01.01- ERODE, ZACCARIA, ELISABETTA (Luca 1.5-6)

01.01- Erode, Zaccaria, Elisabetta (Luca 1.5-6)

5Al tempo di Erode, re della Giudea, vi era un sacerdote di nome Zaccaria, della classe di Abia, che aveva in moglie una discendente di Aronne, di nome Elisabetta”. 6Ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore”.

                 Nella riflessione precedente abbiamo accennato a come, per iniziare la lettura dei Vangeli, siano possibili delle alternative al prologo di Giovanni citando Matteo e Luca: il primo inizia dalla dignità regale di Gesù con una genealogia che parte da Abramo e il secondo, dopo la dedica a Teofilo – Sommo Sacerdote in Gerusalemme dal 37 al 41 – e una breve introduzione in cui illustra i metodi di indagine che caratterizzeranno la sua opera, colloca storicamente il suo primo episodio, l’annuncio dell’angelo Gabriele a Zaccaria.

Con le parole “Al tempo di Erode, re della Giudea” Luca ci pone negli anni tra il 40 a.C. e il 4 d.C. ma dobbiamo tener presente che, quando si parla di date, queste non possono essere prese con assoluta certezza stante l’errore di calcolo che commise Dionigi il Piccolo nel 525 d.C.: monaco sciita in Roma, Dionigi venne incaricato da Papa Giovanni I di stabilire una data per la Pasqua che, fin dal III secolo, veniva ricordata in tempi differenti dalla Chiesa d’Oriente e da quella d’Occidente. Per questo calcolo, molto complesso in cui non entro nei dettagli, Dionigi il Piccolo non volle contare gli anni, come in uso a quel tempo, a partire dal giorno in cui Diocleziano salì al trono e lasciò scritto così: “Non vogliamo che nei nostri calcoli c’entri in alcun modo la persona di un persecutore, ma piuttosto che occorra prendere in considerazione la nascita di Nostro Signore Gesù Cristo”. Dionigi stabilì così che il Salvatore fosse nato nell’anno 1 facendolo coincidere col 753 dalla fondazione di Roma, ma sbagliò di almeno quattro anni. Tenere presente questo errore è importante perché, consultando dei testi storici, ci potrebbero essere delle discrepanze che potrebbero disorientare.

Altra considerazione su “Al tempo di Erode” va fatta sul personaggio che, coi suoi eredi, domina la scena evangelica in una sorta di “dietro le quinte”, emergendo a volte in tutta la sua brutalità. Non è un personaggio che possiamo ignorare perché è il primo a venire citato storicamente dopo Teofilo, se iniziamo il nostro viaggio a partire da Luca.

Al tempo di Erode” è allora la scena di apertura che allude ad un’epoca molto triste per gli ebrei: Israele si trovava sotto il dominio straniero ed era senza profeti da circa 430 anni, tanti sono quelli che separano Malachia, ultimo dell’Antico Patto che conclude il suo scritto con la parola “sterminio”, da Giovanni Battista, che funge da spartiacque tra Antico e Nuovo.

Capire Erode, che non fu migliore o peggiore rispetto ai tanti re, imperatori o “guide” che hanno governato regioni più o meno estese del pianeta in ogni tempo, è necessario anche se si tratta di una figura non certo edificante. Quasi tutte le notizie che abbiamo su di lui ci provengono da Giuseppe Flavio, storico nato nel 37 a.C. a Gerusalemme, autore delle “Guerre Giudaiche” e delle “Antichità Giudaiche”.

 

Il padre di Erode, Antipatro, era ministro di Ircano II re di Giudea membro della dinastia degli Asmonei e, col favore di Giulio Cesare, riuscì ad usurpare l’autorità del suo principe ed essere nominato amministratore della regione. Quando Antipatro fu assassinato nel 43 (o nel 44) a.C., gli successero i figli Fasaele, descritto come nobile e coraggioso che divenne governatore della Galilea fino al 40 a.C., ed Erode, cui fu data la Giudea con Gerusalemme. Erode, detto il Grande, fu un politico astuto che favorì prima Marco Antonio e poi, dopo la di lui sconfitta ad Anzio nel 31, fece subito visita al suo rivale Ottaviano a Rodi togliendosi la corona in sua presenza e giustificandosi dell’appoggio dato ad Antonio, ma gli venne restituita e, con decreto, gli fu riconfermato il potere con godimento di autonomia interna e di libertà dai tributi a Roma, restando a lei soggetto nelle questioni di guerra e di politica estera. A Roma salì così sul Campidoglio per offrire sacrifici di ringraziamento a Giove Capitolino.

Gli anni dal 37 al 25 furono utili ad Erode soprattutto per consolidare il suo potere e furono caratterizzati dalla fredda, sistematica eliminazione di chiunque avrebbe potuto contestare o contrastare la sua autorità; ricordiamo fra i tanti il sedicenne Aristobulo III che in precedenza aveva nominato sommo sacerdote, fatto affogare in una piscina; ricordiamo come sue vittime anche Giuseppe, marito di sua sorella Salome, Ircano II, la moglie Mariamme e la suocera Alessandra. La sua crudeltà, fondata su un’ambizione insaziabile, era notoria ed era circondato da intrighi e cospirazioni che lo fecero combattere per la sua stessa sopravvivenza.

Gli anni dal 25 al 13 furono dedicati alla promozione culturale del suo regno, finanziata soprattutto con le tasse: favorì il culto dell’imperatore e, per rendere grandiosa la celebrazione quadriennale che si faceva, provvide alla costruzione di templi in suo onore, teatri, ippodromi, palestre, bagni e nuove città. A Gerusalemme edificò un teatro, un anfiteatro, parchi, giardini, fontane, un palazzo reale e la fortezza Antonia per poi procedere, nel tentativo di ingraziarsi il favore del popolo, alla magnifica costruzione di quel Tempio che, quanto ai cortili, fu completato verso il 63 d.C., otto anni prima che le truppe romane lo distruggessero nel 70. Fuori da Gerusalemme costruì Sebaste in onore di Augusto, con un tempio a lui dedicato, Cesarea Marittima col porto; edificò fortezze tra le quali quella di Macheronte, in cui sarà imprigionato Giovanni Battista, e Masada. Nonostante fosse re dei Giudei – ricordiamo le parole dei Magi “Dov’è il re dei Giudei che è nato?” che lo sconvolsero – non riuscì mai a guadagnarsi il loro appoggio in quanto, essendo idumeo, era disprezzato salvo che dagli “Erodiani”, corrente politica citata da Matteo e Marco.

Abbiamo infine il periodo dagli anni dal 13 a.C. al 4 d.C. che furono caratterizzati da conflitti famigliari interni: aveva sposato dieci mogli e col tempo ne aveva ripudiate alcune assieme ai loro figli. Una reale preoccupazione gli venne dai due nati da Mariamme, Alessandro e Aristobulo, che uccise nell’anno 7 a.C. assieme a 300 ufficiali accusati di parteggiare per loro. La sua ultima malattia fu terribile: Flavio Giuseppe scrive “Tutto il suo corpo fu preda della malattia, diviso tra varie forme di mali; aveva una febbre non violenta, un prurito insopportabile su tutta la pelle e continui dolori intestinali, gonfiori ai piedi come per idropisia, infiammazione all’addome e cancrena dei genitali con formazione di vermi, e inoltre difficoltà a respirare se non in posizione eretta, e spasmi di tutte le membra” (Guerre Giudaiche 1, 656). Cinque giorni prima di morire fece uccidere il primogenito Antipatro, da lui già designato erede al trono. Mentre era malato si sparse la voce che fosse morto e immediatamente due legali giudei colsero l’occasione per incitare il popolo ad abbattere l’aquila d’oro che stava sul Tempio di Gerusalemme: Erode lo seppe e si vendicò ordinando che fossero bruciati vivi.

Si potrebbe osservare, dopo questo elenco di nefandezze, che quanto scritto mal si adatti ad una “lectio” che, per gli scopi che si prefigge, dovrebbe avere solo temi edificanti; credo però che anche i dati negativi siano utili per capire alcune circostanze anche perché, se così non fosse, i libri storici della Bibbia si limiterebbero a non illustrare le azioni dei personaggi di cui è detto “Fece ciò che è male agli occhi del Signore”. Erode, morto nell’anno 4, non può essere solo un nome legato alla strage degli innocenti, fatto di cui il solo Matteo parla probabilmente perché, a fronte dei crimini commessi e di cui ho riportato una parte, appare un episodio paradossalmente trascurabile: erano figli del popolo, di persone umili, “poca cosa” rispetto alla gente “importante” che fece uccidere.

 

Al nome di Erode, che significa “discendente da eroi”, si contrappone quello di Zaccaria, “Dio si ricorda” o “si è ricordato”, sacerdote “della classe di Abia”. Anche qui è importante sviluppare il personaggio, cosa che faremo nel prossimo studio, per ora limitandoci agli stretti dati che ci fornire Luca nei versi oggetto di riflessione.

Zaccaria apparteneva all’ottava classe sacerdotale discendente da Abia, uno dei 24 nipoti del primo sommo sacerdote di Israele, Aaronne, fratello di Mosè. L’istituzione delle classi sacerdotali risaliva ai tempi di Davide quando, dovendo organizzarle, “…assieme con Sadoc dei figli di Eleazaro e con Achimelec dei figli di Itamar, li divise in classi secondo il loro servizio. (…) La prima sorte toccò a Ioiarib, la seconda a Iedaia, la terza a Carim, la quarta a Seorim, la quinta a Malchia, la sesta a Miamin, la settima ad Akkos, l’ottava ad Abia… (…). Queste furono le classi secondo il loro servizio, per entrare nel Tempio del Signore secondo la regola stabilita dal loro antenato Aaronne, come gli aveva ordinato il Signore, Dio di Israele” (1 Cronache 24.3-19).

Zaccaria, come è scritto, “aveva in moglie una discendente di Aaronne, di nome Elisabetta”, cioè “Dio ha giurato”, oppure secondo altri “Dio è perfetto”: il figlio che sarebbe nato da loro non solo avrebbe avuto una discendenza autorevole tanto da parte di padre che di madre, ma sarebbe stato il risultato di un’unione che avrebbe implicato ricordo e giuramento, o ricordo e perfezione. Poiché i nomi sono indice di “predisposizione a”, ma non sempre garantiscono un reale compiersi del loro significato, ecco che Luca specifica l’atteggiamento interiore di entrambi i genitori, “giusti davanti a Dio, camminando in tutti i comandamenti e leggi del signore senza biasimo”: “biasimo” di chi? Così erano reputati dai loro simili, ma soprattutto “senza biasimo” erano considerati da quel Dio che servivano ciascuno secondo le proprie possibilità.

Diversamente dai farisei che incontreremo, che si ritenevano giusti ma Luca in 16.15 definisce “attaccati al denaro”, i due coniugi erano fiduciosi in Dio per il compimento delle Sue promesse ed erano sempre disposti ad essere guidati dalla Sua volontà. Il loro cioè non era un atteggiamento formale, ma simile a quello di Abrahamo, che “…credette a Dio e ciò gli fu messo in conto di giustizia”. Zaccaria ed Elisabetta quindi si distinguevano dagli altri loro contemporanei per una vita condotta in modo consono all’attesa del Messia promesso ad Israele, aspettavano e amavano la Fonte dalla quale sarebbe giunto un giorno.

Sono due gli atteggiamenti che una persona può assumere davanti a Dio, quando non lo rifiuta a priori: uno è formale e un altro profondamente interiore, come dimostrato nella parabola del giovane ricco, convinto di essere un “giusto” perché osservava i comandamenti fin dalla sua giovinezza, che però si ritrasse da Gesù nel momento in cui fu invitato ad abbandonare le sue sostanze per darle ai poveri e seguirlo (Marco 10.17-30). La Legge andava osservata, ma a nulla sarebbe servito senza l’amore per il Signore “con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”.

Concludendo, Luca ci presenta tre personaggi: Erode, il “discendente da eroi”, uomo potente, gestore per il tempo concessogli di molte vite altrui, che scelse di servire se stesso finendo tra gli spasmi di una malattia implacabile, figura della “morte seconda”, quella vera, che avrebbe sperimentato. Qui viene in mente la frase che molti conoscono, ma su cui sorvolano: “Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi si perde o rovina se stesso?” (Luca 9.25). È il “se stesso”, tradotto anche con “la sua anima” che sopravvive alla morte che non è la fine di tutto, ma un passaggio che trova nell’oltre la retribuzione di ciò che avremo fatto in vita, in bene o in male. Chiediamoci quanti Erode esistano oggi, che vivono nel rancore, nel sospetto, nella dissolutezza e, pur non facendo uccidere gli avversari, li condannano alla morte civile. Erodi moderni, senza neppure le manie di grandezza suggerite della mitologia greca, che stringono e sciolgono alleanze per ingrandirsi ad ogni livello: politico, industriale, economico, criminale, poteri spesso intrecciati tra loro, ma che inevitabilmente dovranno constatare la propria rovina nel momento in cui scopriranno di avere sbagliato meta, prospettiva, finalità. L’amore per noi stessi non ci porterà mai da nessuna parte, saremo sempre e soltanto soli, magari senza rendercene conto.

Opposte al “discendente da eroi” abbiamo due persone che, al di là degli aspetti che vedremo, testimoniano che nessuna delle promesse di Dio mancherà di avere un compimento: “Dio si ricorda” e “Dio ha giurato”. Perché “Tutte le le promesse di Dio sono in lui – Gesù Cristo – sì ed Amen alla gloria di Dio, per noi” (1 Corinti 1.20).

00.01 – IL PROLOGO (Giovanni 1.1-14)

“In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. 2 Egli era, in principio, presso Dio: 3 tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste. 4 In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; 5la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta. 6Venne un uomo mandato da Dio: il suo nome era Giovanni. 7Egli venne come testimone per dare testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. 8Non era lui la luce,
ma doveva dare testimonianza alla luce. 9Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. 10Era nel mondo e il mondo è stato fatto per mezzo di lui; eppure il mondo non lo ha riconosciuto. 11Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto. 12A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, 13i quali, non da sangue
né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. 14E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità.”

La lettura del Vangelo si può iniziare in vari modi: se partiamo dall’ordine del canone, Matteo è quello che troviamo per primo e da lui possiamo proseguire passando poi a tutti gli altri; così facendo incontriamo la genealogia di Gesù Cristo da parte di Giuseppe che poi Luca compilerà, nel terzo capitolo del suo Vangelo, presentandoci quella di Maria. Potremmo però scegliere di iniziare da un riferimento storico e in questo caso il punto di partenza sarebbe Luca: dopo la dedica iniziale a Teofilo – Sommo Sacerdote in Gerusalemme dal 37 al 41 – ed aver spiegato i metodi d’indagine che caratterizzeranno il suo scritto, colloca il primo episodio in un’epoca precisa, cioè “Al tempo di Erode, re della Giudea” (Luca 1.5).
C’è poi Giovanni, autore particolarissimo, che scrive un prologo fondamentale dal punto di vista teologico che, andando al di là del suo tempo, si raccorda a quel “In principio” con cui si apre il libro della Genesi. Personalmente ritengo che il Vangelo, inteso non come una serie di libri biografici ma come “buona notizia”, “lieto annunzio” per ogni uomo, inizi proprio da qui, con le parole oggetto della nostra meditazione.
Giovanni inizia il suo scritto citando ed elaborando le parole di un inno in uso nella Chiesa cristiana del tempo, fornendoci in un solo verso quella che definisco la terza genealogia di Gesù dopo le due ufficiali che abbiamo: si tratta di una genealogia esclusivamente divina racchiusa in un solo verso che non parla di altro all’infuori dell’Essere. In principio, prima che fosse dato l’ordine “Sia la luce”, il “Verbo”, tradotto anche come “Parola” o “Logos”, esisteva. L’apostolo Giovanni quindi in questi primi versi rivela qualcosa che altrimenti non sapremmo: il Logos, in cui io vedo la sillaba centrale di Ye-Ho-WaH, in quanto tale non solo ha partecipato attivamente alla creazione, ma l’ha anche motivata; “Logos” nel significato più ampio del termine che nel pensiero ellenistico alludeva alla parola, all’emanazione e alla mediazione divina. Ciò si raccorda a quanto scrive l’autore della lettera agli ebrei che afferma: “Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha stabilito erede di tutte le cose e mediante il quale ha fatto anche il mondo. Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e tutto sostiene con la sua parola potente.” (Ebrei 1.1-3). Ancora, secondo Paolo, “Egli è l’immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione, perché in lui furono create tutte le cose nei cieli e sulla terra, quelle visibili e quelle invisibili: Troni, Dominazioni, Principati e Potenze. Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Colossesi 1.15,16).
Ecco, questo è il “Logos” rivelato nella persona e nell’opera di Gesù Cristo. Questo è il “Logos” che, a parte il suo primo significato di “Parola”, in lingua greca comprende i termini di “facoltà intellettiva, intelligenza, giudizio, regola, ragione delle cose, causa, motivo”. In principio, quindi, c’era questa entità in cui “era la vita”, cioè la Fonte Unica, diversa da come la intende la nostra biologia. Pensiamo all’essere umano che possiamo dire viva quando ha possibilità di agire e scegliere come persona, individuo. Tutto ciò vale per quanto può fare nel suo ambito terreno, ma la “vita” di cui parlano tanto l’evangelista quanto Genesi ha connessione col momento in cui fu creato Adamo, punto culminante e fine del creato: “Allora il signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo – gli atomi – e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Genesi 2.7). Quando fu formato e fino al momento in cui emerse l’incompatibilità col giardino realizzato per lui, Adamo era molto diverso da come siamo oggi perché la sua “vita” trovava ogni ragione e realizzazione in Eden assieme al suo Creatore che vedeva e col quale si relazionava liberamente. Adamo e sua moglie erano puri, la loro vita era nella luce e possiamo ipotizzare che, per l’”alito” ricevuto e la reciprocità del rapporto con Dio, fossero luce loro stessi. Trovavano nutrimento nell’albero della vita al centro del giardino. “Io sono la via, la verità e la vita”.
Abbiamo letto al quarto verso “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”, verbo al passato che si riferisce a tutto il periodo che i nostri progenitori trascorsero in Eden, nella regione che l’ebraico indica con “Gan”, cioè “luogo chiuso in un recinto” (i quattro fiumi che lo delimitavano). Quella “vita” era “la luce degli uomini”, cioè li orientava nella giusta direzione, dava loro uno scopo in un cammino di perfezione e realizzazione nello spazio di eternità che caratterizzava quel luogo. Purtroppo, entrambi quegli elementi andarono perduti nel momento in cui Adamo ed Eva sostituirono la “luce vera” con un’altra che la sopperisse. Fu una luce artificiale, risiedente nell’inganno del diventare come Dio, nel desiderare ciò di cui non avevano bisogno, ma soprattutto ciò per cui non erano stati fatti.
Si sostituì allora la luce della conoscenza divina con quella della conoscenza umana. Risultato: l’uomo anche oggi non è in grado di vedere le cose secondo una giusta realtà e prospettiva spirituale, di valutare correttamente quella vita che non è la sola occupazione di uno spazio fisico come avviene spesso. Si esiste, ma non si vive.
Tornando ai nostri versi: questa luce, che risplende nelle tenebre, non è stata vinta perché, come dal “Sia la luce” iniziarono le sei ere della creazione, la luce di Cristo per la salvezza dell’uomo fu rivelata con la Sua predicazione ed opera, poi confermata con la risurrezione. Una delle prime profezie che esamineremo nelle prossime riflessioni riguarda proprio l’identificazione di Cristo con la luce: “Il popolo che giaceva nelle tenebre ha visto una gran luce; su quelli che dimoravano in terra e ombra di morte una luce si è levata” (Matteo 4.16 che cita Isaia 9.1).

A questo punto l’inno di Giovanni subisce una variazione e si sposta sulla persona del Battista, distinguendolo dalla luce vera. Osserviamo ora i tempi dei verbi utilizzati, “era” per il Verbo, “venne” per l’ultimo profeta dell’Antico Patto: qui l’imperfetto denota un’esistenza continua e fuori dal tempo umano e terreno, mentre l’aoristo greco, tradotto in italiano con “venne”, indica tre avvenimenti accaduti in un preciso momento storico: 1. “venne un uomo mandato da Dio; il suo nome era Giovanni”, 2. “(il verbo) venne fra i suoi – il popolo di Israele -, e i suoi non l’hanno ricevuto”, 3.“il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. C’è quindi, nei diversi tempi verbali, una contrapposizione tra l’eternità e i periodi umani. Giovanni Battista, la cui storia e funzione esaminerò per quanto mi è stato dato, l’ultimo profeta dell’Antico Patto di cui Gesù disse che “Tra i nati di donna non è sorto uno più grande” (Matteo 11.11), fu suscitato da Dio per invitare il popolo di Israele al ravvedimento in vista della venuta del Logos che rimase per lo più inascoltato.
Il Battista doveva “dare testimonianza della luce”, quella “vera, che illumina ogni uomo” e, nell’uso ebraico, “vero” caratterizza l’ordine divino che contraddistingue quello fallace e illusorio dell’uomo peccatore: “Sia chiaro che Dio è veritiero, mentre l’uomo è peccatore” (Romani 3.4). In Cristo c’è quindi la verità totale e unica mentre l’uomo ne ha molte altre, diverse, tutte alternative a Lui. Gesù e Gesù solo è la luce che illumina ogni uomo, naturalmente se questi Lo accetta, Lo riconosce, Lo accoglie.

“Una voce dice: «Grida», e io rispondo: «Che cosa dovrò gridare?». «Grida che ogni uomo è come l’erba e tutta la sua grazia è come il fiore del campo. Secca l’erba, il fiore appassisce quando soffia su di essi il vento del Signore. Veramente il popolo è come l’erba. Secca l’erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre»” (Isaia 40.6-8). Ecco la “Parola”, il Logos” che dura in eterno, contrapposta alla vita umana alla quale è data una scadenza che nessuno conosce. Il “fiore del campo” ci suggerisce l’idea di qualcosa che, per quanto bello, vive per se stesso, per la propria sopravvivenza, per riprodurre altra erba che fiorirà, appassirà a sua volta in un ciclo che si ripeterà in continuazione, circondato da altri fiori come lui. Eppure questo “fiore di campo” metaforico, a differenza di quello naturale, ha la possibilità di scegliere, di accogliere: “A quanti però lo hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio”. “Potere” e “diventare” stanno ad indicare un qualcosa di impossibile, uno stato irraggiungibile per la natura stessa dell’essere umano corrotto dalla sua condizione di peccato: non si dà a qualcuno un potere a meno che non ce l’abbia, non si può “diventare” qualcosa senza un percorso, un processo, una possibilità che venga data. Infatti “ha dato il potere di diventare figli di Dio a quelli che credono nel Suo Nome”, a loro e a nessun altro. E qui sta il significato del Vangelo, della “buona notizia”: Gesù non venne nel mondo come rivoluzionario, non fu un predicatore di un amore generalizzato che avrebbe dovuto realizzare la pace e la fratellanza sulla terra; “ama il tuo nemico” o “porgi l’altra guancia” sono frasi che vanno inquadrate nello specifico del discorso della montagna e quindi raccordate alla realtà cristiana di oggi.

Quelli che hanno ricevuto il potere di diventare figli di Dio hanno acquisito uno stato nuovo, totalmente diverso perché il verso 13, “i quali non da sangue né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”, sottolinea ancora di più il dono della trasformazione avvenuto in chi lo ha accolto: si tratta, a differenza di quelli che possediamo per natura, di elementi intrasmissibili perché “Non da sangue – la genetica, il DNA – non da volere di carne né da volere di uomo – perché c’è chi nasce per un incidente occorso in una congiunzione carnale e chi è stato desiderato da un padre e una madre – “ma da Dio sono stati generati”. Ci sono sempre l’amore, la volontà e la scelta di Dio dietro ogni anima salvata.
Giovanni però va oltre e ci presenta, al verso 14, un richiamo importante indirizzato in particolare agli ebrei: “Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi”. Si tratta di una pericope sulla quale tendiamo a sorvolare perché chi crede in Cristo sa che si fece uomo e quindi, leggendola, passa oltre; in realtà quel “venne ad abitare” è un messaggio molto importante perché ha connessione con il libro dell’Esodo e col Santuario, o Tenda del Convegno, di cui leggiamo “Essi mi faranno un santuario ed io abiterò in mezzo a loro” (Esodo 25.8), oppure Numeri 35.34 dove, dopo un lungo elenco di norme, Dio disse “Non contaminerete dunque la terra che andate ad abitare e in mezzo alla quale io dimorerò, perché io sono il Signore che abita in mezzo agli israeliti”. Se Colui che è definito nell’ebraismo “Il Santo, che sia benedetto” abitava in mezzo al popolo soccorrendolo e giudicandolo, il Logos, il Verbo, la Parola, “venne ad abitare in mezzo a noi” dopo essersi fatto carne, quella carne che non è cattiva di per sé, che non è l’antitesi totale di Dio, ma che rappresenta tutto ciò che è transitorio, mortale, imperfetto e, apparentemente, incompatibile con Lui. Precisazione necessaria: l’incompatibilità della carne è totale nel momento in cui pensa solo a se stessa, ma quando l’essere umano nasce da Dio, essa diventa solo un peso, un elemento penalizzante senza però eliminare la possibilità di un rapporto con lui. Se la negatività della carne fosse assoluta, l’uomo non sarebbe mai stato assistito e soccorso. Diverso è appunto quanto è l’elemento carnale a prendere il sopravvento e domina azioni, aspettative e desideri di realizzazione: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni intimo intento del suo cuore non era altro che male, sempre” (Genesi 6.5), constatazione preludio al diluvio.

Scrivendo che “La Parola si fece carne”, poi, Giovanni colpisce il docetismo e il monofisismo che iniziavano a farsi strada nel mondo cristiano: il primo sosteneva che l’umanità di Gesù e le sue sofferenze fossero state illusorie perché in lui non potevano convivere la natura umana e quella divina; il secondo, che emerse ufficialmente nel V secolo ma iniziava già a inquinare la dottrina cristiana di allora, affermava che la natura umana di Gesù era assorbita da quella divina, la sola presente in lui. L’apostolo Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, estenderà le parole di Giovanni sulla “Parola fatta carne” andando nel dettaglio: “Noi non abbiamo un Sommo Sacerdote che non possa prendere parte alle nostre debolezze, ma uno che è stato tentato in ogni cosa come noi, senza però commettere peccato” (Ebrei 4.15).
Tornando ora al passo oggetto di riflessione, a questo punto Giovanni si pone il problema di dare autorità a quanto sta per scrivere e non poteva trovare modo migliore se non precisando di essere stato testimone, con altri, degli eventi che sta per narrare: “Noi abbiamo contemplato la sua gloria”, termine che si riferisce all’insegnamento, alle manifestazioni prodotte quando Gesù era in terra, alla trasfigurazione di cui fu testimone con Pietro e Giacomo, a tutta la Sua opera culminata con la resurrezione dopo la morte. Proprio la resurrezione è stata a convincermi un giorno che l’unica mia fede, intesa come centro e scopo di vita, non poteva basarsi che su quel Gesù crocifisso, morto e risuscitato: se non fosse avvenuta la resurrezione, gli apostoli e i discepoli se ne sarebbero tornati alle loro professioni, delusi come i due discepoli sulla via di Emmaus che dissero “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute” (Luca 24.21). Nessuno di loro avrebbe dato la propria vita per un morto.
Il Vangelo, se vissuto correttamente, non dà guadagni e non consente di accumulare ricchezze, per lo meno materiali, e quindi nessuno potrebbe mai credere in una persona per sentito dire affrontando il martirio o le persecuzioni come avvenuto e purtroppo avviene. Le ragioni del mio credere, del mio accoglimento della Parola, iniziarono proprio da qui, riconoscendo la “gloria” contemplata da Giovanni. Poi vennero le indagini personali, i riscontri, l’ascolto. E non mi sono mai ricreduto.