14.14 – TRE PARABOLE: IL FIGLIO PRODIGO 3/4 (Luca 15.22-24)

14.14 – Tre parabole – 3, il figlio prodigo 3 (Luca 15.22-24)

 

22Ma il padre disse ai servi: «Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato». E cominciarono a far festa.

 

Questi due versi sono interamente dedicati alla reazione del padre e alle sue parole ed iniziano con l’avversativa “Ma” che introduce qualcosa che il figlio non si aspettava: era convinto di finire un discorso che si era preparato, quello di chiedere un posto tra i servi, e si ritrova accolto con una gioia che lo sorprende. Non è una banalità affermare che, se si vive in un peccato, professionalmente o incidentalmente a causa della propria defettibile natura (persistendo in esso), quando si ritrova il Padre dopo avergli confessato la colpa e averla abbandonata, si scopre un mondo che va al di là delle nostre aspettative.

Ricordando la frase che il giovane avrebbe voluto pronunciare, “Trattami come uno dei tuoi salariati”, vediamo che il riferimento è a quelle persone che venivano prese e pagate a giornata, come insegna la parabola dei lavoratori delle diverse ore. È una frase che andava a rafforzare la precedente, “Ho peccato verso il Cielo e davanti a te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”: conscio del fatto che nella casa paterna non gli apparteneva più nulla, avrebbe voluto dire che da ora in poi avrebbe lavorato per mantenersi.

Il padre non solo non gli lascia finire il discorso, ma ordina che gli fosse fatto indossare “il vestito più bello”, di mettergli “l’anello al dito” – anche se la traduzione corretta è “un” – e “i saldali ai piedi”, anche se vedremo che sandali non erano. Cerchiamo ora di analizzare questi tre elementi.

 

Il vestito più bello

Il vestito, da sempre, qualifica la persona e molto si può capire del suo carattere e condizione osservando come viene indossato e dalla cura con la quale è tenuto. Il vestito a volte rivela la funzione che ha un individuo nella società e in ogni caso serve per renderci presentabili agli altri. Ciò che indossava quel giovane era quanto di più umiliante ci fosse perché non solo si portava addosso lo sporco dei maiali, ma anche il risultato dell’impossibilità di lavarlo decentemente, la polvere, il sudore, insomma tutto quanto si era accumulato nel tempo passato a custodire i porci e a camminare da quel “paese lontano” fino a casa.

Questo ci parla del fatto che quando l’essere umano compare davanti a Dio è sempre impresentabile perché, a prescindere dalla vita che ha vissuto fino a quel punto, si troverà sempre a indossare qualcosa di inadatto: il problema non è cosa si è fatto prima dell’incontro con Lui, ma che il vestito è comunque sporco, impossibile da lavare come leggiamo in Geremia 2.22, “Anche se tu ti lavassi con soda e molta potassa, resterebbe davanti a me la macchia della tua iniquità”. Ecco il perché della parabola degli invitati alle nozze in cui a tutti i convenuti, tranne uno, era stato inviato un vestito dal padrone di casa ed ecco perché proprio quell’uno viene cacciato fuori.

Abbiamo anche Isaia 61.10 che introduce un altro elemento di questa parabola: “Io gioisco pienamente  nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti della salvezza, mi ha avvolto con il mantello della giustizia, come uno sposo si mette il diadema e come una sposa si adorna di gioielli”. Qui abbiamo un soggetto, il Signore, che riveste una persona, cioè toglie un abito inadeguato e ne mette uno nuovo che mai potrebbe comprare coi propri mezzi: è Lui a vestire con le “vesti della salvezza”, ma non solo, avvolge “con il mantello della giustizia”, la persona.

È solo la gioia del padre, e del suo amore per il figlio ritrovato, che lo porta a far sì che quello indossasse “il vestito più bello”: non “uno” dei tanti, ma “il”, vale a dire che, una volta indossato, quel giovane avrebbe potuto essere considerato più di tutti gli altri perché nessuno avrebbe potuto vestire in quel modo senza il consenso del padrone di casa. Per il solo fatto di essere tornato a casa, quindi, il figlio ex prodigo viene posto in una posizione privilegiata, addirittura migliore di quella del fratello maggiore che, mentre accadevano queste cose, era al lavoro nei campi.

 

Un anello al dito

È importante specificare che un conto è tradurre “un” e un conto “lo”: il determinativo infatti allude a un oggetto unico, l’indeterminativo a qualcosa di generico, per quanto importante trattandosi non di un semplice gioiello, ma di un segno di autorità che va ad affiancarsi al vestito. A proposito dell’anello ricordiamo Giuda, che lo diede a Tamar come pegno (Genesi 38.18), quelli che portavano Giuseppe, Jezebel, Aman, Mardocheo. Per capire l’anello vale la citazione di Genesi 41.41,42: “Il faraone disse a Giuseppe: «Ecco, io ti metto a capo di tutta la terra d’Egitto». Il faraone si tolse di mano l’anello e lo pose sulla mano di Giuseppe – particolare da tenere a mente perché verrà utile più avanti –; lo rivestì di abiti di lino finissimo e gli pose al collo un monile d’oro”.

Ora quel padre, ordinando ai servi di mettere al figlio minore “un anello al dito” non voleva significare che fosse diventato di punto in bianco la sola autorità – o comunque quella più alta – della casa, ma che gli era stata data una responsabilità e una funzione che prima non aveva. E viene da pensare, credo a ragione, che l’anello lo portassero anche il padre e il fratello.

Altra osservazione che costituisce un eccellente parallelo con Giuseppe: in realtà il genitore non dice ai servi “mettetegli l’anello al dito”, ma “date l’anello nella sua mano” e non è una sottigliezza così tanto per fare della pignoleria perché se l’anello fosse stato messo al dito da uno dei servi avrebbe costituito un’azione passiva da parte del figlio ritornato che, invece, doveva accettare, indossandolo, quanto gli veniva dato in mano. Lo stesso fece Giuseppe: entrambi, mettendosi al dito l’anello, si impegnavano a vivere in modo nuovo, accettando non un ordine, ma una proposta. L’anello era in un certo qual modo la firma che veniva apposta al contratto e possiamo paragonarlo al battesimo, fondamentale per la persona che è stata salvata e ha maturato la sua intenzione di entrare nella famiglia di Dio.

 

I sandali

Ancora una volta va fatta una correzione al testo: personalmente, per l’analisi, faccio riferimento a tre versioni, la Diodati del 1641, quindi non ancora deturpata da interventi a volte molto discutibili, la traduzione letterale di Don Piero Ottaviano sul sito Didaskaleion, e il testo greco. Ebbene, Diodati al posto di “sandali” usa “scarpe” e gli altri due “calzari” a indicare che il terzo elemento dato al figlio tornato a casa era qualcosa che i servi non portavano.

Se i sandali erano un oggetto idoneo al camminare per le strade o per svolgere le attività comuni, i calzari erano sinonimo di una vita diversa, che pochi potevano condurre.

 

Considerando quanto finora esaminato, va fatta una precisazione importante e cioè che questa parabola non va vista, in questa parte del pentimento e della riabilitazione, come qualcosa di immediato, ma, nel momento in cui si desidera decifrarla per portarla al mondo reale, di progressivo, qualcosa che dura nel tempo. A parte tutto ciò che è stato scritto, il vestito più bello che viene dato, per noi, ha attinenza sicuramente con la nuova dignità acquistata vista nella nostra “adozione a figli” (Galati 4.5), ma ancor più con il percorso di santificazione al quale siamo chiamati.

E per indossare un nuovo vestito occorre mettere da parte il vecchio, “La notte è avanzata, il giorno è vicino. Perciò gettiamo via le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce” (Romani 13.12). Ancora Efesi 4.20-24: “ma voi non così avete imparato a conoscere il Cristo, se davvero gli avete dato ascolto e se in lui siete stati istruiti, secondo la verità che è in Gesù, ad abbandonare con la sua condotta di prima l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli, a rinnovarvi nello spirito della vostra mente e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità”.

Infine, il passo più impegnativo: “Non dite menzogne gli uni agli altri: vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine di colui che l’ha creato”. Impegnativo perché non sempre riusciamo a rinnovarci tutti i giorni: fuori dalla meditazione, dalla preghiera personale e dalle riunioni di Chiesa, qualora essa sia degna di tale nome, esiste un mondo dominato da un principe che allarga sempre i più i suoi domìni manifestandosi nel modo che tutti noi constatiamo e restarne fuori non è facile. È un mondo dove l’ingiustizia si traveste da giustizia, in cui se si cerca la giustizia si trova la legge, la dignità è assente e quei sentimenti che, indipendentemente dalla fede, un tempo potevano formare le persone predisponendole alla ricezione di un messaggio anche solo morale, vengono repressi e se possibile cancellati dalla memoria. E questo a volte, quando viene “toccato con mano”, può essere molto disturbante.

Il vestito, l’anello e i calzari sono tutti oggetti che, perdurando la situazione di peccato, quel giovane non avrebbe mai potuto possedere, permettersi; invece, gli sono stati donati gratuitamente. E qui possiamo avere un riferimento a Giosuè, che davanti all’Angelo del Signore “Era rivestito di vesti sporche e stava in piedi davanti all’angelo, il quale prese a dire a coloro che gli stavano intorno: «Toglietegli quelle vesti sporche». Poi disse a Giosuè: «Ecco, io ti tolgo di dosso il peccato, fatti rivestire di abiti preziosi»” ( Zaccaria 3.3,4).

Al figlio prodigo, successe così. All’umiliazione del peccato, fu sostituita la pienezza della grazia e fu posto in grado, con i tre elementi che gli vennero consegnati, di camminare in novità di vita. Solo una volta vestito con gli elementi che il Padre volle che vengano dati al peccatore pentito questi può essere reso presentabile agli occhi di Dio, a se stesso e agli altri; viceversa potrà essere solo protagonista di una mediocre e noiosa commedia recitata da attori scadenti che, a volte, dimenticano la propria parte.

A noi e a chiunque si pente della propria vita e dei propri errori sono stati offerti il vestito, l’anello e i calzari, doni di cui dovremo un giorno rendere conto e di qui la necessità di pregare e agire per non essere colti in un doloroso rimprovero.

Infine, abbiamo la festa che viene data immediatamente con una motivazione che usa termini contrapposti fra loro, “morto – tornato in vita”, “perduto – ritrovato” che sicuramente colpirono l’uditorio di Gesù perché andavano a completare entrambe le parabole prima esposte e contemporaneamente ampliandole perché, lontani dal Padre, c’è sempre uno stato di morte. “Ma Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amato, da morti che eravamo per le colpe, ci ha fatto rivivere con Cristo: per grazia siete stati salvati” (Efesi 2.4), perché “eravate erranti come pecore, ma ora siete stati ricondotti al pastore e custode delle vostre anime” (1 Pietro 2.25).

Ultima osservazione credo sia doverosa farla sul cibo che il padre avrebbe offerto al figlio pentito, certo non paragonabile a quello che assumeva in quel “paese lontano”: là, caduto in rovina, non poteva neppure prendere le carrube per i porci; tornato dal padre, però, si trovò nella situazione opposta, soprattutto per la dignità che aveva non solo riacquistato, ma che si era in un certo senso accresciuta. Così è stato anche per me e, non essendo un privilegiato nel senso umano del termine, anche per tutti coloro che del figlio prodigo hanno fatto l’esperienza. Amen.

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