11.06 – Il sordomuto della Decapoli (Marco 7.31-37)
31Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. 32Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. 33Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». 35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano 37e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
Anche per questo miracolo ci troviamo di fronte, relativamente all’itinerario seguito da Gesù, a dei dubbi che non vi sarebbero se accettassimo questa traduzione, in cui chiaramente entra nel territorio di Tiro e Sidone, scende percorrendo il litorale fino al territorio della Decapoli, allora gestito da Erode Filippo. Per la panoramica generale che queste riflessioni si propongono, però, è giusto far presente che altre versioni non si esprimono in questo modo: Diodati scrive “Poi Gesù, partitosi di nuovo dai confini di Tiro e di Sidone, venne presso il mare della Galilea, per mezzo i confini della decapoli”. Ciò è dovuto alla diversità tra i manoscritti in quanto alcuni hanno “dià Sidònos”, cioè “attraverso Sidone” ed altri “kài Sidònos”, “e Sidone”. Tra l’altro questo miracolo è narrato solo da Marco, per cui viene a mancare un confronto con altri evangelisti. A dire il vero, Matteo ci fornisce un particolare non da poco, e cioè che “Gesù si allontanò di là – dove la preghiera della donna siro fenicia era stata esaudita – e giunse presso il mare di Galilea e, salito sul monte, si fermò. Attorno a lui si radunò molta folla, recando con sé zoppi, storpi, ciechi, sordi e molti altri malati; li deposero ai suoi piedi, ed egli li guarì, tanto che la folla era piena di stupore nel vedere i muti che parlavano, gli storpi guariti, gli zoppi che camminavano e i ciechi che vedevano. E lodava il Dio d’Israele” (15.29-31). Marco, quindi, sceglie di narrare una, la più particolare, delle tante guarigioni che avvennero in quel luogo e fa passare in secondo piano una domanda che altrimenti sarebbe stata d’obbligo, cioè perché Gesù avesse guarito una sola persona.
Ecco allora che Nostro Signore, entrato nel territorio della Decapoli, viene riconosciuto e seguito dalla folla che si formò poco a poco al suo passaggio, fino a fermarsi su un monte, o collina, e lì gli portarono molti infermi, tra i quali un sordomuto. Qui è necessario sottolineare un particolare molto importante, e cioè che ci viene descritta la condizione di quell’uomo senza attribuirla alla presenza di uno spirito impuro: questo ci parla non dell’ignoranza – come molti sostengono – che faceva attribuire a Satana o ai suoi angeli qualunque condizione invalidante, ma del discernimento di chi ha redatto il Vangelo. Inoltre, l’assenza di un’attribuzione spirituale negativa al sordomuto, mette in guardia il credente dal generalizzare e vedere ovunque l’opera satanica, scendendo così nella superstizione.
A questo punto, allora, dobbiamo chiederci chi è un sordomuto, condizione dovuta, in linea di massima, al fatto che, perdendo l’udito entro i due anni di età o nascendo sorda, la persona, pur avendo un apparato fonico-articolatorio perfettamente integro, non è in grado di parlare perché, non sentendo i suoni, non sa riprodurli. Oggi, sottoponendosi a sedute di logopedia, il sordomuto può imparare ad esprimersi, per quanto con voce monotonale, e comprendere quanto gli viene detto leggendo le labbra dell’interlocutore o tramite il linguaggio dei segni; si tratta di procedure che, ai tempi di questo episodio, non erano conosciute. Il sordomuto di allora viveva una condizione estremamente penosa, non potendo capire ciò che gli si diceva, né scrivere, né leggere, condannato all’emarginazione.
Giunti a questo punto, esaminando i versi dal 32 in poi, gli elementi di riflessione sono davvero tanti e il primo lo troviamo nel comportamento degli amici, o parenti non sappiamo, di quell’invalido: “lo pregarono di imporgli la mano”, segno che consideravano Gesù per lo meno un profeta. La richiesta presentata si rifaceva ai tre significati fondamentali del gesto di imporre le mani nell’Antico Patto, poiché la mano, assieme alla parola, costituisce uno dei mezzi più espressivi del nostro linguaggio. L’imposizione delle mani è effettuata per trasmettere una benedizione, come fu per Giacobbe verso Efraim e Manasse, figli di Giuseppe (Genesi 48.14 e segg.) ed è un segno di consacrazione per indicare separazione, ricezione dello Spirito di Dio. Per dovere di cronaca va detto che abbiamo anche un terzo riferimento che è quello dell’identificazione tra chi offre una vittima in sacrificio e la vittima stessa, come più volte citato nel libro del Levitico (1.4; 3.2; 4.4) e in altri della Legge. Per quanto riguarda il tempo della Grazia, anche gli apostoli utilizzeranno quel gesto (Atti 3.6) a simboleggiare la trasmissione di una potenza che viene da Dio.
Amici o parenti del sordomuto volevano quindi che Gesù trasmettesse la sua benevolenza tramite quel gesto, ma vediamo che non viene trattato come gli altri infermi e, per prima cosa, “lo prese in disparte, lontano dalla folla”, segno che quanto sarebbe avvenuto avrebbe costituito qualcosa di preciso e profondamente individuale, che non doveva riguardare altri. Infatti, contrariamente a diversi miracoli, parte dei quali abbiamo già esaminato, Nostro Signore sostituisce il linguaggio dei gesti alla Sua parola perché altrimenti il sordomuto non avrebbe potuto capire ciò che stava avvenendo. Abbiamo così, ancora una volta, il chinarsi di Gesù verso l’uomo, immedesimandosi profondamente in lui e nelle sue sofferenze per fargli comprendere l’importanza e la portata dell’intervento che stava per compere passo dopo passo. Certo avrebbe potuto dire, ad esempio, “lo voglio, guarisci”, ma in tal modo il sordomuto avrebbe saputo solo dopo cos’era avvenuto. Gesù voleva quindi che quel percorso di guarigione fosse effettivamente compreso dalla persona così come nel caso del paralitico di Betesda: “Vuoi guarire?”.
Lontano dalla folla Nostro Signore compie tre azioni, la prima delle quali è porre a quell’uomo le dita nelle orecchie, chiaro rimando al “dito di Dio”, espressione usata per riconoscere il Suo intervento e potenza. La troviamo infatti per la prima volta in Esodo 8.15 quando i maghi del faraone, impossibilitati come in precedenza e replicare i miracoli di Mosè, gli dissero “È il dito di Dio”. Ancora, ricordiamo le tavole di pietra, “scritte dal dito di Dio” (31.18) e, per finire, la frase di Gesù “Se invece io scaccio i demòni col dito di Dio, allora è giunto a voi il suo regno” (Luca 11.20). Applicato al nostro episodio, allora, prima vengono toccate le orecchie, o meglio il foro del condotto uditivo, perché l’uomo prima di parlare deve ascoltare e comprendere, non viceversa.
Seconda azione, “con la saliva gli umettò la lingua”, gesto che potrebbe suscitare repulsione, ma che in quel caso era volto a far comprendere a quella persona che Gesù stava per trasferire la capacità di parlare anche il linguaggio di Dio e non uno qualunque. Come disse Pietro al medicante paralitico, “Non possiedo né oro, né argento, ma quello che ho, te lo do, alzati e cammina” (Atti 3.5). Nostro Signore, Parola di Dio, stava così per trasmettere a quell’uomo il dono della parola e, assieme ad essa, la capacità di parlare anche un linguaggio diverso. La lettura di questo miracolo è sicuramente quella di un’avvenuta guarigione, ma a noi parla del fatto che solo nel momento in cui Gesù opera direttamente e personalmente sull’uomo questo è in grado di ascoltare ed esprimersi proprio come quel sordomuto guarito di cui è detto che “parlava correttamente”. Si tratta di un miracolo che, come vedremo col cieco di Betsaida, ci parla di un percorso preciso, qui condensato in pochi istanti.
Alle azioni di Nostro Signore fin qui esaminate, ne seguono tre riferite alla Sua persona: alza “gli occhi al cielo”, sospira e parla in aramaico dicendo “Effatà, che vuol dire «Apriti»”. La prima è figura della preghiera e qui dobbiamo chiedercene la ragione, visto che operò altri miracoli per sua volontà diretta (abbiamo ricordato le parole “lo voglio, sii guarito” in Matteo 8.3), quasi che in questo caso fosse necessaria l’approvazione del Padre. Credo che, invece, questo sia stato un miracolo di collaborazione tra le due identità, vista la lode “Ha fatto ogni cosa bene: fa udire i sordi e fa parlare i muti”, che possiamo connettere a Isaia 35.6, “Allora si apriranno gli occhi ai ciechi e si schiuderanno le orecchie ai sordi. Lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto”. Nel caso di questo miracolo, allora, abbiamo Gesù come perfetto intercessore a differenza di quelli presunti che una parte del cristianesimo ha voluto proporre-imporre, deviando così le attenzioni e le preghiere che vanno dirette al Padre “nel nome” del Figlio.
Dopo aver rivolto gli occhi al cielo, abbiamo il sospiro che, ancora una volta, ci parla certamente dell’identificazione di Gesù con l’uomo, ma credo si rifaccia al momento della creazione, quando il “soffio” di Dio nelle narici dell’uomo lo rese “anima vivente”. Il “sospiro” di Gesù sta a significare che solo l’intervento del Dio Creatore può modificare una situazione non dovuta alla presenza di uno spirito impuro, ma di qualcosa che, presente dalla nascita, sarebbe altrimenti inguaribile, immodificabile. E allo stesso modo noi nasciamo col contrassegno ereditario del peccato che non potremmo mai eliminare senza un intervento diretto di Colui che per noi si è offerto in sacrificio. Vi è chi vede nel “sospirò” di Gesù, per il verbo greco utilizzato, un gemere pensando alla condizione di chi stava per guarire, e qui vale la pena di ricordare che, alla morte dell’amico Lazzaro, è scritto che “pianse” nonostante sapeva che lo avrebbe resuscitato. A tal punto arrivò in Lui l’identificazione con la penosa realtà e limiti dell’essere umano.
C’è poi l’ordine, “Effatà”, in aramaico, “Apriti”, che nessun altro avrebbe mai potuto pronunciare con il risultato che poi Marco, con il suo caratteristico “subito” riporta: “Gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della lingua e parlava correttamente” una lingua che mai aveva ascoltato, per cui abbiamo un miracolo nel miracolo.
Come già avvenuto in altri episodi, Gesù si raccomanda affinché la notizia di quanto appena avvenuto non fosse divulgata, ciò perché quella guarigione avrebbe dovuto essere constatata poco a poco: questo era il risultato di un’esperienza diretta, di un incontro col Figlio di Dio e non poteva essere qualcosa di paragonato ad una semplice guarigione pubblica senza che non se ne comprendesse il reale significato. Ricordiamo Isaia 50.5, “Il Signore m’ha aperto l’orecchio ed io non ho opposto nessuna resistenza” (50.5), parole che esprimono la precedenza dell’intervento di Dio sull’azione e che quando parla a un essere umano è a lui solo che si rivolge. Solo dopo questi passaggi-iinterventinsarà in grado di “parlare correttamente”.
Ancora, a proposito dell’ascolto, ricordiamo il messaggio “Chi ha orecchi, ascolti ciò che lo Spirito dice alle Chiese. Al vincitore darò della manna nascosta – cioè il cibo degli eletti – e una pietruzza – il nuovo documento di identità – sulla quale sta scritto un nome nuovo che nessuno conosce all’infuori di chi la riceve – perché la salvezza è personale –“ (Apocalisse 2.17). Amen.
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