07.24 – CINQUE CANTICI V.IV (Isaia 53.7-9)

7.24 – Cinque cantici V-IV (Isaia 53.7-9)

 

7Maltrattato si lasciò umiliare e non aprì la bocca. Era come un agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu messo a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno sulla sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con i dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli.

 

Il sacrificio del Servo (vv. 7-9) e le sue conseguenze (vv. 10-12) sono l’oggetto dell’ultima parte del quinto cantico. “Maltrattato si lasciò umiliare” è una frase che prende in esame tutto ciò che avvenne dall’arresto ai processi che subì, che furono quattro: il primo davanti al Sinedrio, il secondo davanti a Pilato (flagellazione) che lo mandò a Erode il quale a sua volta lo rinviò al governatore. È da notare come tanto nelle parole di Isaia quanto in quelle degli Evangelisti siano del tutto assenti frasi tendenti a suscitare facili sentimenti di orrore o compassione, ma vi sia una descrizione scarna, asettica: “Maltrattato si lasciò umiliare” perché avrebbe potuto benissimo non farlo. È, come anticipato, la cronistoria dal Suo arresto all’arrivo al Golgotha, parola aramaica che Matteo stesso dice “che significa luogo del cranio” (27.33). “Maltrattato” comprende quindi i quattro processi che Gesù subì in cui leggiamo, ad esempio, che “…mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani lo accusavano, non rispose nulla. Allora Pilato gli disse: «Non senti quante testimonianze portano contro di te?». Ma non rispose neanche una parola, tanto che il governatore rimase assai stupito” (26. 63,64).  I maltrattamenti di cui parla Isaia sono riferiti, facendo una sommaria cronologia, da Luca 22. 63-65 quando “prima del processo gli bendavano gli occhi e gli dicevano: «Fa’ il profeta: chi ti ha colpito?» e molte cose gli dicevano, insultandolo”. Davanti al Sinedrio abbiamo poi gli sputi in faccia, schiaffi e percosse varie (Matteo 26. 67,68), la flagellazione da Pilato (27.26; Marco 15.15), la corona di spine calcatagli sul capo con colpi di canna, corona non circolare come siamo abituati a pensare guardando l’iconografia medievale, ma del tipo orientale, cioè un copricapo integrale di spine che andava a perforare una zona estremamente vascolarizzata provocando dolori lancinanti e un’assai copiosa perdita di sangue.

C’è connessione con le parole di Geremia quando scrisse di sé “il Signore me lo ha manifestato e io l’ho saputo; mi ha fatto vedere i loro intrighi. E io, come un agnello mansueto che viene portato al macello, non sapevo che tramavano contro di me e dicevano: «Abbattiamo l’albero nel suo pieno vigore, strappiamolo dalla terra dei viventi, nessuno ricordi più il suo nome»” (11. 18,19). In particolare l’ultima frase, “nessuno ricordi più il suo nome”, rispecchia la volontà del Sinedrio, che voleva Gesù condannato sia fisicamente, ma soprattutto all’oblio. Ricordiamo anche tutti i tentativi da loro fatti per soffocare la Chiesa in Gerusalemme e ridurre al silenzio Pietro e Giovanni che là predicavano. Ancora oggi, leggendo le parole su di Lui nel Talmud – quello non censurato per motivi politici e di dialogo cosiddetto interreligioso – c’è da rabbrividire nel leggere le bestemmie tanto sulla Sua persona che su Sua madre e i cristiani.

Tornando alla cronaca della passione e sul “non aprì la bocca”, si potrebbe obiettare che sia un’affermazione non rispondente al vero, poiché Gesù disse delle cose, come ad esempio “D’ora innanzi vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire sulle nubi del cielo” (Matteo 26.64), ma Isaia si riferisce al parlare per maledire, cosa che non fece e che l’apostolo Pietro sottolinea con queste parole: “Cristo patì per voi lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca; insultato non rispondeva con insulti, maltrattato non minacciava vendetta, ma si affidava a colui che giudica con giustizia” (1 Pietro 2. 21-23).

La seconda parte del verso settimo presenta l’Agnello condotto al macello in cui vediamo il tragitto che gli fecero fare dal pretorio, cioè la fortezza Antonia di Gerusalemme dove risiedeva Pilato, al Calvario, in cui portò la croce che poi fecero trasportare da Simone di Cirene perché Gesù non era in grado di farlo. Occorre rilevare che l’iconografia che ci ha tramandato l’immagine di Nostro Signore, o Simone, che portano la croce con la forma che conosciamo non è corretta, poiché i romani, per loro comodità, erano usi tenere piantato il palo verticale giù terreno già pronto, facendo sì che il condannato arrivasse con quello orizzontale al patibolo.

L’immagine della “pecora muta di fronte ai suoi tosatori” ha poi connessione con “Dopo averlo deriso, lo spogliarono del mantello – di porpora secondo Marco 15.17 – e gli rimisero le sue vesti, poi lo condussero via per crocifiggerlo (Mt.27.31), vesti che poi si divisero tirandole a sorte. Non gli lasciarono nulla, come i tosatori con la pecora.

Proseguendo nella lettura del cantico incontriamo il verso ottavo, di difficile traduzione ma non comprensione, “Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo”: se l’oppressione è quella che abbiamo visto brevemente, a mo’ di panoramica, l’ingiusta sentenza è chiaramente quella della condanna a morte, che un blog ebraico rifiuta quanto a responsabilità di quel popolo, sostenendo che Gesù fu condannato e crocifisso dai romani e non da loro. Ricordiamo però che Pietro, parlando nel Tempio, disse “Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio dei nostri padri ha glorificato il suo servo Gesù, che voi avete consegnato e rinnegato di fronte a Pilato, mentre egli aveva deciso di liberarlo; voi invece avete rinnegato il Santo e il Giusto, e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l’autore della vita, ma Dio lo ha risuscitato dai morti; noi ne siamo testimoni” (Atti 3.13-15).

Ecco, questo “noi ne siamo testimoni” credo sia un efficace ponte storico con “l’ingiusta sentenza”, poiché per condannare a morte Gesù ci fu, da parte di coloro che avrebbero dovuto essere i custodi della Legge, un’affannosa ricerca di falsi testimoni, in oltraggio al comandamento “Non pronunzierai falsa testimonianza contro il tuo prossimo”. Infatti “I capi dei sacerdoti e tutto il sinedrio cercavano una falsa testimonianza contro Gesù, per metterlo a morte, ma non la trovarono, sebbene si fossero presentati molti falsi testimoni – che evidentemente non avrebbero retto un contraddittorio o di fronte ad un’indagine accurata –. Finalmente se ne presentarono due – il minimo legale – che affermarono: «Costui ha dichiarato: «Posso distruggere il tempio di Dio e ricostruirlo in tre giorni»»” (Matteo 26. 59-61).

La frase riportata dai due testimoni era vera solo in apparenza, poiché Gesù disse “Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere”, ma Giovanni annota “Ma egli parlava del tempio del suo corpo”. Poi, alla domanda di Caiafa ”Ti scongiuro, per il Dio vivente, di dirci se sei tu il Cristo, il Figlio di Dio” e alla risposta di Gesù “Tu lo dici” seguita dal verso sul Figlio dell’uomo venire sulle nubi del cielo, seguì l’accusa di bestemmia: “Che ve ne pare? E quelli risposero: «È reo di morte»” (Matteo 27. 62-67).

Credo che le parole “fu tolto di mezzo” rispecchino bene la fretta e la volontà acritica di tutti: la priorità infatti era quella di liberarsi di Gesù a prescindere: Luca scrive che “Pilato, riuniti i capi dei sacerdoti, le autorità e il popolo, disse loro: «Mi avete portato quest’uomo come agitatore del popolo. Ecco, io l’ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in quest’uomo nessuna delle colpe di cui voi lo accusate, e neanche Erode: infatti ce l’ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo punito – forse perché aveva turbato la sua tranquillità, o credendo di calmare gli animi dei presenti – lo rimetterò in libertà». Ma essi si misero a gridare tutti insieme «Togli di mezzo costui! – ecco Isaia – Rimettici in libertà Barabba». (…) Pilato parlò loro di nuovo, perché voleva rimettere in libertà Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo! Crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato in lui nulla che meriti la morte. Dunque, lo punirò e lo rimetterò in libertà». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso, e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta venisse eseguita” (23. 13-24) non prima di dichiararsi ufficialmente estraneo a quell’esecuzione lavandosi le mani in pubblico e dicendo “Sono innocente del sangue – attenzione – di questo giusto; pensateci voi” (Matteo 27.22).

Il verso ottavo si conclude con la domanda “Chi si affliggerà della sua posterità?”, cioè parafrasando: “A chi potrà importare il fatto che da lui non ci sarebbe stata una discendenza?”. E qui arriviamo a un punto interessante e particolare perché tutto il verso, a differenza degli altri, è enigmatico ed è stato tradotto in vari modi. Monsignor Antonio Martini, autore della Bibbia che ne porta il cognome, in una sua nota parla di “passo oscuro” e altri lo definiscono “crux interpretum”. Le versioni che confronteremo però, anziché creare confusione, ci consentono di estendere il significato e trovare nuove vie di comprensione e ciascuno di chi legge questo studio potrà fare le proprie riflessioni:

 

(Ricciotti:)

Dall’oppressione e dal giudizio fu tolto di mezzo: chi potrà narrare la sua generazione, che fu reciso dalla terra dei viventi, percosso dalle colpe del mio popolo?

(Luzzi:)

La morte lo liberò dall’angoscioso giudizio, e fra i contemporanei chi pensava che egli fosse strappato dalla terra dei viventi e colpito per via dei peccati del mio popolo?

(Martini)

Dopo l’oppressione della condanna fu tolto di mezzo. La generazione di lui chi la spiegherà? Or egli dalla terra dei viventi è stato reciso, per le scelleraggini del mio popolo io l’ho percosso

(Diodati 1607)

Egli è stato assunto dalla distretta e dal giudicio: e chi potrà narrar la sua era, benché sia stato reciso dalla terra dei viventi; e, per i misfatti del mio popolo, abbia sofferte battiture?

(Diodati Riveduta)

Fu portato via dall’oppressione e dal giudizio; e della sua generazione chi rifletté che era strappato dalla terra dei viventi e colpito per le trasgressioni del mio popolo?

 

Queste sono le versioni che ho ritenuto di paragonare, tutte corrette perché rispondenti al senso del sacrificio unico e insostituibile, “fatto una volta per sempre”, di Cristo, prima di tutti verso quel popolo che lo rifiutò. In particolare, “la generazione di lui, chi la spiegherà?” si riferisce tanto ai versi coi quali proseguirà il cantico, quanto alla particolarità del Suo tempo, ma anche al fatto secondo cui ben pochi lo riconobbero mentre era in vita. Ricordiamo poi che le sofferenze patite dal Servo sarebbero state le uniche a realizzare quanto descritto da Pietro: “Ma voi siete – nessuno escluso – una generazione eletta, un real sacerdozio, una gente santa, un popolo che Dio si è acquistato, affinché proclamiate le virtù di Colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua meravigliosa luce” (1 Pietro 2.9). Ecco perché il credente dovrebbe tener ben presente questa descrizione e riflettere prima di compiere qualsiasi scelta.

Resta, prima di concludere, da esaminare il verso nono che, con le parole “sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca”, ricorda ancora una volta l’innocenza perfetta dell’Agnello di Dio. Ma l’inizio, “Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo” prelude in un certo senso già alla resurrezione e potremmo vederlo come un punto storico-morale di passaggio: la sepoltura coi criminali era quella che avrebbe dovuto avere il corpo di Gesù, gettato in una fossa comune dove certamente finirono i due ladri crocifissi con lui. Successe però un fatto nuovo: “Venuta la sera, giunse un uomo ricco, di Arimatea, chiamato Giuseppe, anche lui era diventato discepolo di Gesù” (Matteo 17.57). Lasciando proseguire Giovanni, “Giuseppe d’Arimatea era discepolo di Gesù, ma di nascosto, per timore dei giudei, (e) chiese a Pilato di prendere il corpo di Gesù. Pilato lo concesse. Allora egli andò e prese il corpo di Gesù. Vi andò anche Nicodemo – quello che in precedenza era andato da lui di notte – e portò circa trenta chili di una mistura di mirra e di aloe. Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con dei teli, insieme ad aromi, come usano fare i giudei per preparare la sepoltura. Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto. Là dunque, poiché era il giorno della Parasceve dei Giudei e dato che il sepolcro era vicino, posero Gesù” (19. 38-42).

Ecco, questo è ciò il Signore volle rivelare ad Isaia che scrisse queste cose circa 750 anni prima che avvenissero. Certo gli approfondimenti dovrebbero essere ben di più, ma li rimando a quando potremo affrontare la crocifissione con maggiori dettagli.

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