05.51 – Falsi discepoli (Matteo 7.15,23)
“15Guardatevi dai falsi profeti, che vengono a voi in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci! 16Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dagli spini, o fichi dai rovi? 17Così ogni albero buono produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi; 18un albero buono non può produrre frutti cattivi, né un albero cattivo produrre frutti buoni. 19Ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco. 20Dai loro frutti dunque li riconoscerete.
21Non chiunque mi dice: «Signore, Signore», entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli. 22In quel giorno molti mi diranno: «Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto molti prodigi?». 23Ma allora io dichiarerò loro: «Non vi ho mai conosciuti. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità!».”.
Leggevo un commento a 2 Timoteo 2.17, che abbiamo citato la volta scorsa, a proposito di Imeneo e Fileto e sull’insegnamento del falso profeta paragonato, per come si diffonde, a una cancrena. Scrive William MacDonald: “Pensando a Imeneo, a Fileto e ai loro falsi insegnamenti, ancora una volta Paolo si rende conto che per la Chiesa sono in arrivo giorni bui. La chiesa locale ha raccolto degli increduli fra i suoi membri. La cristianità è una massa eterogenea e la confusione che ne risulta è devastante”. Credo che le parole dell’ultima frase siano molto adatte ai nostri tempi più che a quelli di allora anche se i “giorni complicati” sono iniziati proprio con la prima Chiesa e l’avvento delle prime eresie in cui, fondamentalmente, il metodo filosofico antropocentrico ha iniziato a confondersi con il messaggio cristiano puro (e semplice). Giuda al verso quarto della sua lettera scriveva “Si sono infiltrati in mezzo a voi alcuni individui, per i quali già da tempo sta scritta questa condanna, perché empi, che stravolgono la grazia del nostro Dio in dissolutezze e rinnegano il nostro unico padrone e signore Gesù Cristo”.
Personalmente nelle Chiese mi capita di vedere disinformazione e errore che originano da un non voler vedere la luce per appropriarsene sul serio. Si confonde l’invito di appartenere a Cristo per essere salvati con quello di far parte di una comunità a prescindere perché bisogna “stare insieme”, fare gruppo, possibilmente manifestando agli altri un modo di vivere particolare finendo per lasciare Gesù fuori dalla porta perché c’è altro da portare avanti. Allora si ricorre a manifestazioni esteriori, pubblicitarie, si propaganda il proprio gruppo facendo leva su di esso e non su Cristo, di cui comunque oggi tutti hanno sentito parlare, ma che ben pochi cercano. E la possibilità di cadere in errore sarebbe inevitabile se non ci fosse quest’informativa di Gesù: il falso profeta, se da un lato viene a noi in veste di pecora ma dentro è lupo rapace, dall’altro si riconosce dai suoi frutti che sono l’opposto di quelli portati da quello vero: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli” (Giovanni 15.8). Per collocare il profeta sotto la giusta ottica, poi, occorre distaccarsi dalla visione mondana che lo vede dichiarare ciò che avverrà in futuro, poiché il profeta nella Scrittura è colui che parla correttamente di Dio e, se gli viene ordinato o ha un’illuminazione, ne rivela i piani, le prospettive, l’essenza.
Esiste una differenza tra il significato del termine che troviamo in un dizionario (persona che, per ispirazione divina, predice il futuro o rivela fatti ignoti alla mente umana, o è dotata di capacità divinatorie) e quello originale greco composto dal prefisso “pro” (davanti, prima) e “femì” (parlare, dire); il profeta è quindi colui che, nell’esercizio delle sue funzioni, “parla davanti” a un’assemblea, una o più persone, e contemporaneamente a Dio portandone la responsabilità. Impossibile farlo correttamente senza lo Spirito. Essere dei profeti veri corrisponde al portare, come abbiamo letto, “molto frutto” e lo si può fare anche attraverso una condotta onesta e irreprensibile; essere dei profeti falsi significa agire per scopi non riferibili a quelli della parola di Dio.
Il falso profeta è un “lupo rapace” perché trasmette elementi dottrinali non corretti a chi non ha sufficienti riferimenti per orientare la propria vita spirituale e lo conduce in errore. A volte si tratta di contenuti che si infrangono palesemente con il buon senso del messaggio cristiano, altre volte sono subdoli e potrebbero apparire apparentemente logici, come quel miscuglio tra Legge e Grazia che alcuni giudei portavano avanti nelle prime Chiese costringendo i pagani a circoncidersi ritenendolo un adempimento che condizionasse la salvezza. E rimango negli scritti del Nuovo Patto per non allargare troppo il campo. Possiamo però ricordare Geremia 23.16 “Non ascoltate le parole dei profeti che profetizzano per voi; essi vi fanno vaneggiare, vi annunciano fantasie del loro cuore– impuro -, non quanto viene dalla bocca del Signore”.
Per i frutti, poi, possiamo andare alla lettera ai Galati in passi più volte ricordati quando l’apostolo Paolo sottolinea la differenza tra quelli della carne e quelli dello spirito (5.18-12). Le “opere” (quindi i frutti) della carne sono da Paolo individuati nella “fornicazione” (l’assenza di fedeltà che può essere verso la propria moglie o il proprio marito, ma anche il politeismo come pluralità di servitù), “impurità” (la presenza come scelta di elementi del mondo che si rimpiangono e praticano accanto a una condotta apparentemente cristiana), “dissolutezza” (eccessi provocati dalla libidine e dal vizio, che contempla non solo quello sessuale), “idolatria” (ammirazione, devozione o dedizione gelosa e fanatica), “stregonerie” (l’appoggiarsi a pratiche estranee alla preghiera e allo spirito), “inimicizie” (rancori portati verso gli altri perché osano porsi in contrasto al nostro volere della carne), “discordia” (diversità di intenti tale da alimentare rivalità o provocare frequenti contese), “gelosia” (sentimento tormentoso spesso patologico provocato dal timore, dal sospetto o dalla certezza di perdere qualcosa o una persona che amiamo per opera di altri), “dissensi” (porsi contro un’idea a prescindere portando avanti unicamente se stessi), “divisioni” (i cosiddetti “partiti” nelle Chiese in cui si creano gruppi che parteggiano per uno e ostacolano le iniziative dell’altro), “fazioni” (la formazione di gruppi in cui i membri sono coesi in acceso contrasto con altri gruppi), “invidie” (il non sopportare che l’altro prosperi o consegua dei risultati positivi, che poi è il sentimento di Caino), “ubriachezze” (il volersi saziare a tutti i costi con un surrogato dello Spirito, alternative portate avanti volendole legittimare a tutti i costi) “orge e cose del genere” (feste sfrenate a sfondo sessuale).
Dal verso 16 al 20 del nostro testo, Gesù paragona gli uomini ad alberi e, come sappiamo, propone ai suoi uditori un tema conosciuto: la volta scorsa abbiamo avuto l’esempio del giusto che “fiorirà come la palma” (Salmo 92) e, in opposizione, del “tamerisco nella steppa”. Il giusto che medita la Legge del Signore è poi paragonato a “…un albero piantato lungo corsi d’acqua, che dà frutto a suo tempo: le sue foglie non appassiscono e tutto quello che fa, riesce bene” (Salmo 1.3). Se quindi il falso profeta può mentire e irretire con discorsi pseudo-spirituali difficili da individuare, non può fare altrettanto coi suoi frutti. E abbiamo letto che “ogni albero che non dà buon frutto è tagliato e gettato nel fuoco”: è la fine della pula, della zizzania, del tralcio che non rimane attaccato alla vite, di quella terra che, irrigata, produce rovi e spine.
Il verso 19, sulla fine che fanno gli alberi che non danno frutti buoni, è usato da Gesù come “ponte” verso un’altra categoria di persone, quelle che frutto non ne portano nonostante siano a dimora nel terreno di Dio, come ci insegna la parabola del fico sterile in Luca 13.6-9: “Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: «Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?». Ma quello gli rispose: “«Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai»”.
E qui entriamo in un ambito purtroppo amaro e difficile, che Gesù ricorda molte volte in discorsi e parabole e che nel sermone sul monte annuncia per la prima volta: si può appartenere alla Chiesa nominalmente, per scopi personali, ci si può travestire, occupare indegnamente un posto. Quel “Signore, Signore” al verso 21, riferito probabilmente alla preghiera pubblica e a tutte le volte in cui il nome di Dio viene pronunciato dai falsi discepoli, denota un’assenza, un vuoto, una mancanza di partecipazione: “Non quelli che ascoltano la Legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che la mettono in pratica saranno giustificati” (Romani 2.13), frase da un discorso di Paolo sulla sensibilità dei cuori. In realtà, la “Legge” di cui parla l’apostolo è la Parola, come poi Giacomo avrà modo di precisare in 1.22,23: “Siate di quelli che mettono in pratica la Parola, e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi; perché se uno ascolta la Parola e non la mette in pratica, costui somiglia a un uomo che guarda il proprio volto allo specchio: appena si è guardato, se ne va, e subito dimentica com’era. Chi invece fissa il suo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà, e le resta fedele, non come ascoltatore smemorato ma come uno che la mette in pratica, questi troverà la sua felicità nel praticarla”.
Ecco, “fare la volontà del Padre” implica aderire a quel percorso che inizia dal credere “in Colui che mi ha mandato” e poi prosegue con una crescita proporzionale ai doni ricevuti, al posto nel “Corpo di Cristo che è la Chiesa” dove chi è grano rimane tale e non può essere zizzania, dove chi è albero può anche temporaneamente non portare frutto, ma lo darà opportunamente concimato dal perfetto operaio della vigna. “Vedremo se porterà frutti per l’avvenire, se no lo taglierai” sono parole che mettono l’accento, più sul tagliare, sull’amore e la pazienza di Dio che desidera un albero fruttifero e non legna da ardere di cui mi viene da pensare – se mi si passa il termine – ne abbia fin troppa. Notiamo poi che il frutto è qualcosa di tangibile e non può trovarsi nelle parole “Signore, Signore” che chiunque è in grado di pronunciare.
C’è poi un giorno, la cui data è nascosta a tutti ma che “solo il Padre conosce”, in cui tutti gli uomini incontreranno Cristo in salvezza o in giudizio: “molti mi diranno in quel giorno” parole tese a giustificarsi o a implorare che sia loro aperta la porta della Grazia che hanno rifiutato in vita. In questo caso, però, sono quelli che vogliono ricordare al Signore un operato preciso. Leggiamo che i falsi discepoli e profeti avranno parlato di Lui usando il suo nome, scacciato demòni e compiuto molti prodigi: si tratta di fenomeni del tutto involontari, come ad esempio avvenne per il Sommo Sacerdote Caiafa che, tra i principali fautori della morte provvisoria di Gesù, disse al Sinedrio “Voi non capite nulla! Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!”,parole che Giovanni annota così:“Questo però non lo disse da se stesso, ma, essendo sommo sacerdote quell’anno, profetizzò che Gesù doveva morire per la nazione. E non soltanto per la nazione, ma per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi. Da quel giorno dunque decisero di ucciderlo” (Giovanni 11.49-53). Pensiamo anche a quelle manifestazioni miracolose che si verificano, e che abbiamo ricordato ultimamente, tese ad instaurare nella mente altrui false convinzioni religiose o, nel caso di specie, a quegli esorcisti itineranti in Atti 13, che però nulla poterono di fronte a un indemoniato più forte di loro.
Il cristiano deve sapere che ogni intervento soprannaturale di cui può essere testimone non è detto che venga inequivocabilmente da Dio e troppo spesso ci si dimentica che, se Satana si presentasse in tutta la sua potenza negativa, avrebbe ben pochi seguaci. Così, chi si traveste da pecora, troverà la sua condanna nell’ultimo verso del nostro passo: “Non vi ho mai conosciuto. Allontanatevi da me, voi che operate l’iniquità”.
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