07.10 – LE PARABOLE DEL REGNO 9: IL SEME (MARCO 4.26-29

7.10 – Le parabole del regno 9 (Il seme, Marco 4.26-29)

 

“26Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».

 

            Così come avvenuto per le parabole del granello di senape e del lievito, anche l’ottava e la nona di Marco sono strettamente collegate fra loro perché parlano una dell’opera dello Spirito (la lampada) e la seconda (il seme gettato sul terreno) di come questo agisce, indipendentemente dalla volontà umana, da quando l’uomo riceve il seme della Parola. Anche questa parabola è complessa perché è suscettibile a più interpretazioni anche se dai termini impiegati, seme – terreno – spiga – mietitura, possiamo riferirla prima di tutto al fatto che il Regno è presente e cresce comunque: non sono gli uomini che gli danno forza, né le resistenze che possono opporgli, viste nelle persecuzioni e gli ostacoli, sono in grado di indebolirne lo sviluppo. C’è infatti un percorso stabilito, inevitabile perché la crescita del seme nel terreno avviene a prescindere dal fatto che sia giorno, quando gli uomini si affaccendano, o notte, quando solitamente dormono. Non si ferma mai.

E la chiave della parabola la troviamo nel “Come, egli stesso non sa”, che si riferisce chiaramente ai limiti della conoscenza dell’essere umano e al fatto che la sua vita è comunque circoscritta nei limiti della sua stessa esistenza: possiamo studiare, cercare di capire l’universo, i meccanismi della biologia, della chimica, indagare, clonare, arrivare alla realizzazione di strutture artificialmente intelligenti come nel nostro tempo, ma sempre senza poter oltrepassare, appunto, i limiti che ci sono stati dati. Consideriamo attentamente le parole “L’orgoglio del tuo cuore ti ha ingannato, o tu che abiti nei crepacci delle rocce e stabilisci la tua dimora in alto: tu dici in cuor tuo «Chi potrà farmi precipitare a terra?» Anche se tu ponessi il tuo nido fra le stelle, di lassù ti farei precipitare”. (Abdia 1.3,4).  Certo quello del non sapere come un seme si sviluppa oggi è un dato superato, ma va inquadrato nel tempo in cui quelle parole furono pronunciate.

Nella parabola ci sono due soggetti, l’uomo che getta il seme, ma non sa come cresca, e il seme stesso che si sviluppa da sé fino alla maturazione e mietitura.

Personalmente ritengo che sia sul “non sapere” che debba essere posta la prima sottolineatura, perché, come detto prima, indica un limite. E di limiti l’uomo ne ha tanti. Alcuni sono delle pareti di carta che riesce a sfondare con poco sforzo, altre di materiale più robusto, ma con costanza e gli strumenti adatti possono venire abbattute, ma altri confini sono invalicabili; l’intelligenza umana stessa non può andare oltre un punto stabilito e così la vista, la conoscenza e quant’altro possiamo fare. Se i versi che esamineremo fra breve si rifanno alla limitata conoscenza che avevano gli uomini nel tempo in cui sono stati scritti, bisogna tener presente che al sapere oggi raggiunto non corrisponde una risposta morale soddisfacente, vista ad esempio nel cercare e trovare conferme alle verità contenute nella Scrittura, ma alla presa di un ascensore per l’orgoglio e una spietata volontà di autonomia.

Salomone in Ecclesiaste 11.5 scrive “Come tu non conosci la via del soffio vitale né come si formino le membra nel grembo di una donna incinta, così ignori l’opera di Dio che ha fatto”. Ancora Giovanni 3.8 quando, parlando con Nicodemo, Gesù gli disse “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene, né dove va”. In Proverbi 27.1 leggiamo “Non vantarti del domani, perché non sai neppure cosa genera l’oggi”.

Tre citazioni, tre ignoranze: se allora non si sapeva come si sviluppava un feto, oggi la scienza non ti può spiegarne il perché ultimo. Se oggi si conoscono le correnti e come si formano i venti, il linguaggio dello Spirito che del vento è figura resta incomprensibile a chi non lo possiede o non si sente attratto da Lui. E per il domani, visto come ciò che avverrà alla persona, nessuno è in grado di prevederlo. Ecco perché mi riferivo al limite che l’uomo non può superare: può solo realizzare, a volte, dei grandi effetti speciali, ma non pervenire all’essenza delle cose, al loro significato spirituale che poi è l’unico in grado di resistere, di far passare dalla dimensione del tempo a quella dell’eternità. E questo è un principio che solo chi crede davvero, chi è “nato di acqua e di spirito” può condividere. E riguardo all’ignoranza umana, credo che il capitolo 38 del libro di Giobbe, che non riporto per ragioni di spazio ma suggerisco di leggere attentamente, sia un monumento al riguardo.

Partendo dagli scritti dell’Antico Patto, vediamo un primo aspetto della conoscenza che Dio ha nei confronti dell’essere umano: “Signore, tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando mi siedo e quando mi alzo, intendi da lontano i miei pensieri, osservi il mio cammino e il mio riposo, ti sono note tutte le mie vie” (Salmo 139.1,3). “Scrutare” è il primo verbo impiegato dal salmista; è molto impegnativo perché significa “Guardare, esaminare attentamente per scoprire o comprendere ciò che non si manifesta o non si capisce a uno sguardo o a un esame affrettato o superficiale”, o anche “Indagare, esaminare a fondo per cogliere aspetti difficili da penetrare”. Questa è la cura che Dio ha nei confronti degli uomini per vagliarli e provvedere a loro. “Conoscere”, secondo verbo, equivale ad “Avere una cognizione ampia e approfondita di qualcosa”. Dio quindi scruta e conosce la persona nel proprio intimo, nelle sue profondità, sa le nostre azioni una per una.

Più avanti, verso spiegato con le parole “Dio è luce e in lui non ci sono tenebre” (1 Giovanni 1.5), troveremo “Nemmeno le tenebre per te sono tenebre e la notte è luminosa come il giorno; per te le tenebre sono come luce” (Salmo 139.12).

Infine, da Geremia 15.15 “Tu sai tutto, o Eterno, ricordati di me” a Giovanni 2.25 “Lui stesso conosceva quello che era nell’uomo”, credo che possiamo avere un quadro sufficiente di quello che può essere la risposta al tema di ciò che l’uomo ignora contrapposto alla vera, assoluta scienza di Dio: in lei è la perfezione, la luce, l’assoluto, ma anche una sorprendente apertura a un essere imperfetto, spesso ricco di ombre, minimo come l’uomo che tuttavia, quando passa dallo stato di semplice creatura a quello di figlio di Dio, viene posto in una condizione della quale non può non approfittare: “Chi infatti conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così i segreti di Dio nessuno li ha mai conosciuti se non lo Spirito di Dio. Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato” (1 Corinti 2.11,12). Capiamo? Le due realtà contrapposte, quella umana e quella divina, s’incontrano nel momento in cui l’uomo riceve lo Spirito di Dio per “conoscere” ciò che Lui ci ha donato. Qui sta la scienza, l’unica che valga davvero la pena di sviluppare, indagare, “scrutare” secondo il senso che abbiamo visto poc’anzi.

Sapere e non sapere, dunque. Un sapere che non genera orgoglio o presunzione, ma è attento e non si dà pace fino a quando ciò che non si sa non viene alla luce. E a volte ci vogliono anni perché questo avvenga, se in noi vi è l’onestà di chi è veramente semplice e non dà per scontato ciò che impara da letture più o meno buone. Mi viene in mente Socrate e il suo “So di non sapere”; chissà come avrebbe reagito di fronte a Gesù sentendolo parlare, lui che probabilmente era un onesto.

E a proposito di questo, “sapere” e “non sapere” sono aspetti importanti della nostra vita più profonda perché indicano anch’essi il nostro limite umano e spirituale: come credenti, dovremmo conoscerli, dovremmo sapere fino a che punto possiamo spingerci con noi stessi e con gli altri, per non tradire entrambi e fallire assumendo inevitabilmente atteggiamenti non nostri che finirebbero per ingannare e illuderci per primi. Una casa costruita sulla sabbia. E finiremmo per diventare sterili. E tornano i versi che a volte citiamo indirizzati alla Chiesa di Laodicea, convinta di essere ricca: “Non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo” (Apocalisse 3.17). Tra l’altro, a conferma della nostra impotenza assoluta senza la presenza dello Spirito Santo, l’apostolo Paolo dice che non saremmo nemmeno in grado di pregare, cioè parlare con Dio: “Noi – cioè il nostro uomo naturale –non sappiamo pregare come si conviene, ma lo Spirito interviene per noi con sospiri ineffabili” (Romani 8.26).

Sviluppato a grandi linee il tema del “Come, egli stesso non sa”, possiamo fare altrettanto con quello del seme, anch’esso dai molti significati: di base possiamo dire che questo si riferisce, nella dispensazione della Grazia, al Vangelo, alla Parola di Dio che germoglia nel cuore dell’uomo che lo accoglie e in questo caso porta un frutto buono e accettato dal Creatore. Il seme è anche la Parola stessa, che cresce indipendentemente, come detto all’inizio, dalle persecuzioni e dagli ostacoli che forze avverse gli frappongono per impedirne la crescita. In questo seme vediamo prima di tutto, alle origini, Nostro Signore stesso che, poco prima del suo arresto, disse ai suoi “L’ora è giunta che il Figlio dell’uomo dev’essere glorificato. In verità, in verità vi dico che se il granello di frumento, caduto in terra, non muore, rimane solo; ma, se muore, produce molto frutto” (Giovanni 12.24,25).

C’è una stretta, indispensabile relazione fra la morte (e resurrezione) di Cristo e la vita di chi in lui ha creduto: anch’esso prende vita e si sviluppa e la sua crescita non dipende tanto dai suoi sforzi, ma da Dio che lo guida; è un tema che l’apostolo Paolo sviluppa coi credenti della Chiesa di Corinto, afflitta da fazioni e dottrine varie che, in quanto greci, influivano nella loro vita: “Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore– cioè cessa di essere una parola, un messaggio astratto per diventare vivo e stimolante –. Quanto a ciò che semini, non semini il corpo che nascerà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere, e Dio gli dà un corpo come ha stabilito, e a ciascun seme il proprio corpo” (1 Corinti 15.36,37): la diversità è quindi una caratteristica che hanno i membri di una Chiesa, ciascuno differente. Un amico un giorno mi disse “Dio non ci vuole tutti uguali”, alludendo al fatto che, se fossimo tutti identici nei doni e nel pensare, la Chiesa sarebbe un corpo deforme, fatto di “telecomandati”, che dicono le stesse cose come accade per una setta religiosa che non è in grado di predicare cose diverse dalla propria dottrina, norme di comportamento, “verità” e dogmi. Perché il dio dell’uno è sempre migliore di quello dell’altro. E con la frase “A ciascun seme il proprio corpo” certo si stabilisce l’unitarietà di genere, ma non l’identità uniforme del dettaglio di un credo o di usanze, perché la fedeltà alle istruzioni che Gesù e gli apostoli ci hanno lasciato sono un tesoro di cui ciascuno è responsabile.

Ciò che compete all’uomo è valutare attentamente, pensare a ciò che fa di quel “chicco di grano o di altro genere” che in lui è seminato e cercare in tutti i modi di assecondare la sua crescita. Guardarsi dentro, valutarsi, pregare, constatare cosa avviene.

Quando il frutto è maturo, subito viene la falce”: anche qui per frutto si intende il regno sulla terra, la messe pronta per la mietitura finale più che la chiamata individuale, come altri interpretano pensando che Dio chiami quando abbiamo fatto tutto ciò che potevamo e abbiamo quindi finito il nostro compito: piuttosto ci è stato dato un tempo per agire di cui non conosciamo la durata né tantomeno la fine; sappiamo che “il giorno del Signore viene come un ladro di notte”, quindi che Lui torna quando il servo meno se lo aspetta e ne verifica l’operato.

Possiamo quindi concludere queste riflessioni con il Salmo 126.6: “Chi semina nelle lacrime, mieterà con gioia. Nell’andare se ne va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni”. Amen.

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