“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2 Egli era, in principio, presso Dio: 3 tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. 4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. 6Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. 7Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce. 9Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 10Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. 11Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. 12A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13i quali, non da sangue
né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 14E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.”
La lettura del Vangelo si può iniziare in vari modi: se partiamo dall’ordine del canone, Matteo è quello che troviamo per primo e da lui possiamo proseguire passando poi a tutti gli altri; così facendo incontriamo la genealogia di Gesù Cristo da parte di Giuseppe che poi Luca compilerà, nel terzo capitolo del suo Vangelo, presentandoci quella di Maria. Potremmo però scegliere di iniziare da un riferimento storico e in questo caso il punto di partenza sarebbe Luca: dopo la dedica iniziale a Teofilo – Sommo Sacerdote in Gerusalemme dal 37 al 41 – ed aver spiegato i metodi d’indagine che caratterizzeranno il suo scritto, colloca il primo episodio in un’epoca precisa, cioè “Al tempo di Erode, re della Giudea” (Luca 1.5).
C’è poi Giovanni, autore particolarissimo, che scrive un prologo fondamentale dal punto di vista teologico che, andando al di là del suo tempo, si raccorda a quel “In principio” con cui si apre il libro della Genesi. Personalmente ritengo che il Vangelo, inteso non come una serie di libri biografici ma come “buona notizia”, “lieto annunzio” per ogni uomo, inizi proprio da qui, con le parole oggetto della nostra meditazione.
Giovanni inizia il suo scritto citando ed elaborando le parole di un inno in uso nella Chiesa cristiana del tempo, fornendoci in un solo verso quella che definisco la terza genealogia di Gesù dopo le due ufficiali che abbiamo: si tratta di una genealogia esclusivamente divina racchiusa in un solo verso che non parla di altro all’infuori dell’Essere. In principio, prima che fosse dato l’ordine “Sia la luce”, il “Verbo”, tradotto anche come “Parola” o “Logos”, esisteva. L’apostolo Giovanni quindi in questi primi versi rivela qualcosa che altrimenti non sapremmo: il Logos, in cui io vedo la sillaba centrale di Ye-Ho-WaH, in quanto tale non solo ha partecipato attivamente alla creazione, ma l’ha anche motivata; “Logos” nel significato più ampio del termine che nel pensiero ellenistico alludeva alla parola, all’emanazione e alla mediazione divina. Ciò si raccorda a quanto scrive l’autore della lettera agli ebrei che afferma: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e tutto sostiene con la sua parola potente.” (Ebrei 1.1-3). Ancora, secondo Paolo, “Egli è l’immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Colossesi 1.15,16).
Ecco, questo è il “Logos” rivelato nella persona e nell’opera di Gesù Cristo. Questo è il “Logos” che, a parte il suo primo significato di “Parola”, in lingua greca comprende i termini di “facoltà intellettiva, intelligenza, giudizio, regola, ragione delle cose, causa, motivo”. In principio, quindi, c’era questa entità in cui “era la vita”, cioè la Fonte Unica, diversa da come la intende la nostra biologia. Pensiamo all’essere umano che possiamo dire viva quando ha possibilità di agire e scegliere come persona, individuo. Tutto ciò vale per quanto può fare nel suo ambito terreno, ma la “vita” di cui parlano tanto l’evangelista quanto Genesi ha connessione col momento in cui fu creato Adamo, punto culminante e fine del creato: “Allora il signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo – gli atomi – e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Genesi 2.7). Quando fu formato e fino al momento in cui emerse l’incompatibilità col giardino realizzato per lui, Adamo era molto diverso da come siamo oggi perché la sua “vita” trovava ogni ragione e realizzazione in Eden assieme al suo Creatore che vedeva e col quale si relazionava liberamente. Adamo e sua moglie erano puri, la loro vita era nella luce e possiamo ipotizzare che, per l’”alito” ricevuto e la reciprocità del rapporto con Dio, fossero luce loro stessi. Trovavano nutrimento nell’albero della vita al centro del giardino. “Io sono la via, la verità e la vita”.
Abbiamo letto al quarto verso “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”, verbo al passato che si riferisce a tutto il periodo che i nostri progenitori trascorsero in Eden, nella regione che l’ebraico indica con “Gan”, cioè “luogo chiuso in un recinto” (i quattro fiumi che lo delimitavano). Quella “vita” era “la luce degli uomini”, cioè li orientava nella giusta direzione, dava loro uno scopo in un cammino di perfezione e realizzazione nello spazio di eternità che caratterizzava quel luogo. Purtroppo, entrambi quegli elementi andarono perduti nel momento in cui Adamo ed Eva sostituirono la “luce vera” con un’altra che la sopperisse. Fu una luce artificiale, risiedente nell’inganno del diventare come Dio, nel desiderare ciò di cui non avevano bisogno, ma soprattutto ciò per cui non erano stati fatti.
Si sostituì allora la luce della conoscenza divina con quella della conoscenza umana. Risultato: l’uomo anche oggi non è in grado di vedere le cose secondo una giusta realtà e prospettiva spirituale, di valutare correttamente quella vita che non è la sola occupazione di uno spazio fisico come avviene spesso. Si esiste, ma non si vive.
Tornando ai nostri versi: questa luce, che risplende nelle tenebre, non è stata vinta perché, come dal “Sia la luce” iniziarono le sei ere della creazione, la luce di Cristo per la salvezza dell’uomo fu rivelata con la Sua predicazione ed opera, poi confermata con la risurrezione. Una delle prime profezie che esamineremo nelle prossime riflessioni riguarda proprio l’identificazione di Cristo con la luce: “Il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata” (Matteo 4.16 che cita Isaia 9.1).
A questo punto l’inno di Giovanni subisce una variazione e si sposta sulla persona del Battista, distinguendolo dalla luce vera. Osserviamo ora i tempi dei verbi utilizzati, “era” per il Verbo, “venne” per l’ultimo profeta dell’Antico Patto: qui l’imperfetto denota un’esistenza continua e fuori dal tempo umano e terreno, mentre l’aoristo greco, tradotto in italiano con “venne”, indica tre avvenimenti accaduti in un preciso momento storico: 1. “venne un uomo mandato da Dio; il suo nome era Giovanni”, 2. “(il verbo) venne fra i suoi – il popolo di Israele -, e i suoi non l’hanno ricevuto”, 3.“il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. C’è quindi, nei diversi tempi verbali, una contrapposizione tra l’eternità e i periodi umani. Giovanni Battista, la cui storia e funzione esaminerò per quanto mi è stato dato, l’ultimo profeta dell’Antico Patto di cui Gesù disse che “Tra i nati di donna non è sorto uno più grande” (Matteo 11.11), fu suscitato da Dio per invitare il popolo di Israele al ravvedimento in vista della venuta del Logos che rimase per lo più inascoltato.
Il Battista doveva “dare testimonianza della luce”, quella “vera, che illumina ogni uomo” e, nell’uso ebraico, “vero” caratterizza l’ordine divino che contraddistingue quello fallace e illusorio dell’uomo peccatore: “Sia chiaro che Dio è veritiero, mentre l’uomo è peccatore” (Romani 3.4). In Cristo c’è quindi la verità totale e unica mentre l’uomo ne ha molte altre, diverse, tutte alternative a Lui. Gesù e Gesù solo è la luce che illumina ogni uomo, naturalmente se questi Lo accetta, Lo riconosce, Lo accoglie.
“Una voce dice: «Grida», e io rispondo: «Che cosa dovrò gridare?». «Grida che ogni uomo è come l’erba e tutta la sua grazia è come il fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando soffia su di essi il vento del Signore. Veramente il popolo è come l’erba. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre»” (Isaia 40.6-8). Ecco la “Parola”, il Logos” che dura in eterno, contrapposta alla vita umana alla quale è data una scadenza che nessuno conosce. Il “fiore del campo” ci suggerisce l’idea di qualcosa che, per quanto bello, vive per se stesso, per la propria sopravvivenza, per riprodurre altra erba che fiorirà, appassirà a sua volta in un ciclo che si ripeterà in continuazione, circondato da altri fiori come lui. Eppure questo “fiore di campo” metaforico, a differenza di quello naturale, ha la possibilità di scegliere, di accogliere: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. “Potere” e “diventare” stanno ad indicare un qualcosa di impossibile, uno stato irraggiungibile per la natura stessa dell’essere umano corrotto dalla sua condizione di peccato: non si dà a qualcuno un potere a meno che non ce l’abbia, non si può “diventare” qualcosa senza un percorso, un processo, una possibilità che venga data. Infatti “ha dato il potere di diventare figli di Dio a quelli che credono nel Suo Nome”, a loro e a nessun altro. E qui sta il significato del Vangelo, della “buona notizia”: Gesù non venne nel mondo come rivoluzionario, non fu un predicatore di un amore generalizzato che avrebbe dovuto realizzare la pace e la fratellanza sulla terra; “ama il tuo nemico” o “porgi l’altra guancia” sono frasi che vanno inquadrate nello specifico del discorso della montagna e quindi raccordate alla realtà cristiana di oggi.
Quelli che hanno ricevuto il potere di diventare figli di Dio hanno acquisito uno stato nuovo, totalmente diverso perché il verso 13, “i quali non da sangue né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”, sottolinea ancora di più il dono della trasformazione avvenuto in chi lo ha accolto: si tratta, a differenza di quelli che possediamo per natura, di elementi intrasmissibili perché “Non da sangue – la genetica, il DNA – non da volere di carne né da volere di uomo – perché c’è chi nasce per un incidente occorso in una congiunzione carnale e chi è stato desiderato da un padre e una madre – “ma da Dio sono stati generati”. Ci sono sempre l’amore, la volontà e la scelta di Dio dietro ogni anima salvata.
Giovanni però va oltre e ci presenta, al verso 14, un richiamo importante indirizzato in particolare agli ebrei: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Si tratta di una pericope sulla quale tendiamo a sorvolare perché chi crede in Cristo sa che si fece uomo e quindi, leggendola, passa oltre; in realtà quel “venne ad abitare” è un messaggio molto importante perché ha connessione con il libro dell’Esodo e col Santuario, o Tenda del Convegno, di cui leggiamo “Essi mi faranno un santuario ed io abiterò in mezzo a loro” (Esodo 25.8), oppure Numeri 35.34 dove, dopo un lungo elenco di norme, Dio disse “Non contaminerete dunque la terra che andate ad abitare e in mezzo alla quale io dimorerò, perché io sono il Signore che abita in mezzo agli israeliti”. Se Colui che è definito nell’ebraismo “Il Santo, che sia benedetto” abitava in mezzo al popolo soccorrendolo e giudicandolo, il Logos, il Verbo, la Parola, “venne ad abitare in mezzo a noi” dopo essersi fatto carne, quella carne che non è cattiva di per sé, che non è l’antitesi totale di Dio, ma che rappresenta tutto ciò che è transitorio, mortale, imperfetto e, apparentemente, incompatibile con Lui. Precisazione necessaria: l’incompatibilità della carne è totale nel momento in cui pensa solo a se stessa, ma quando l’essere umano nasce da Dio, essa diventa solo un peso, un elemento penalizzante senza però eliminare la possibilità di un rapporto con lui. Se la negatività della carne fosse assoluta, l’uomo non sarebbe mai stato assistito e soccorso. Diverso è appunto quanto è l’elemento carnale a prendere il sopravvento e domina azioni, aspettative e desideri di realizzazione: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del suo cuore non era altro che male, sempre” (Genesi 6.5), constatazione preludio al diluvio.
Scrivendo che “La Parola si fece carne”, poi, Giovanni colpisce il docetismo e il monofisismo che iniziavano a farsi strada nel mondo cristiano: il primo sosteneva che l’umanità di Gesù e le sue sofferenze fossero state illusorie perché in lui non potevano convivere la natura umana e quella divina; il secondo, che emerse ufficialmente nel V secolo ma iniziava già a inquinare la dottrina cristiana di allora, affermava che la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina, la sola presente in lui. L’apostolo Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, estenderà le parole di Giovanni sulla “Parola fatta carne” andando nel dettaglio: “Noi non abbiamo un Sommo Sacerdote che non possa prendere parte alle nostre debolezze, ma uno che è stato tentato in ogni cosa come noi, senza però commettere peccato” (Ebrei 4.15).
Tornando ora al passo oggetto di riflessione, a questo punto Giovanni si pone il problema di dare autorità a quanto sta per scrivere e non poteva trovare modo migliore se non precisando di essere stato testimone, con altri, degli eventi che sta per narrare: “Noi abbiamo contemplato la sua gloria”, termine che si riferisce all’insegnamento, alle manifestazioni prodotte quando Gesù era in terra, alla trasfigurazione di cui fu testimone con Pietro e Giacomo, a tutta la Sua opera culminata con la resurrezione dopo la morte. Proprio la resurrezione è stata a convincermi un giorno che l’unica mia fede, intesa come centro e scopo di vita, non poteva basarsi che su quel Gesù crocifisso, morto e risuscitato: se non fosse avvenuta la resurrezione, gli apostoli e i discepoli se ne sarebbero tornati alle loro professioni, delusi come i due discepoli sulla via di Emmaus che dissero “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Luca 24.21). Nessuno di loro avrebbe dato la propria vita per un morto.
Il Vangelo, se vissuto correttamente, non dà guadagni e non consente di accumulare ricchezze, per lo meno materiali, e quindi nessuno potrebbe mai credere in una persona per sentito dire affrontando il martirio o le persecuzioni come avvenuto e purtroppo avviene. Le ragioni del mio credere, del mio accoglimento della Parola, iniziarono proprio da qui, riconoscendo la “gloria” contemplata da Giovanni. Poi vennero le indagini personali, i riscontri, l’ascolto. E non mi sono mai ricreduto.