, i propri interessi, lo studio, un ruolo eventualmente “importante” nella società umana, il denaro che accumulano e che mai utilizzano a favore degli altri. Tuttavia aderire a una religione, per quanto forse appagante, non risolve la loro condizione, ma sapere che Dio può salvare e l’entrare nel Suo progetto, rivelato attraverso i secoli e le dispensazioni, certamente sì. Maria, per esempio, avrebbe potuto rispondere a Gabriele che preferiva continuare la sua vita semplice di sempre seguendo il progetto che certamente come tutti aveva per sé, ma scelse il ruolo di madre (del corpo) di Gesù: amore materno, comune a quello di tante altre donne per il periodo dell’infanzia, riflessione profonda e pressoché continua durante il Suo ministero pubblico, di profonda sofferenza alla croce e infine premio con la vita eterna.
C’è poi la sintesi “Santo è il suo nome e la sua misericordia si estende per generazioni e generazioni per coloro che lo temono”, che parte dall’essenza di Dio (la santità) e circoscrive la Sua misericordia a quanti lo temono, cioè chi ha ben presente l’impegno visto nell’imperativo “Siate santi, perché io sono santo” (Levitico 11.45). Per il cristiano questo significa meditare e mettere in pratica le parole dell’apostolo Pietro: “Come figli ubbidienti, non conformatevi alle concupiscenze del tempo passato, quando eravate nell’ignoranza, ma come colui che vi ha chiamati è santo, voi tutti siate santi in tutta la vostra condotta. Poiché sta scritto «Siate santi, perché io sono santo»” (1 Pietro 1.14-16).
Parlando della misericordia di Dio che “si estende per generazioni e generazioni per coloro che lo temono”, Maria fa riferimento alla protezione e al riguardo che Lui ha avuto nel corso del tempo che ha caratterizzato le 42 generazioni da Abrahamo fino a Cristo (Matteo 1.17).
“Egli ha operato potentemente con il suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai loro troni ed ha innalzato gli umili. Ha ricolmato di beni gli affamati e ha rimandato i ricchi a mani vuote”: questo è un riconoscimento del lavoro di Dio nella storia da lei conosciuta: la “potenza del braccio” è un termine che si riferisce agli avvenimenti di cui fu testimone Mosè e tutto il popolo di Israele in Egitto, alla distruzione dell’esercito di quel Paese sulle rive del mar Rosso, così come la frase relativa al “rovesciamento dei potenti e all’innalzamento degli umili” può lasciar pensare alle vicende non solo dello stesso Mosè, ma anche degli altri uomini come Davide, Giuseppe figlio di Giacobbe, Daniele e lei stessa.
La dispersione dei superbi “nei pensieri del loro cuore” è interessante sia per il verbo usato che per le estensioni possibili della parola “cuore”. Il verbo greco impiegato per “disperdere” ha riferimento allo sparpagliare il grano come atto di seminare, ma anche al vagliarlo, mentre il cuore non ci parla solo dell’organo considerato la sede dei sentimenti e degli affetti, ma soprattutto di ciò che abbiamo di più caro: “Dove sarà il tuo tesoro, qui sarò anche il tuo cuore” (Matteo 6.21) e “la bocca parla di ciò che sovrabbonda nel cuore” (Luca 6.45). C’è quindi una frantumazione che attende il superbo, cioè colui che è assolutamente convinto della propria superiorità sugli altri che tratta con arroganza e disprezzo. Chi è affetto da questa patologia vede solo se stesso e i suoi interessi, quindi pensa che il mondo e il suo prossimo debbano essere al suo servizio. C’è connessione tra l’essere superbi e l’essere ricchi perché chi è ricco, salvo eccezioni, fa affidamento sulle sue sostanze che usa a proprio piacimento per soddisfarsi e le considera – come effettivamente sono per la nostra società umana – le basi su cui costruire la propria persona: la ricchezza è fondamentalmente un metodo di azioni, di sussistere; senza di essa il ricco non è nulla, tutte le sue aspettative fanno riferimento a lei. In lei e con lei si sente al sicuro e molto difficilmente attribuisce valore ad altro. “Ha rimandato i ricchi a mani vuote” implica la nullità del valore delle loro sostanze sotto la prospettiva dell’eternità: “Guai a voi, ricchi, perché già avete ricevuto la vostra consolazione” (Luca 6.24).
Maria conclude poi il proprio cantico in modo perfetto dichiarando apertamente, sotto la rivelazione dello Spirito Santo, che quello e non altri era il tempo in cui si stava per adempiere la promessa fatta “ad Abrahamo e a tutta la sua progenie per sempre”, ricordandosi delle parole che Gabriele le aveva detto in casa sua: “…e regnerà sulla casa di Giacobbe nei secoli e non ci sarà fine nel suo regno” (v.33).
A questo punto Luca annota “E Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi, poi se ne tornò a casa sua”. Ecco, questo particolare è interessante: Maria rimane con Elisabetta, suppongo, fino a poco tempo prima che sua cugina partorisse se non addirittura fino alla nascita di Giovanni Battista (ma Luca non lo dice), cioè fino a quando la gravidanza di Maria, circa al terzo mese, stava per essere fisicamente visibile. Nulla sappiamo su come abbia trascorso questo tempo. Si può supporre che molti siano stati i dialoghi su quanto avvenuto tra lei e la cugina che era andata a trovare proprio per avere delle risposte o conferme, non senza che Zaccaria intervenisse a gesti o scrivendo su una tavoletta. E purtroppo non abbiamo, come per Beethoven, i “Konversationshefte” con gli amici che usava quando era ormai quasi completamente sordo. Mi riesce difficile pensare che la madre di Gesù si sia allontanata proprio pochi giorni prima che la cugina partorisse, senza attendere con lei quell’evento così importante. Lascio la questione aperta; certo è che tornandosene a casa sua a Nazareth Maria sapeva che avrebbe dovuto annunciare la propria gravidanza a Giuseppe, suo futuro marito. Poteva fare questo solo affidandosi alle promesse di Dio: “Non temere”. Non era un’esortazione umana come molti fanno al loro prossimo, solitamente affidandosi genericamente a un futuro che non conosono nella speranza di sollevare un animo turbato o timoroso di qualcosa: nel nostro caso e in tutti gli altri che troviamo nella Bibbia, il “Non temere” – o il “Non temiate” – proviene direttamente da Dio, presente e Signore della vita dell’uomo. Di raccontare quanto avverrà tra Maria e Giuseppe due sarà l’apostolo ed evangelista Matteo.
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