15.21 – Gli operai della vigna (Matteo 20.1-16)
1 Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. 3Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, 4e disse loro: «Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò». 5Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno, e verso le tre, e fece altrettanto. 6Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». 7Gli risposero: «Perché nessuno ci ha presi a giornata». Ed egli disse loro: «Andate anche voi nella vigna».
8Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: «Chiama i lavoratori e da’ loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi». 9Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. 11Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone 12dicendo: «Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo». 13Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: «Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? 14Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: 15non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?». 16Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».
Riferita dal solo Matteo, è una delle parabole a mio giudizio più complesse esposte da Gesù e suscettibile, ad una generica lettura, di fraintendimenti destinati a provocare domande che restano irrisolte.
Prima di addentrarci nel racconto, va detto che la nostra versione, per come inizia, lascia supporre che l’esposizione della parabola sia avvenuta per un insegnamento isolato, difficilmente collocabile nel tempo, ma questo accade perché qui è stato omesso di tradurre l’avverbio greco “gar”, “poiché, infatti”, col quale si apre il verso 1. Dobbiamo quindi collegare la vicenda degli operai della vigna alla domanda che Pietro aveva rivolto a Gesù poco prima: “Ecco, noi abbiamo abbandonato ogni cosa e ti abbiamo seguito: cosa ne avremo?”. Questa parabola allora non solo rientra nell’insegnamento sulle conseguenze del “lasciare ogni cosa”, ma lo estende, lo amplifica inquadrandolo nell’ottica dei tempi che si sarebbero succeduti e la destina a tutti coloro che avrebbero creduto, come possiamo già intravedere dal fatto che il “padrone di casa” esce cinque volte nel corso della giornata: all’alba, alle nove, a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio e alle cinque.
Se nell’identificare il “padrone di casa” non esistono problemi, credo sia necessario spendere un po’ del nostro tempo per indagare attorno alla “vigna”, che si riferisce chiaramente a un territorio, o per meglio dire a un ambiente di proprietà di Dio e sul quale ha dei progetti. Per capire la vigna occorre tener presente le numerose parabole su di essa, come quella dei contadini omicidi e del fico sterile, piantato appunto nella vigna del padrone che parlò al suo fattore perché lo tagliasse. Proprio in quest’ultima è interessante sottolineare l’inizio, “C’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna” (Matteo 21.33), che ci rivela quanto fosse coinvolta quella persona che, invece di vendere il suo terreno e non occuparsi più di nulla, decise di lavorarlo e piantare una coltivazione che richiede molta professionalità e attenzione come non avviene per un generico campo di frumento.
Invece quel padrone, tramite collaboratori, desidera che da terra anonima quell’appezzamento diventi qualcosa di particolare e ne personalizza l’aspetto rendendola autosufficiente per la produzione del vino: “la circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre” (v.33,34). Ecco il progetto: una siepe per proteggerla da eventuali animali, una buca per il torchio per estrarre il succo dagli acini e produrre vino, una torre per vigilare su di essa, segno che quel territorio doveva essere davvero vasto.
La “vigna” è composta da un numero indefinito di piante ed in essa si individua il popolo di Dio secondo Salmo 80.8-16 “Dio degli eserciti, fa’ che ritorniamo, fa’ splendere il tuo volto e noi saremo salvi. Hai sradicato una vite dall’Egitto, hai scacciato le genti e l’hai trapiantata. Le hai preparato il terreno, hai affondato le sue radici ed essa ha riempito la terra. La sua ombra copriva le montagne e i suoi rami i cedri più alti. Ha esteso i suoi tralci fino al mare, arrivavano al fiume i suoi germogli. Perché hai aperto brecce nella sua cinta e ne fa vendemmia ogni passante? La devasta il cinghiale del bosco e vi pascolano le bestie della campagna. Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte”. Possiamo vedere da questi versi lo sviluppo e la testimonianza del Popolo di Dio che, a un certo punto, fallisce e viene punito per la sua inerzia e infedeltà.
Altro passo interessante che integra il precedente lo troviamo in Isaia 51.1-7 in cui vengono contrapposte le intenzioni migliori del costruttore e il risultato assolutamente anomalo delle piante: “Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l’aveva dissodata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato viti pregiate; in mezzo vi aveva costruito una torre e scavato anche un tino – si notino le affinità con la parabola sopra ricordata –. Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi. E ora, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici fra me e la mia vigna. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto? Perché, mentre attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi? Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: toglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto, non sarà potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni; alle nubi comanderò di non mandarvi la pioggia. Ebbene, la vigna del Signore degli eserciti è la casa d’Israele; gli abitanti di Giuda sono la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi”.
Questo aspetto viene poi ripreso da Geremia 2.21, “Io ti avevo piantato come vigna pregiata, tutta di vitigni genuini; come mai ti sei mutata in tralci degeneri di vigna bastarda? Anche se tu ti lavassi con soda e molta potassa, resterebbe davanti a me la macchia della tua iniquità. Oracolo del Signore”.
La vigna allora, figura del Popolo di Dio, ha un suo significato storico ed uno attuale, è anche quel “campo” in cui “un nemico” ha seminato la zizzania, è un sistema molto più complesso che è stato descritto da Gesù in Giovanni 15.1-8 “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli”.
Altro elemento che indica il territorio di Dio è il “campo”, quando Gesù disse, spiegando la parabola delle zizzanie, “il campo è il mondo e il seme buono sono i figli del Regno. La zizzania sono i figli del Maligno” (Mt 13.38): una zona enormemente vasta in cui l’Avversario ha potuto seminare grazie alla disubbidienza di Adamo che lo ha messo in condizione di operare quando, al contrario, doveva operare in un ambito diverso ed essere collaboratore dell’Eterno.
Non è possibile classificare univocamente la vigna, nel senso che comporta più atteggiamenti tanto di Dio e di Gesù quanto dell’uomo che vi lavora, operaio e tralcio al tempo stesso e si possa fare attorno a lei un’ultima annotazione: in Matteo 9. 37,39 Gesù, vedendo le folle, “ne sentì compassione perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è grande, ma pochi sono gli operai! Pregate dunque il Signore della messe, perché mandi operai nella sua messe»” (Matteo 9.37,38; Luca 10.2); qui vediamo un campo sterminato pronto – in prospettiva – per essere colto, in cui è necessario che ci siano uomini in grado di lavorare e mettere al sicuro ogni piantina. E da questi versi vediamo quando sia facile generalizzare e confondere la terminologia: c’è un “campo” che è il “mondo”, c’è un “granaio”, c’è la “zizzania” che verrà raccolta e bruciata (non da noi), c’è una “vigna” che ha bisogno di “operai”, c’è una “vite” che ha dei “tralci” e ciascuno di questi elementi è in stretto rapporto comunque con gli altri; credo che, nel caso della parabola che stiamo per esaminare, la “vigna” in cui gli operai vengono mandati a lavorare sia un territorio che simboleggia l’opera di Dio attraverso i secoli che si concreta attraverso il cammino del Suo Popolo, sempre Chiesa nel senso di “chiamati fuori” a prescindere dall’epoca in cui ha operato. Non a caso Giovanni Diodati, commentando l’Antico Testamento, parla di “Chiesa” anche riguardo a Israele.
Tornando al nostro testo, la prima uscita del padrone è all’alba, quando ai tempi di Gesù e ancora per molto tempo dopo i lavoratori a giornata si riunivano coi loro attrezzi sulla piazza del mercato e attendevano chi li chiamasse. È molto indicativo il fatto che è il padrone stesso a svegliarsi, alzarsi e uscire di casa, chiamando personalmente ciascun lavoratore stabilendo il prezzo, cioè un denaro che era la paga giornaliera ordinaria di un operaio. Avrebbe potuto delegare questo compito a un servitore che certamente aveva, ma volle interessarsi personalmente della vigna quasi fosse un prolungamento di se stesso, una parte di lui.
Appare chiaro che la “vigna” allude a qualcosa di grande, importante a tal punto da richiedere manodopera aggiuntiva per cinque volte: prima all’alba, poi alle nove del mattino (l’ora terza), a mezzogiorno, alle tre del pomeriggio (l’ora sesta e la nona) e infine verso le cinque (l’ora undicesima), quando mancava poco al finire del giorno e nonostante tutto l’opera di quegli uomini era ancora necessaria.
Mi sono chiesto cosa simboleggiassero queste differenti ore e i relativi lavoratori: si tratta del Popolo di Dio in cammino? Gli operai che vengono chiamati all’alba, sono coloro che operarono sotto la Legge e gli ultimi nella “Grande Tribolazione”, oppure si tratta di persone che si convertono chi in età giovane, chi quando la vita è in gran parte trascorsa? Propenderei per la seconda ipotesi perché nella parabola c’è questa successione temporale e sono proprio quelli delle cinque pomeridiane cui viene detto “Perché ve ne state qua tutto il giorno senza far niente?”, domanda che si collega ad un invito ben più importante che leggiamo in Isaia 55.2,3 “Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti. Porgete l’orecchio e venite a me, ascoltate e vivrete”.
L’invito ai lavoratori dell’ultimo tempo credo sia da leggersi in questo modo, così come tutte le persone chiamate a lavorare sono da inquadrarsi sotto l’ottica dell’apostolo Paolo in 1 Corinti 3.9 quando scrive “Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete campo di Dio, edificio di Dio”, arrivando a Colossesi 3.23,24 che ci anticipa il senso della parabola relativo al denaro ricevuto da quei lavoratori: “Qualunque cosa facciate, fatela di buon animo, come per il Signore e non per gli uomini, sapendo che dal Signore riceverete come ricompensa l’eredità”.
L’eredità è proprio la ricompensa che è simboleggiata dal “denaro” col quale il padrone della vigna si era accordato coi lavoratori all’alba e che viene dato anche agli ultimi, quelli del tardo pomeriggio che avevano faticato molto meno, un’ora o poco più stante il fatto che la paga viene data al tramonto: i lavoratori dell’alba non si sentono defraudati di qualche cosa perché il denaro convenuto era stato loro dato, ma perché non ritenevano giusta la proporzione fra il loro lavoro e quello degli ultimi chiamati; in altre parole, sono la figura di quei credenti che dimenticano di confrontarsi con Dio e guardano i loro simili, come vivono, vanno a sindacare ciò che hanno ricevuto da Dio e si lasciano sopraffare da sentimenti di invidia e restano scontenti.
Gesù, con questa parabola, non intende screditare l’operato dei primi, ma con le parole “Prendi il tuo e vattene” intende ribadire che, in quanto padrone, così è il suo deciso e che non poteva essergli nulla rilevato perché i patti erano stati rispettati: “un denaro” per quelli chiamati all’alba, “ciò che è conveniente” per quelli delle nove, di mezzogiorno e delle tre, addirittura non si era parlato di compenso per quelli delle cinque.
Possiamo fare una connessione con Romani 9.15-23: “Che diremo dunque? C’è forse ingiustizia da parte di Dio? No, certamente! Egli infatti dice a Mosè: Avrò misericordia per chi vorrò averla, e farò grazia a chi vorrò farla. Quindi non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia. (…) O uomo, chi sei tu, per contestare Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «Perché mi hai fatto così?». Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare? Anche Dio, volendo manifestare la sua ira e far conoscere la sua potenza, ha sopportato con grande magnanimità gente meritevole di collera, pronta per la perdizione. E questo, per far conoscere la ricchezza della sua gloria verso gente meritevole di misericordia, da lui predisposta alla gloria, cioè verso di noi, che egli ha chiamato non solo tra i Giudei ma anche tra i pagani.
Questo ci porta a considerare un fatto importante e cioè che il mormorio prodotto, “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”, contengono tutto il metodo valutativo umano in senso egoistico descritto con la contrapposizione dei termini “invidioso” e “buono” delle parole del padrone della vigna. In altri termini i “mormoratori” non avrebbero avuto nulla da ridire sulla paga di un denaro per un giorno di lavoro, ma criticano l’operato del padrone senza motivo visto che, del suo, poteva fare quello che voleva, anche dare la stessa paga a chi aveva “lavorato solo un’ora”.
Da qui deriva la risposta “Prendi ciò che è tuo e vattene”: chi aveva ragionato in quel modo era bene che prendesse la sua ricompensa e non dicesse più nulla, tenendosi il compenso per la fatica che certamente aveva impiegato nel lavorare tutto il giorno, ma sarebbe stato un “ultimo” nel senso che la valutazione espressa sugli altri lavoratori aveva fatto sì che avesse perso parte della considerazione in cui lo avrebbe tenuto il proprietario della vigna.
Quindi: ogni operaio prende il proprio premio, lo stesso, indipendentemente da quanto ha lavorato in termini di quantità oraria che non ha nulla a che vedere con quello che verrà dato in seguito, “in base a quanto ognuno avrà operato”, per cui l’essere “primo” o “ultimo” è qualcosa che compete solo a Dio, sorpassando ogni valutazione o presunzione umana.
“Prendi ciò che è tuo e vattene” può suonare anche come una sentenza e in un certo senso lo è perché, pur non andando ad intaccare la retribuzione in cui possiamo vedere la salvezza, comporta l’assegnazione della stanza in quella “casa” dove ve ne sono molte e vi sarà chi avrà posti prestigiosi, i “primi”, e chi invece dovrà occupare “gli ultimi”.
Si può concludere con le parole di Giuseppe Ricciotti che scrive “L’insegnamento generico di questa parabola è che la liberalità di Dio si riversa su chi vuole e nella misura che ne vuole e che la ricompensa finale dei seguaci di Gesù sarà nella sua parte essenziale eguale per tutti. (…) I braccianti della vigna si riferiscono a quei discepoli che in vista del regno dei cieli si ritenevano per qualsiasi ragione più adorni di meriti che altri, specialmente quei Giudei di spirito onesto ma di mentalità strettamente giudaica che si ritenevano più accetti a Dio per la loro appartenenza alla nazione eletta. Per costoro i pubblicani, le meretrici e anche i pagani, potevano essere ammessi nel regno dei cieli quando si fossero convertiti, tuttavia in quel regno sarebbero stati di gran lunga dietro ai fedeli e genuini israeliti, pieni di millenari meriti al cospetto di Dio. Gesù invece insegna che siffatti primati scompariranno e che la liberalità del Re dei cieli potrà far passare gli ultimi ai primi posti, cosicché coloro che già erano primi diventeranno ultimi”. Amen.
* * * * *