5.12 – SESTO, NON UCCIDERE I/IV (Matteo 6.21-26)

5.12 – Sesto, non uccidere I/IV: Caino e Abele (Matteo 5.21-26)

 

21Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. 22Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: «Stupido», dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: «Pazzo», sarà destinato al fuoco della Geènna.23Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, 24lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono. 25Mettiti presto d’accordo con il tuo avversario mentre sei in cammino con lui, perché l’avversario non ti consegni al giudice e il giudice alla guardia, e tu venga gettato in prigione. 26In verità io ti dico: non uscirai di là finché non avrai pagato fino all’ultimo spicciolo!”.

 

E siamo arrivati agli insegnamenti di Gesù sulla Legge in cui si parte da un comandamento estendendolo fino alle radici della coscienza e dello spirito: “Avete inteso(…) ma io vi dico”. L’osservanza della Legge, fatta per l’uomo che aveva perso la propria innocenza in Eden, a partire dal cammino del popolo nel deserto era il solo modo possibile per ottenere la benedizione e l’assistenza di Dio ma, soprattutto, era stata data nell’attesa di Colui che l’avrebbe adempiuta. È importante tener presente la definizione che dà della Legge l’apostolo Paolo, probabile autore della lettera agli Ebrei, in base alla quale essa è “l’ombra dei futuri beni”, ma non avendo “la forma reale stessa delle cose” (10.1); è da questo principio che bisogna partire per comprendere la forza dell’insegnamento di Gesù tanto su di essa e sui Profeti quando leggeremo che “insegnava come avendo autorità, non come gli scribi o i farisei” generando stupore e ammirazione in quanti lo ascoltavano.

Siamo giunti a un punto del discorso sul monte in cui Nostro Signore inizia ad affrontare alcuni comandamenti a partire dal sesto in base al capitolo 20 del libro dell’Esodo in cui il “Decalogo”, o “Sommario”, viene enunciato e che è giusto riportare:

 

01 –   Io sono il Signore Iddio tuo, che ti ha fatto uscire dal paese di Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avrai altre dèi davanti a me;

02 –   Non ti farai scultura alcuna né immagine alcuna delle cose che sono lassù nei cieli e quaggiù sulla terra e nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non le servirai;

03 –   Non userai il Nome del Signore, tuo Dio, invano, poiché il Signore non lascerà impunito che pronuncia invano il suo nome;

04 –   Ricordati del giorno di sabato per santificarlo;

05 –   Onorerai tuo padre e tua madre, affinché i tuoi giorni siano lunghi sulla terra che il Signore Iddio tuo ti dà;

06 –   Non ucciderai;

07 –   Non commetterai adulterio;

08 –   Non ruberai;

09 –   Non farai falsa testimonianza contro il tuo prossimo;

10 –   Non desidererai la casa del tuo prossimo; non desidererai la moglie del tuo prossimo, né il suo servo, né la sua serva, né il suo bue né il suo asino, né cosa alcuna che sia del tuo prossimo.

 

Ho trascritto l’elenco originale, riportato anche in Deuteronomio 5, perché forse non tutti sanno che differisce da quello tradizionalmente insegnato dalla Chiesa di Roma che ne ha purtroppo stravolto l’ordine, eliminando e aggiungendo arbitrariamente degli elementi.

Riguardo ai comandamenti, sesto compreso, vediamo che la proibizione è utilizzata al tempo al futuro a dimostrazione della loro immutabilità nel tempo e che la sua infrazione è il risultato di un lungo processo progettuale che si sviluppa in un’anima che si lascia contaminare dal peccato, permanendo in esso, divenendo così contraria alle esigenze che Dio ha fatto conoscere. Il peccato infatti è prima di tutto una condizione, quella in cui versa la creatura lontana per natura dal proprio creatore. È lo stato in cui si versa ereditariamente dopo la trasgressione dei progenitori in Eden, liberi di accettare la vita nel Giardino, o la morte sulla terra. Se non si pone rimedio a questo stato diventando figli per la fede in Cristo, lo stato di allontanamento da Dio genera tutti gli altri e per questo fu dato il decalogo, o Sommario della Legge.

Per poter affrontare il tema del sesto punto del Sommario, prima di entrare nel merito dell’insegnamento di Gesù, credo occorra esaminare l’omicidio nella storia guardando a due uccisioni emblematiche e relative conseguenze, tenendo presente che per “Legge” gli ebrei consideravano tutti i libri formanti il Pentateuco. Partire con questa base significa inevitabilmente andare all’omicidio perpetrato da Caino su Abele che troviamo al capitolo quarto del libro della Genesi. Si tratta di un episodio che molti conoscono, in cui vi sono particolari sui quali si sorvola se si legge l’episodio come un semplice racconto, ma che descrivono come l’idea dell’omicidio si forma e si sviluppa in una persona.

Caino era il primogenito e il suo nome significa “Acquisto” perché sua madre ritenne di aver avuto un favore da Dio rimanendo incinta di lui e credette di aver pagato, “partorendo con dolore”, il suo debito. Non si può nemmeno escludere che sperava che Caino fosse il destinato a porre rimedio alla situazione in cui lei e suo marito versavano. Adamo ed Eva erano infatti presenti quando venne formulato il giudizio sul serpente con la “progenie della donna” che gli avrebbe schiacciato il capo. A proposito del primogenito di Eva leggiamo che “Adamo conobbe Eva sua moglie, che concepì e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uomo grazie al Signore»” (Genesi 4.1). Quando poi lei constatò che suo figlio era fragile, soggetto ad ammalarsi e a soffrire come tutti, ecco che capì la vita umana sarebbe stata ben diversa da quella conosciuta in Eden e “Partorì ancora Abele, suo fratello” il cui nome significa “soffio” o “vanità”. Il primo figlio di Eva fu agricoltore, il secondo pastore ed entrambi offrirono in sacrificio a Dio secondo i frutti del loro lavoro, ma mentre Abele presentò i primogeniti del suo gregge con il loro grasso, quindi rinunciando ai migliori capi e anticipando i sacrifici della dispensazione della Legge, Caino si limitò ad un’offerta generica in cui era esente il sentimento di adorazione e di amore per il proprio Creatore. Quando infatti Caino “fu molto irritato e il suo volto era abbattuto” (v. 5), perché constatava che il fratello veniva benedetto e la sua offerta veniva ignorata, Dio non lo lasciò solo coi suoi pensieri ad arrovellarsi e intristirsi ulteriormente, ma gli parlò: “Perché sei irritato ed è abbattuto il tuo volto? Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, e tu lo dominerai” (v.6), che altri traducono “devi dominarlo”.

Da queste parole possiamo trarre alcuni elementi: Dio invita Caino a riflettere rispondendo prima di tutto da sé alla domanda sul perché fosse irritato e abbattuto e questo fu un’esortazione ad un ascolto profondo, ad una analisi, a mettere da parte sia la delusione che porta alla tristezza interiore, sia l’astio che ne avrebbe potuto esserne la conseguenza: calmati, fermati, rifletti perché sei dotato di anima, quindi di intelligenza, ed il tuo problema lo puoi risolvere.  Trovando le ragioni del suo stato psicologico, Caino ne avrebbe trovato anche il rimedio perché la radice del problema non risiedeva nell’offrire frutti della terra anziché pecore, ma in tutto il suo modo di pensare e agire a monte: “Se agisci bene, non dovresti forse tenerlo alto?”. Erano parole che tendevano ad indicare una strada, un percorso che Abele aveva già intrapreso senza che alcuno glielo indicasse, scelto dopo aver riflettuto: impossibile che Adamo ed Eva non avessero spiegato ai loro figli il perché della sofferenza, fisica e morale, del lavoro e come mai dovessero faticare per poter sopravvivere.

Se Caino non avesse “agito bene”, cioè lasciandosi guidare dalla propria coscienza e depurandosi dei pensieri che lo contaminavano, sarebbe stato sempre dominato dal proprio istinto che lo avrebbe portato sempre più lontano dalla presenza e dalle attenzioni di Dio che mostrava di gradire le offerte del fratello con una vita meno travagliata della sua, sostenendolo nelle proprie fatiche e facendolo prosperare. Il peccato, inteso come tutto ciò che è contrario al bene e quindi alla santità, era “accovacciato alla porta” della mente di Caino in attesa di prenderne possesso e solo lui avrebbe potuto tenerlo fuori, dominandolo, vale a dire non dandogli ascolto, non lasciando che pensieri egocentrici e ciechi prendessero il sopravvento su di lui. Con quelle parole Caino fu posto di fronte a un bivio: proseguire nel suo senso di ostilità e delusione, oppure cambiare modo di agire ponendo un freno ai suoi istinti, avrebbe dovuto accompagnare ciò che offriva ad una vita coerente mettendo al primo posto il rapporto con Dio anziché la propria istintività.

Alle parole di verità che gli erano state rivolte, Caino preferì la propria e ritenne di risolvere il problema eliminando fisicamente il proprio fratello, premeditandone l’omicidio: lo portò nei campi, quindi dove nessuno li vedesse – tranne Dio, ma non gli importava perché per Caino veniva prima di tutto la materia – e lo uccise. Quando fu giudicato è scritto che, invece di pentirsi, “Si allontanò dalla presenza dell’Eterno”, cioè decise di vivere autonomamente escludendo il Creatore, dando origine a una stirpe che arrivò al proprio culmine negativo con Lamek che, accecato nell’orgoglio e soffocata definitivamente la propria coscienza, volle sostituirsi a Dio dicendo “Sì, io ho ucciso un uomo perché mi ha ferito e un giovane per avermi procurato un livido. Se Caino sarà vendicato sette volte, Lamek lo sarà settanta volte sette” (v.23,24), cioè all’infinito. Lamek, per questa delirante affermazione, utilizzò le parole che il Signore aveva detto al suo capostipite dopo l’omicidio del fratello, “Chiunque ucciderà Caino, sarà punito sette volte” (v.15).

In entrambi i casi, quello di Caino e di Lamek, abbiamo una progressione interiore negativa che fondamentalmente parte sì dal non aver imposto dei freni al loro agire, ma da una morale sostitutiva che li voleva vedere protagonisti del loro destino, da una volontà costante e assoluta del voler vivere difendendo la propria persona senza curarsi del proprio prossimo e soffocando quella coscienza che, per la dispensazione nella quale esistevano, Dio aveva posto in loro.

Caino e Lamek, che diede origine alla poligamia, sono gli esempi delle persone che, non volendo vigilare su loro stesse, mettono la propria natura corrotta al primo posto e sono disposti a difenderla con qualunque mezzo, sia questo “lecito” o meno. “Il peccato è accovacciato alla tua porta” è tradotto anche “sta spiando alla porta e i suoi desideri sono verso di te”, atteggiamenti che denotano che il peccato è un’idea, un pensiero che attende il momento propizio per agire. “Peccato” è una parola astratta che, pilotata dall’Avversario, dà conseguenze purtroppo concrete anche se nel verso che abbiamo letto viene presentato antropomorficamente. Anche oggi, come testimoniano le cronache che leggiamo quotidianamente, si uccide per questo, in un gesto primitivo per eliminare chi ostacola anche se di poco la sopravvivenza e la riuscita dei progetti dell’omicida, le sue esigenze, di un Ego che cresce smisuratamente. Si uccide per uno scatto d’ira che, per manifestarsi in quel modo, non è mai stata tenuta a freno dallo Spirito o anche solo dalla ragione. L’omicidio, crimine nelle leggi di tutte le nazioni, è sempre il risultato di un mancato dominio sulla carne che vorrebbe sempre e comunque, non conosce freni se abbandonata a se stessa e arriva ad eliminare tutto ciò che la ostacola. Ricordiamo le parole di Agur in Proverbi 30.12-16: “C’è gente che si crede pura, ma non si è lavata dalla sua lordura. C’è gente dagli occhi così alteri e dalle ciglia così altezzose! C’è gente i cui denti sono spade e i cui molari son coltelli per divorare gli umili ed eliminarli dalla terra e i poveri in mezzo agli uomini. La sanguisuga ha due figlie: «Dammi! Dammi!». Tre cose non si saziano mai, anzi quattro non dicono mai «Basta!»: gli inferi, il grembo sterile, la terra mai sazia d’acqua, e il fuoco che mai dice «Basta!»”.

In opposizione, così Agur parla di sé: “Sono stanco, o Dio, sono stanco e vengo meno, perché io sono il più ignorante degli uomini e non ho intelligenza umana; non ho imparato la sapienza e ignoro la scienza del Santo. Chi è salito al cielo e ne è sceso? Chi ha raccolto il vento nel suo pugno? Chi ha racchiuso acque nel suo mantello? Chi ha fissato tutti i confini della terra? Come si chiama? Qual è il nome di suo figlio, se lo sai? Ogni parola di Dio è appurata, egli è uno scudo per chi non ricorre a lui” (vv. 1-5).

È bello notare che, come Giobbe lamentava la mancanza di un simile che lo comprendesse e lo aiutasse nel suo dibattimento con Dio, Agur si chiede il nome del Figlio di Dio, che si rivelerà agli uomini alcune centinaia di anni più avanti. Caino, primo omicida della storia che trattava Dio e il suo rapporto con Lui con estrema sufficienza, è il rappresentante dei tanti che verranno nei secoli e le sue motivazioni, certo viste brevemente, saranno utili riferimenti quando vedremo le parole di Gesù in proposito.

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