01.17 – Due profezie (Matteo 2.4-6)
“4Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. 5Gli risposero:«A Betlehem di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: 6E tu, Betlehem, terra di giuda, non sei davvero l’ultima città delle principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele».”.
La nascita di Gesù, sommariamente trattata negli episodi precedenti, segna una tappa fondamentale nella storia di quell’umanità che ha scelto di porsi dalla parte di Dio. Sappiamo che ciò avvenne da Abele in poi, ma che ufficialmente fu da Enos, figlio di Set citato come terzogenito di Adamo, che si iniziò a designare uomini che si dedicassero alla preghiera e alle relazioni con YHWH (Genesi 4.26). A seconda delle traduzioni leggiamo “A quel tempo si cominciò ad invocare il nome del Signore” oppure “Allora si cominciò a nominare alcuni nel nome del Signore”. Un esempio di scelta lo troviamo poi in Giosuè che, parlando al popolo, disse “Ora dunque, temete il Signore e servitelo con integrità e fedeltà. Eliminate gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume e in Egitto, e servite il Signore. Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrei, nel cui territorio abitate. Quanto me e alla mia casa, serviremo il Signore” (Giosuè 24.14-15). Qui abbiamo una libertà di scelta che solo apparentemente è ideologica, poiché in realtà implica il destino di ciascuno nell’eternità.
Il verso di Giosuè ci parla di scelta tra ciò che è vivo e vero, o quanto che è costruito, inventato, adatto agli usi, credenze e ideali umani per poter trovare una giustificazione alle proprie azioni ed esistenza. Scegliere oggi a chi appartenere, scegliere il terreno su cui edificare come nella parabola della casa costruita sulla roccia o sulla sabbia.
Ebbene l’apostolo Paolo, scrivendo ai Galati, usa un’espressione particolare per indicare la venuta di Gesù sulla terra, data che non ci è stata tramandata nonostante fosse conosciuta dagli evangelisti: “Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato di donna, nato sotto la Legge, per riscattare quelli che erano sotto la Legge, perché ricevessimo l’adozione a figli” (4.4,5). E “la pienezza del tempo” è proprio quel periodo tra le 69ma e la 70ma settimana di Daniele cui abbiamo accennato nella scorsa riflessione.
Con questo nuovo studio non vorrei tanto esaminare quanto narrato da Matteo, ma dare un cenno anche ad altre profezie che i “capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo”, pur conoscendole, non affrontarono stante la richiesta impellente di Erode; leggiamo che li riunì facendo loro una richiesta precisa: dove sarebbe nato il Cristo secondo le loro scritture? Ecco, qui abbiamo un primo tratto del carattere del re, che riunisce il sommo sacerdote, il suo supplente, i capi delle 24 classi e gli scribi, quindi le persone più autorevoli, perché voleva sapere ciò che i Magi ignoravano. Erode quindi credette, o ritenne possibile, non escluse la possibilità che potesse davvero essere nato non un re nel senso terreno del termine, ma il Cristo, cioè l’Unto del Signore, il Messia che avrebbe liberato Israele, al contrario di lui che lo teneva soggiogato rispondendo comunque all’autorità di Roma. Ecco allora che non può essere accettata, stante il verso preciso di Matteo, la teoria in base alla quale Erode fosse geloso della nascita di un re che un giorno avrebbe minato il suo trono, ma piuttosto non poteva sopportare, tollerare la nascita del Cristo e credesse di poterlo contrastare, eliminare, uccidere. Erode allora fu uno strumento nelle mani non di quel Satana tanto sfruttato nella cinematografia e in un certo tipo di letteratura, ma del vero Avversario che, “micidiale fin dal principio” sapeva che con la nascita del Cristo sarebbe anche arrivato Colui che lo avrebbe annientato secondo il piano stabilito da Dio dalla Sua eternità.
E qui, tornando al nostro episodio, avviene un fatto davvero notevole, una testimonianza involontaria da parte dell’autorità religiosa, già da allora in combutta col potere politico: “In Betlemme di Giuda – per distinguerla dall’altra, quella di Zabulon – perché così è scritto per mezzo del profeta” (Michea). E gli lessero il testo: sarebbe nato “un capo”, quello che non vorranno riconoscere e al quale non daranno ascolto nonostante i miracoli, le implicazioni dottrinali che questi comportavano e i riferimenti all’Antico Patto che proprio loro studiavano e conoscevano.
Già dalle dinamiche di quel tempo possiamo trarre un principio fondamentale: non può esservi alcuna connessione tra potere politico e fede; se ciò accade abbiamo due elementi che, qualora si accordino, non possono che generare un sistema perverso perché la Chiesa non può avere interessi economici o di altra natura fuorché il servizio. Ricordiamo le parole “Non abbiate tra voi altro debito se non quello di amarvi gli uni gli altri” (Romani 13.8-10). La Chiesa è la comunità degli ekkletòi, dei “chiamati fuori” che, in quanto tali, con le dinamiche del mondo hanno ben poco a cui spartire.
Leggiamo la profezia di riferimento per gli interrogati da Erode in Michea 5.1-3: “E tu, Betlehem di Efrata, così piccola per essere tra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che dev’essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall’antichità, dai giorni più remoti. Perciò Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire, e il resto dei tuoi fratelli ritornerà ai figli di Israele. Egli si leverà e pascerà con la forza del Signore, con la maestà del nome del Signore, suo Dio. Abiteranno sicuri, perché egli sarà grande, fino agli estremi confini della terra”. Avranno spiegato ad Erode i suoi sapienti qualcos’altro a parte fornirgli un’indicazione geografica? Matteo non lo dice, ma certo è che ben difficilmente il re si accontentò di questa e volle sapere chi sarebbe stato quel “re dei giudei” che era nato e cos’avrebbe fatto.
Ecco allora che da Betlehem sarebbe uscito “per me”, quindi per l’Iddio creatore, “colui”, cioè una persona precisa e unica dalle origini antiche che, con l’espressione “dai giorni più remoti”, alludono all’eternità, all’atto creativo di Dio col quale nacque anche il tempo. La seconda parte della profezia di Michea, poi, dà uno sguardo generale ad eventi che devono ancora verificarsi, ma illustra il risultato finale del piano eterno: “Abiteranno sicuri perché egli sarà grande, fino agli estremi confini della terra”, frase in cui possiamo intravedere la connessione intima anche a livello “pratico” tra il popolo di Dio e il loro Salvatore. Michea poi indica “gli estremi confini della terra” per rappresentare prima l’universalità del messaggio e della grazia, poi la vastità dei “Nuovi cieli e nuova terra” che verranno creati e che non contempleranno la presenza di nulla di impuro.
Di tutte queste parole che i sapienti di Erode gli lessero, due furono gli elementi che gli suonarono come un allarme: il potere che avrebbe avuto il Cristo, e il verso “Dio li metterà in potere altrui fino a quando partorirà colei che deve partorire”. Era quindi avvenuto il parto e il “potere altrui” in cui Erode il Grande si riconobbe, stava per finire. Temette per la fine del suo regno senza pensare a quella della propria anima.
Sono molti i passi dei profeti che parlano del Cristo; particolarmente interessante è quella di Isaia 52.13-15: “Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. Come molti si stupirono di lui – tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo –, così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, perché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito”. Qui Isaia ci dà un particolare: il servo del Signore “avrà successo”; siamo quindi autorizzati a pensare che prima di lui ci sia stato qualcun altro che ha fallito, quindi Adamo, che non fu in grado di adempiere nel tempo all’unico comandamento ricevuto.
Il “successo” di cui parla Isaia non allude tanto alla riuscita di una missione, a una vittoria sui nemici, ma al riscatto della vita umana: “Se per mezzo di un uomo – Adamo – venne la morte, per mezzo di un uomo – il servo vittorioso – verrà anche la resurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita” (1 Corinti 15.21.22). Cristo, risorgendo, eliminò la morte come fine di tutto per trasformarla in passaggio da vita a vita per quelli che avrebbero creduto in lui. In questo stesso capitolo l’apostolo Paolo illustra la differenza tra le due esistenze dell’essere umano, la terrena e la futura, per poi passare a riconsiderare l’Adamo trasgressore e il Nuovo e Ultimo, Gesù: “…così anche la resurrezione dei morti: è seminato nella corruzione – il corpo – risorge nell’incorruttibilità; è seminato nella miseria, risorge nella gloria; è seminato nella debolezza, risorge nella potenza; è seminato corpo animale, risorge corpo spirituale. Se c’è un corpo animale, vi è anche un corpo spirituale. Sta scritto infatti che il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita” (Ibid. 42-45).
Ora il confronto tra i due “Adamo” e il “successo” che avrebbe avuto il Servo del Signore lo possiamo vedere mettendo a confronto i termini che contraddistinguono il nostro corpo e la nostra esistenza terrena con quello che avremo: per la prima condizione le parole sono “corruzione – miseria – debolezza – corpo animale”, per la seconda “incorruttibilità – gloria – potenza – corpo spirituale”, quattro qualità per ciascuna esistenza. C’è purtroppo un controsenso che ha sempre contraddistinto tutte le epoche attraverso le quali è vissuto l’uomo e a metterlo in risalto è la frase “Se c’è un corpo animale, c’è anche un corpo spirituale”: tutti ammettono l’esistenza del primo corpo che vede, sente, ascolta, parla e si muove, ma pochi riconoscono quella del corpo spirituale che esattamente allo stesso modo sente, ascolta, parla e si muove ma, negando l’esistenza di Dio e rifiutando di accogliere Gesù Cristo nella loro vita, lo oltraggiano e gli impediscono di agire. In questo modo il “corpo spirituale” resta ancorato a quello animale e non si distacca, non si innalza, non si salva. Resta immobile, paralizzato. E Cristo guarì i paralitici.
L’avere “successo” del Servo nato in Betlehem è sì personale e la resurrezione lo conferma, ma la sua grandiosità e mistero d’amore risiede proprio nel fatto che ha dato agli altri di seguire il suo stesso percorso glorioso nonostante la nostra caratteristica di peccatori. Chi rifiuta tutto questo rimane nei quattro ambiti che caratterizzano la condizione umana senza Cristo: corruzione – miseria – debolezza – corpo animale.
L’apostolo Giovanni, come sappiamo, scrive “A tutti quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio”, quindi la corruzione – miseria – debolezza – corpo animale sono ciò che siamo ma in cui non possiamo vivere come condizione spirituale perché ciò che ci attende è qualcosa di esattamente opposto: incorruttibilità – gloria – potenza – corpo spirituale. Il vero cristiano è un essere in trasformazione, in cammino, tende alla perfezione nonostante sia imperfetto per sua natura.
Ma “Il primo uomo, tratto dalla terra, è fatto di terra; il secondo uomo viene dal cielo. Come è l’uomo terreno, così sono quelli di terra; e come è l’uomo celeste, così anche i celesti. E come eravamo simili all’uomo terreno, così saremo simili all’uomo celeste. Vi dico questo, fratelli: carne e sangue non possono ereditare il regno di Dio, né ciò che si corrompe può ereditare l’incorruttibilità” (1 Corinti 15.47-50).
E anche qui il richiamo a Giovanni è molto forte: “…a quelli che credono nel Suo Nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati” (1.12,13) perché “Quello che è nato dalla carne è carne e quello che è nato dallo spirito è spirito” (3.6). Amen.
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