16.20 – IL TRIBUTO A CESARE (Matteo 22.15-22)

16.20 – Il tributo a Cesare (Matteo 22. 15-22)

 

15Allora i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?». 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: «Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». 21Gli risposero: «Di Cesare». Allora disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». 22A queste parole rimasero meravigliati, lo lasciarono e se ne andarono.

 

Nello scorso capitolo 22 abbiamo affrontato la parabola delle nozze, riportata dal solo Matteo, collocabile dopo quella dei contadini omicidi. Ora Marco, alla fine di questa, annota: “Essi cercavano di catturarlo, perché si erano resi conto che aveva detto quella parabola contro di loro, ma temettero la folla e, lasciatolo, se ne andarono” (12.17). Luca riporta un dettaglio nella loro reazione; “In quel momento gli scribi e i capi dei sacerdoti cercarono di mettergli le mani addosso, ma ebbero paura del popolo” (Luca 20.19).

Ritiratisi, i membri del Sinedrio escogitarono un altro sistema: “Si misero a spiarlo e mandarono degli insidiatori, che si fingessero persone giuste, per coglierlo in fallo nel parlare e poi consegnarlo all’autorità e al potere del governatore” (Luca 20.20) e qui la trappola escogitata riguardava proprio un argomento molto delicato, vale a dire il pagamento del “tributo a Cesare”.

A Gesù vengono quindi inviati, dai membri del Sinedrio allora intervenuti, i discepoli dei farisei “con gli erodiani”, un insieme assurdo perché vediamo associati i discepoli degli strenui difensori dell’ortodossia della religione ebraica, oppositori del governo romano, con i sostenitori di Erode e quindi di Roma di cui quel re era strumento e vassallo. È agevole vedere l’Avversario che inizia a muovere come sue pedine la totalità delle pericolose correnti del pensiero giudaico, i rappresentanti della nazione pur mancando gli zeloti, che costituivano un gruppo a parte di sicari: il martedì della settimana della Passione, giorno che stiamo considerando, Gesù avrà a che fare prima con scribi, farisei e capi dei sacerdoti, qui coi loro discepoli e gli erodiani ed infine coi sadducei a proposito della resurrezione; tutti alleati, incuranti delle divergenze dottrinali insanabili tra i gruppi, pur di riuscire a sconfiggere il loro nemico comune. Una volta ottenuto l’obiettivo, sarebbero tornati a disprezzarsi in tutta tranquillità.

Perché qui vengono mandati i discepoli dei farisei con gli erodiani? Perché, qualunque risposta Gesù avrebbe potuto dare, avrebbe avuto dei testimoni autorevoli che lo avrebbero denunciato alle autorità costituite: a parte l’untuoso, retorico, direi insopportabile preambolo con cui Lo avvicinano, identico nella sostanza nei sinottici, secondo i veri mandanti le risposte possibili avrebbero potuto essere due: A) dichiarava lecito il tributo, ma in questo caso il popolo che lo seguiva sarebbe rimasto scandalizzato perché il loro Messia non avrebbe mai potuto accettare di riconoscere un dominatore straniero pagandogli una tassa; B) dichiarava il tributo illecito e allora sarebbe stato passibile di denuncia al procuratore romano come ribelle.

La sottigliezza della domanda risiede anche nel fatto che, in quanto oppositore di Roma se avesse dichiarato illecito il tributo, sarebbe stato facile associarlo idealmente a quel famoso “Giuda il Galileo” menzionato da Gamaliele in Atti 5.36,37: “Tempo fa sorse Teuda, che pretendeva di essere qualcuno e a lui si aggregarono circa quattrocento uomini. Ma fu ucciso, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui furono dissolti e finirono nel nulla. Dopo di lui sorse Giuda il Galileo, al tempo del censimento, e indusse gente a seguirlo, ma anche lui finì male, e quelli che si erano lasciati persuadere da lui si dispersero”. Le rivolte capitanate o organizzate da questo personaggio, represse dal governatore della Siria Pubblio Quintilio Varo in modo cruento, si conclusero con la crocifissione di duemila persone.

Veniamo ora a come si presentano a Gesù i suoi insidiatori: lo chiamano “Maestro” e gli dicono “Sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità”, frase che esprime adulazione, ipocrisia e soprattutto anticipa il giudizio che si abbatterà su di loro. Come infatti proprio disse il Maestro, “Ora io vi dico che d’ogni parola oziosa che avranno detta, gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio, poiché dalle tue parole sarai giustificato, e dalle tue parole sarai condannato” (Matteo 12.36-37). Soprattutto, “Dio citerà in giudizio ogni azione, anche tutto ciò che è occulto, bene o male” (Qoèlet 12.14).

A Gesù non sfuggirono i secondi fini di quelle persone (li chiama “ipocriti”), ma si può estendere questo loro comportamento alle azioni e ai discorsi degli uomini in genere, alla loro coscienza e ragionamenti “…che ora li accusano, ora li difendono, così avverrà nel giorno in cui Dio giudicherà i segreti degli uomini, secondo il mio Vangelo, per mezzo di Cristo Gesù” (Romani 2.16).

L’aggettivo “argòs”, riferito alle “parole” significa “vane, inconsiderate, inconcludenti, non portanti ad alcun bene”, quindi “cattive, maliziose, maligne”, indici di un progetto perpetrato a danno altrui, come nel caso di questo episodio e di tutti quelli in cui una persona costruisce azioni o discorsi tesi a ledere il prossimo per, naturalmente, trarre un vantaggio per sé. Questo comprende anche discorsi inconcludenti, che non hanno un fine costruttivo. Quindi, “dalle tue parole sarai giustificato e dalle tue parole sarai condannato” significa proprio che, provenendo queste dal cuore, rilevano ciò che è al suo interno, la natura, l’anima e lo spirito di chi le proferisce.

Veniamo ora alla domanda posta che richiedeva, secondo le intenzioni degli interroganti, solamente un semplice “sì” o “no”, quanto bastava per accusare Gesù; spiegazioni ulteriori non erano previste. C’era però un altro grosso problema, secondo me, sul quale Nostro Signore avrebbe potuto intervenire ed è proprio, più che la questione del tributo, sul denaro che gli mostrarono, che aveva raffigurato il volto dell’imperatore Tiberio, figlio e successore di Augusto. Era un’immagine, quindi in contrasto con la Legge di Mosè che ne proibiva l’uso, di un uomo che, come imperatore, era considerato per lo meno dai Romani come un dio e lui stesso si considerava tale.

Già dopo la morte di Giulio Cesare (44 a.C.) chiunque aspirasse al potere cominciò a presentarsi come un eletto divino e il nome stesso “Augusto” deriva da “auge”, normalmente utilizzato con riferimento agli dèi e alle loro prerogative. Vennero così eretti templi in onore dell’imperatore e proprio Augusto, padre di Tiberio, è raffigurato in un gioiello dell’epoca con indosso una corona di alloro, simbolo di sapienza e gloria, con in mano uno scettro con l’aquila di Giove.

Gesù però non fa alcun cenno né sulla liceità del tributo a Cesare, né al fatto che quella moneta raffigurava qualcosa di profondamente pagano, si estranea da qualsiasi questione per limitarsi ai fatti; non solo, ma è come se stabilisse un baratro fra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio: si fa dare un denaro, l’equivalente del tributo, e chiede di chi fosse l’immagine ivi raffigurata.

Loro, erodiani e discepoli dei farisei, avevano quella moneta, il denaro o denario, segno che lo utilizzavano e che quindi, de facto, accettavano di essere sudditi di Roma e, viene da pensare non certo a torto, quel tributo lo pagassero già. Per gli erodiani nessuno stupore, che invece si concreta coi farisei e loro discepoli che, se volevano comunque gestire un’autorità, per quanto religiosa, sul popolo, ben dovevano adattarsi ai voleri di Roma.

Quello che però va sottolineato è che Gesù, pur distinguendo nettamente “Cesare” da Dio, li considera parte della vita degli uomini di allora. Qui abbiamo una frase più interpretata che tradotta, “Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” quando l’originale è “Rendete a Cesare le cose di Cesare e a Dio le cose di Dio” che amplia di molto il significato, essendo “le cose” “tutto quello che è di”, quindi non solo il denaro. Traducendo “ciò che”, il concetto può risultare ridotto.

Col parere dichiarato di Gesù entriamo in un campo per noi nuovo perché ci troviamo sottoposti a due poteri, uno temporale e uno spirituale come in Proverbi 24.21, “Figlio mio, temi il Signore e il re, e coi ribelli non immischiarti, perché improvviso sorgerà il loro castigo e la rovina mandata da entrambi chi la conosce?”: si tratta di due poteri ben distinti e, riguardo al “re” non è detto che vada rispettato solo se è giusto, ma anche nel caso contrario.

Così scrivono gli Apostoli Paolo e Pietro: “Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi si devono le tasse, date le tasse; a chi l’imposta, l’imposta; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto” (Romani 13.6-7), “Tenete una condotta esemplare fra i pagani, perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita. Vivete sottomessi ad ogni umana autorità per amore del Signore: sia al re come al sovrano, sia ai governatori come inviati da lui per punire i malfattori e premiare quelli che fanno il bene. Onorate tutti, amate i vostri fratelli, temete Dio, onorate il re” (2 Pietro 12,14,17).

L’unico caso in cui non è ammessa l’ubbidienza alle Autorità costituite, che dovrebbero agire nell’interesse della collettività, è quello in cui intendano costringere il credente a comportarsi in maniera opposta al volere di Dio, come fu nel passato con Sadrac, Mesa e Abednégo che si rifiutarono di adorare la statua d’oro di Nebucadnesar (Daniele 3.16-18), e come disse lo stesso Gesù a Satana che lo tentava, “il Signore, tuo Dio, adorerai: a lui solo renderai il culto” (Matteo 4.10) dove “a lui solo” ci parla dell’unica esistenza in grado di sostenere il peso dell’eternità, della creazione, dell’universo.

Anche la massima sovrana del rapporto col Signore, “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente”, rientra nel principio del “rendere a Dio le cose di Dio”, evento possibile solo e unicamente nel momento in cui Lo si conosce, perché altrimenti amarLo sarebbe impossibile.

E il principio fondamentale è che Dio non può essere amato senza aver fatto un’esperienza diretta con Lui. Qui sta, ancora una volta, la differenza fra religione e fede, che deriva proprio da un contatto diretto che chi non l’ha provato non può capire. Il vero cristiano parla di esperienza di vita con Gesù, della Sua grandezza, del dono vivificante che ha fatto di sé per la sua e altrui salvezza, il religioso parla di riti, di osservanze, di un’infinità di dèi minori che possono soccorrere, intercedere, fare miracoli e guarire, di pellegrinaggi, di penitenze sotto varie forme, dimenticando che il Cristo è Colui che è l’Onnipotente e non ha bisogno di altri collaboratori o intermediari.

Occorre quindi “rendere le cose di Dio” o “di Cesare” perché è scritto che “Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c’è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio” (Romani 13.1): costituite da Lui non perché perfette, ma col fine che gli uomini che le compongono provino su di sé la responsabilità sul popolo loro affidato e ne rispondano personalmente, e basta scorrere i libri storici della Scrittura per vedere quanti re hanno agito secondo il Signore o hanno fatto del male, alcuni di loro anche molto.

Con l’indicazione a “rendere a Cesare le cose di Cesare e a Dio le cose di Dio”, Gesù quindi separa fra loro le due aree, ma non sminuisce la prima a sottolineare che, nonostante estranea ad Israele e pagana, andava osservato quanto da lei stabilito.

Anche per noi, che viviamo un tempo difficile in cui corrotti e corruttori hanno praticamente il dominio del mondo, fino a quando non arriverà il tempo in cui si dichiareranno apertamente in opposizione al Vangelo, vale lo stesso principio, restare soggetti a un sistema che certo non onoriamo, ma che è lì per volere di Dio, comunque soggetto ai Suoi piani e in quanto tale va rispettato in attesa che, se sarà in grado e troverà argomenti giustificativi, venga chiamato a rendere conto davanti a Lui. Ma sappiamo che, come l’abusivo alle nozze, ammutolirà.

Ultima considerazione, conscio del fatto di avere comunque espresso concetti stringati sui quali ciascuno potrà riflettere, va fatta sulla reazione degli insidiatori di Gesù: per Matteo “rimasero meravigliati”, secondo Marco “ammirati” (12.17), Luca invece aggiunge “Così non riuscirono a coglierlo in fallo nelle sue parole di fronte al popolo e, meravigliati della sua risposta, tacquero”. È degno di nota Marco, che con quell’ “ammirati” intende dire che Gesù aveva soddisfatto con la sua risposta entrambe le fazioni che erano andate da lui, gli erodiani perché aveva ammesso il tributo a Cesare, i discepoli dei farisei perché aveva specificato che, assolvendo al tributo, non per questo potevano sentirsi a posto con la loro coscienza in quanto restava sempre aperto il conto con Dio. Certo, interpretarono la risposta a modo loro. Non era infatti pensabile che, limitandosi alla dazione di un denaro, fosse chiusa la questione, anzi, per concludere possiamo leggere le parole di Malachia 3.8-9, 8Può un uomo frodare Dio? Eppure voi mi frodate e andate dicendo: «Come ti abbiamo frodato?». Nelle decime e nelle primizie. 9Siete già stati colpiti dalla maledizione e andate ancora frodandomi, voi, la nazione tutta! 10Portate le decime intere nel tesoro del tempio, perché ci sia cibo nella mia casa; poi mettetemi pure alla prova in questo – dice il Signore degli eserciti -, se io non vi aprirò le cateratte del cielo e non riverserò su di voi benedizioni sovrabbondanti”.

La mancanza d’amore per Dio, che deriva dal non averlo conosciuto e sperimentato, porta alla frode nei Suoi confronti perché l’essere umano si ritiene, nella propria assurda e tragica ignoranza, più furbo di Lui: 6Il figlio onora suo padre e il servo rispetta il suo padrone. Se io sono padre, dov’è l’onore che mi spetta? Se sono il padrone, dov’è il timore di me? Dice il Signore degli eserciti a voi, sacerdoti che disprezzate il mio nome. Voi domandate: «Come lo abbiamo disprezzato il tuo nome?». 7Offrite sul mio altare un cibo impuro e dite: «In che modo te lo abbiamo reso impuro?». Quando voi dite: «La tavola del Signore è spregevole» 8e offrite un animale cieco in sacrificio, non è forse un male? Quando voi offrite un animale zoppo o malato, non è forse un male? Offritelo pure al vostro governatore: pensate che sarà soddisfatto di voi o che vi accoglierà con benevolenza? Dice il Signore degli eserciti” (Malachia 1.6-8).

E torniamo all’originario peccato di Caino, che pretendeva di instaurare un rapporto con Dio che si piegasse ai suoi voleri e accogliesse sacrifici con un cuore lontano da Lui. Amen.

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