14.04 – Il lamento di Gesù su Gerusalemme (Luca 13.34,35)
34Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono stati mandati a te: quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! 35Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi! Vi dico infatti che non mi vedrete, finché verrà il tempo in cui direte: Benedetto colui che viene nel nome del Signore!».
Direttamente connesso al verso precedente, quando Gesù disse che “non è possibile – o “conveniente” – che un profeta muoia fuori di Gerusalemme”, il verso 35 è una dichiarazione d’amore alla “Santa Città” che, rimanendo tale nei piani di Dio sotto la prospettiva di quella “celeste”, affidata agli uomini, ha fallito il suo mandato.
Iniziamo allora dal nome, “Gerusalemme”, che tradotto significa “fondazione di pace”, cioè Salem. Questo ci ricorda “Melchidedek, re di Salem” (Genesi 14.18), e soprattutto uno dei due monti su cui essa sorge, sul quale Abrahamo stava per sacrificare Isacco. Altro suo nome è Sion, essenzialmente “Segno”. E “Segno” infatti fu sempre: fu la “Città di Davide” in cui trasportò l’arca dell’alleanza e Salomone vi costruì il Tempio che andò a sostituire la tenda del convegno. L’area del Tempio occupava la cima del monte Moria, quello del sacrificio di Isacco. Sion fu il nome del Moria.
Gerusalemme, proprio in quanto figura spirituale, in un certo senso “Città di Dio” con il Tempio in cui JHWH dimorava, rappresentò sempre il termometro spirituale del popolo di Israele e dei suoi conduttori: fu per giudizio che la città ebbe le mura abbattute e la popolazione fu deportata (2 Re 25.1-21), per perdóno che nel 538 Ciro emanò il famoso editto che autorizzò il ritorno in patria degli ebrei.
Fu retta dai Persiani, occupata da Alessandro Magno (332 a.C.), dai re Tolomei d’Egitto e dai Seleucidi siriani, nel 167 abbiamo la profanazione di Antioco Epifane di cui abbiamo parlato, la riconquista con Giuda Maccabeo e poi nel 63 Pompeo, generale romano, la riconquistò insediandovi come re Erode il Grande.
Quello che è stato definito il “lamento di Gesù su Gerusalemme”, riportato identico da Matteo (13.34,35) anche se probabilmente si verificò in un altro momento, è anche un atto d’accusa: la città che coi suoi abitanti avrebbe dovuto illuminare il mondo, rifiutò questo compito uccidendo i profeti e lapidando quelli che erano stati inviati a lei; tramite loro Dio avrebbe voluto raccogliere il popolo sotto le Sue ali dove avrebbe ricevuto amore e protezione. Nello scorso studio erano stati citati Zaccaria figlio di Ioiadà, ucciso dal re Ioas, ma sono molti di più, come riassume Nehemia 9.25,26 quando leggiamo “Essi si sono impadroniti di città fortificate e di una terra grassa e hanno posseduto case piene di ogni bene, cisterne scavate, vigne, oliveti, alberi da frutto in abbondanza; hanno mangiato e si sono saziati e si sono ingrassati e sono vissuti nelle delizie per la tua grande bontà. Ma poi hanno disobbedito e si sono ribellati contro di te, si sono gettati la tua legge dietro le spalle, hanno ucciso i tuoi profeti che li ammonivano per farli tornare a te, e ti hanno insultato gravemente”. È comunque raccomandabile la lettura dei versi successivi che testimoniano l’indurimento di cuore del popolo cui si contrappone l’amore di Dio che chiama alla conversione.
L’uccisione dei profeti è riportata da molti passi dell’Antico Patto, ad esempio Geremia 2.30 (“La vostra spada ha divorato i vostri profeti come un leone distruttore”), ma è sufficiente andare alle parole di Gesù nella parabola dei contadini omicidi per capire la portata del misfatto operato dal popolo e dai suoi rettori: “Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo” (Matteo 21-35.36).
È chiaro che l’uccisione di un profeta è il rifiuto più eloquente di ascoltare il messaggio di Dio che lo ha inviato, talché “Il mio popolo non ha ascoltato la mia voce, Israele non mi ha obbedito: l’ho abbandonato alla durezza del suo cuore. Seguano pure i loro progetti!” (Salmo 81.12,13). Ma dove li avrebbero portati questi progetti, anche quelli di oggi? Nel nostro passo abbiamo parole differenti, ancora più crude perché dicendo “la vostra casa è abbandonata a voi”, che una traduzione migliore riporta con “La vostra casa è lasciata deserta”, si allude chiaramente a ciò che contiene, cioè il Tempio, centro di tutto il Giudaismo, in cui l’Iddio di Israele abitava: questi sarebbe stato lasciato vuoto, la presenza del Signore se ne sarebbe andata per sempre e la dimostrazione di ciò sarebbe stato proprio il fatto che tutta Gerusalemme sarebbe stata data in mano ad altri: nel 70 d.C. le armate di Tito conquistarono la città, ne abbatterono le mura e incendiarono il Tempio. In una guerra avvenuta anni dopo, nel 135, l’imperatore Adriano distrusse sistematicamente la città ricostruendola sul modello delle città coloniali romane e, tra l’altro, cambiò in nome da Gerusalemme a Ælia Capitolina.
Confrontando questi dati con le parole del pianto di Gesù su Gerusalemme in Luca 19.42-44 ne vediamo l’adempimento: “Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, ti assedieranno e ti stringeranno da ogni parte, distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non hai riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata”.
Ad aggravare poi la drammaticità del tutto è il fatto che il rifiuto dell’ascolto del Figlio di Dio equivaleva a quello di Dio stesso e il libro del Levitico, quindi la Torah, annunciava le medesime, terribili conseguenze: “Se, nonostante tutto questo non vorrete darmi ascolto, ma vi opporrete a me, anch’io mi opporrò a voi con furore e vi castigherò sette volte di più per i vostri peccati. Mangerete perfino la carne dei vostri figli e mangerete la carne delle vostre figlie. Devasterò le vostre alture, distruggerò i vostri altari per l’incenso, butterò i vostri cadaveri sui cadaveri dei vostri idoli e vi detesterò. Ridurrò le vostre città a deserti, devasterò i vostri santuari e non aspirerò più il profumo dei vostri incensi. Devasterò io stesso la terra, e i vostri nemici, che vi prenderanno dimora, ne saranno stupefatti. Quanto a voi, vi disperderò fra le nazioni e sguainerò la spada dietro di voi; la vostra terra sarà desolata e le vostre città saranno deserte.” (26.27-33). Gerusalemme, allora, qui è un termine che riguarda la città quanto all’uccisione dei profeti, ma tutto Israele quanto a giudizio.
Ebbene, Gesù con le parole “Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia i pulcini sotto le sue ali”, parla come Pastore del suo popolo e si riferisce non solo ai suoi tre anni di ministero, ma a tutte le Sue iniziative nella storia, attuate da Lui o dai profeti mandati perché lo riconoscessero una volta nato sulla terra. Come dice l’apostolo Pietro nella sua prima lettera (1.11), “essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite”. Le “volte” in cui Gesù volle raccogliere i figli di Gerusalemme (come simbolo e destinazione finale) furono davvero innumerevoli.
Il riferimento alle ali, poi, non è una forma poetica, ma la descrizione degli intendimenti di protezione come avvenuto con Giacobbe, poi chiamato Israele di cui è detto “Egli – il Signore – lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali” (Deuteronomio 32.10,11). Vediamo che alla “chioccia” qui è sostituita l’ “aquila” non perché rapace, ma per le altezze che è in grado di raggiungere oltre alla vista acuta, mentre il concetto di “nidiata” rimane intatto. Inoltre, la metafora delle ali non era certo sconosciuta: ricordiamo le parole di Booz a Rut in 2.12 del libro omonimo: “…sia davvero piena per te la ricompensa da parte del Signore, Dio d’Israele, sotto le cui ali sei venuta a rifugiarti”. Anche Salmo 36.8 e molti altri passi che non riporto alludono alla stessa situazione: “Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio! Si rifugiano gli uomini all’ombra delle tue ali”.
Eppure Gesù dice “e non avete voluto!”. Qui l’attenzione da prestare è grande perché coinvolge anche gli uomini di ogni tempo: non è detto “…e non avete capito”, o “avete frainteso”, ma chiama in causa una volontà cosciente e lucida, una scelta paragonabile a Giovanni 5.40, “Voi non volete venire a me per cambiare vita”. La volontà infatti nasce dal cuore, dall’anima e dallo spirito dell’essere umano che, purtroppo, nella maggioranza dei casi preferisce fare affidamento alle proprie forze, convinto di scegliere e decidere da sé il proprio destino, convinto di vivere sempre un eterno presente e realizzando purtroppo quando ormai è tardi che così non è. E possiamo ricordare Proverbi 1. 28-31: “Allora mi invocheranno, ma io non risponderò, mi cercheranno, ma non mi troveranno. Perché hanno odiato la sapienza e non hanno preferito il timore del Signore, non hanno accettato il mio consiglio e hanno disprezzato ogni mio rimprovero; mangeranno il frutto della loro condotta e si sazieranno delle loro trame”.
Proseguendo nella lettura del nostro passo abbiamo l’ ”Ecco, la vostra casa è abbandonata a voi”, su cui torno ancora un attimo: abbiamo il motivo nel senso che “Ecco” qui ci da la modalità dell’abbandono: “Da ora innanzi non mi vedrete” nel senso che Gesù, Uno col Padre, con la Sua assenza provocherà l’invisibilità di Dio a quello che era il Suo popolo. Il rifiuto del Cristo quale Dio invisibile, “Padre per sempre” secondo Isaia, sarebbe stata cosa ben peggiore rispetto a quando Israele abbracciò l’idolatria e servì dèi stranieri.
A questo punto però vediamo che l’abbandono non sarà definitivo come rilevabile dal “finché diciate”, cioè “non mi riconoscerete per quello che sono”, cioè “Colui che viene nel nome del Signore”, parole tratte da Salmo 118.26 e che, per quanto dette dalla folla quando Gesù fece il suo ingresso trionfale in Gerusalemme (Matteo 21.9), hanno connessione al tempo della fine, quando Israele riconoscerà proprio in Lui il Messia promesso: quando Nostro Signore morì, Giovanni nel suo Vangelo fece due annotazioni in 19.36: “Questo avvenne perché si compisse la scrittura: «Non gli sarà spezzato alcun osso». E un altro passo della Scrittura dice ancora: «Guarderanno a colui che hanno trafitto»”.
Ora, se la prima è chiara perché il colpo di lancia del soldato romano non spezzò nessun osso e a Gesù non furono rotte le gambe perché era già morto, la seconda va oltre alla semplice constatazione del popolo della Sua morte, coinvolgendolo nel futuro: infatti “Non voglio che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi – disprezzando Israele –: l’ostinazione di una parte di Israele è in atto fino a quando non saranno entrate tutte le genti – cioè non sarà compiuto il numero dei salvati –. Allora tutto Israele sarà salvato, come sta scritto: «Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà l’empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati». Quanto al Vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio – nel senso che, se non lo avessero rifiutato, le dinamiche della salvezza sarebbero state differenti –; ma quanto alla scelta di Dio, essi sono amati a causa dei padri, infatti i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia a motivo della loro disobbedienza, così anch’essi ora sono diventati disobbedienti a motivo della misericordia da voi ricevuta, perché essi ottengano misericordia.” (Romani 11.25-32).
Sarà cura del prossimo studio esaminare, per quanto consentito dallo Spirito, le modalità del ritorno di Israele a Cristo: lo faremo esaminando il capitolo 14 del libro di Zaccaria.
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